Marco Ciuffreda, Marcello Lonzi, Katiuscia Favero, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Carmelo Castro, Giovanni Lorusso, Stefano Cucchi: una breve
lista di persone morte dietro le sbarre. Solo nel 2009, 100 decessi
«per cause naturali» e 58 suicidi. Numeri e storie di una realtà
al limite del collasso, le cui cause e problematiche sembra
continuino ad essere ignorate dalla politica unicamente
impegnata a ripetere i soliti mantra sull’amnistia
«Occorre dare atto all’assessore al Bilancio, Stefano Cetica, di aver dimostrato sensibilità, individuale ed umana, riguardo il tema delle carceri». Questa è l’attestazione di fiducia fatta dai radicali in merito all’approvazione del sub-maxi-emendamento sulla situazione dei detenuti nel Lazio. Il Consiglio Regionale, quest’estate, ha approvato un emendamento, depositato dalla Giunta, che aumenta di 250mila euro le risorse destinate ai diritti dei carcerati ospitati nelle prigioni regionali.
Questa è l’unica buona notizia, inerente al “problema carceri”, che sono riuscito a trovare sui quotidiani di questo ultimo periodo. Una goccia in un mare che sempre più frequentemente viene attraversato da bufere. All’inizio di ottobre, ad esempio, la situazione a Regina Coeli è descritta chiaramente da Angiolo Marroni, Garante regionale del Lazio per i detenuti. «Detenuti costretti, per il sovraffollamento, a dormire in 6 o 8 in celle che dovrebbero contenerne la metà o su materassi gettati in terra in locali destinati alla socialità, con soli 20 minuti di aria al giorno a disposizione, qualche volta senza mangiare, e con il rischio di epidemie alle porte».
Noi tutti dovremmo cominciare a vergognarci, «carceri così affollate non sono degne di essere umani», a dirlo è il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlando nel carcere minorile di Nisida a Napoli. Oggi il problema del sovraffollamento è scandaloso. Ci sono voluti solo 4 anni per tornare ai livelli del 2006, anno dell’ultimo provvedimento di indulto (legge 241/06). Mentre nel 2006 erano 60.000, nel 2010 i detenuti erano già 70.000, con un tasso medio di sovraffollamento che supera il 150%.
Con circa 1.000 nuovi ingressi al mese, il Censis stima che a fine 2012 si dovrebbe «sfiorare la quota di 100.000 detenuti. E tutto questo in un momento storico in cui l’andamento della criminalità sembrerebbe essere in fase decisamente calante».
«Tutto ciò - viene descritto nel quarantaquattresimo rapporto del Censis - porta ad una situazione che, nella maggior parte dei casi, è al di sotto della soglia minima di vivibilità, e che tra l’altro ha determinato (il dato è fermo al momento della stesura del presente rapporto) a numerose rivolte, evasioni, ferimenti di guardie carcerarie e al suicidio di ben 57 detenuti nel 2010».
La realtà è che comunque i detenuti non sono troppi in assoluto, il loro numero è in linea con le medie europee, i problemi italiani sono legati al rapporto delinquenti e posti-cella. Tale rapporto rende la loro vita, come quella dei poliziotti, al limite del sopportabile. Tranne lodevoli eccezioni di carceri modello, i carcerati possono trascorrere dalle 20 alle 22 ore al giorno rinchiusi nella cella. In quello spazio così ristretto e affollato si fa di tutto, dal mangiare all’andare in bagno. Le cose si complicano ulteriormente se si pensa alla potenziale conflittualità che si può generare dalle diversità dei coabitanti, persone di differente età, estrazione, salute, religione, etnia e soprattutto caratura criminale.
Nell’ultimo anno, poi, oltre ad aumentare i detenuti sono anche peggiorati i servizi, anche quelli essenziali come il cibo o l’acqua. Il taglio governativo delle risorse, scrive il giornalista Marco Travaglio, «ha fatto drammaticamente diminuire il lavoro dei detenuti, peggiorare la pulizia delle celle, persino scarseggiare le dotazioni per l’igiene personale. A ciò si aggiungono le carenze strutturali di molti penitenziari (a cominciare dall’assenza di un minimo di manutenzione delle strutture) e i vuoti di organico nel personale, soprattutto nella Polizia Penitenziaria, che presto renderanno addirittura inutilizzabili alcune carceri esistenti: per cui i posti cella, anziché aumentare come promesso, diminuiranno ancora».
L’istituto carcerario di Gela, ad esempio, sembra l’emblema di un problema di difficile soluzione. «Tutti gli adempimenti che dovevano essere compiuti da Comune, Provincia e Regione sono stati regolarmente espletati. Adesso aspettiamo risposte da Roma». Questo lo sfogo del sindaco della cittadina siciliana, Angelo Fasulo, a proposito del carcere, inaugurato già due volte e ancora chiuso.
Sempre più vicini al ‘Terzo mondo’
Siamo al paradosso, le condizioni igieniche peggiorano costantemente e invece che accelerare la burocrazia ci si mette a discutere. A dimostrare il decadimento del settore carcerario italiano ci sono le tante storie di quest’estate.
Uno dei casi più inquietanti è quello legato ad un uomo di 35 anni, recluso nel settore di “alta sicurezza” di Caltanissetta, che è morto per via di una meningite virale. A renderlo noto è stato il vicesegretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria Osapp, Mimmo Nicotra, che, inoltre, esprime «preoccupazione» per il personale che, «visti i tempi di incubazione del virus (otto giorni), potrebbe essere stato contagiato».
C’è poi il caso «dell’acqua avvelenata» dall’arsenico fornita ai carcerati di 128 Comuni. A un anno dal provvedimento 7605/2010 della Commissione Europea, che negava all’Italia la deroga al consumo di acque potabili con alti contenuti di metalli pesanti nocivi, la situazione non sembra essere stata risolta. Sono almeno cinque gli istituti di pena nel Lazio in cui si continua a somministrare acqua vietata dall’Ue, sarebbero a rischio almeno la metà dei 6.500 detenuti, ovvero tutti quelli che non si possono permettere di acquistare l’acqua in bottiglia. «L’emergenza va considerata su scala nazionale. Noi abbiamo - denuncia Domenico Nicotra, - verificato che anche a Cosenza mancano forniture di acqua potabile che rispetti i limiti di arsenico imposti dall’Ue e il problema affligge circa 300 detenuti della locale Casa circondariale».
I radicali annunciano che presenteranno «un’interrogazione parlamentare al ministro della Salute Ferruccio Fazio e al ministro della Giustizia Nitto Palma». Quello dell’inquinamento, sottolinea la deputata radicale Rita Bernardini, «è un problema non più procrastinabile». La mappa delle ombre continua con Ancona, il Sappe il 13 settembre ha denunciato che «detenuti in sovrannumero» dormivano in locali «sprovvisti di bagni» e quindi erano costretti a fare pipì in non meglio precisati «contenitori». Tutto questo nel carcere di Montacuto ad Ancona, «dove a fronte di una capienza prevista di 178 persone, si trovano 448 reclusi. Alcuni sono costretti a dormire nelle salette per le attività ricreative sprovviste di bagni, con difficoltà nel soddisfare i più immediati bisogni fisiologici. Una cosa vergognosa - tuona il segretario regionale del Sappe Di Giacomo -, oltre i limiti dell’accettabile».
E quando sembra che la politica latiti o pensi ad altro, in Italia arriva la magistratura. Il penitenziario di Lecce, sarà costretto a risarcire un detenuto recluso in una cella troppo piccola per «danni esistenziali». «Il detenuto tunisino, in carcere per furto aggravato, è stato costretto a trascorrere le sue giornate in una cella di 11,50 metri quadrati, destinata ad una sola persona, condividendola con altri due detenuti e dormendo su un letto a castello a tre piani, di cui l’ultimo a pochi centimetri dal soffitto. In aggiunta la cella è dotata di servizi igienici piuttosto precari». Per questo il giudice ha stabilito che l’uomo venga risarcito con la cifra di 220 euro. Primo caso in Italia e forse apripista per una serie di cause incalcolabile. Già pronta infatti una class action che si occuperà di altri casi pendenti simili a questo.
«Non mi riguarda»
Spesso è quello che la maggior parte delle persone pensano quando ascoltano storie, sempre più frequenti, di maltrattamenti o «strani incidenti» all’interno delle carceri italiane. Gustavo Zagrebelsky, nell’introduzione al libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, ‘Quando hanno aperto la cella’, ci ricorda che è la «rimozione» a far emergere in noi la «cattiva coscienza».
«Quando siamo al semaforo in auto e vediamo avvicinarsi - scrive Zagrebelsky - un lavavetri o un venditore ambulante voltiamo la faccia dall’altra parte per evitare di incrociare il loro sguardo. Non mi riguarda pensa la buona società. E si volta dall’altra parte. Allo stesso modo, essa, nella sua gran parte, si comporta con chi viene da lontano come straniero, oggi nella veste di “clandestino”. Così, nella stessa logica ben più drammaticamente, le vicende - di giovani che entrano nel nostro sistema carcerario - vengono accantonate, rimosse. Si tratta di uno strabismo col quale dissimuliamo diffidenza, egoismo, chiusura in noi stessi». Il libro di Manconi e Calderone racconta proprio le storie di questi uomini dalle vite «rimosse». Certo il testo non vuole essere un atto di accusa contro le Forze dell’ordine, né contro lo Stato, di certo, però, le «tragedie» e le «fatalità» cominciano ad essere troppe anche solo per essere elencate tutte.
«Nell’ottobre del 2010 - viene riportato in ‘Quando hanno aperto la cella’ - le cronache parlano della morte di Simone La Penna, detenuto nel carcere di Viterbo e poi in quello romano di Regina Coeli. In nove mesi di reclusione, presumibilmente a seguito di una forma di anoressia, della quale già in precedenza aveva patito, il suo peso passa da oltre ottanta chili a quarantatré. A ciò si aggiungono frequenti episodi di vomito e squilibri nei livelli di potassio. Nonostante questo, la sua condizione viene definita più volte “compatibile con la detenzione”. Il 26 novembre del 2009 viene trovato cadavere nell’infermeria di Regina Coeli, quattro ore dopo il decesso. Nell’ottobre del 2010 si ha notizia di un’indagine per omicidio colposo a carico di sette tra medici e infermieri di Regina Coeli e del reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini.
Ancora. Il primo novembre 2010 sulla prima pagina della Repubblica si dà notizia di tre “morti invisibili”, che sarebbero avvenute nelle carceri di Regina Coeli e di Augusta (Siracusa). Tre cittadini della ex-Jugoslavia, Marko Hadzovic di 32 anni, Paolo Iovanovic di 27, Mija Diordevic di 40, hanno trovato la morte in circostanze in cui si incrociano possibili violenze, mancata assistenza terapeutica e incontrollata somministrazione di farmaci».
La «mancata assistenza terapeutica» è forse la causa di morte anche di Stefano Cucchi, il caso drammaticamente più noto. Secondo i magistrati della Procura di Roma, la morte di Cucchi sarebbe conseguente «all’abbandono di persona incapace»: questo profilerebbe una accusa nei confronti dei medici e infermieri del Pertini, più grave dell’omicidio colposo, sanzionabile fino ad 8 anni di reclusione mentre il colposo è cinque anni. Nel capo di imputazione i pm scrivono che i medici e gli infermieri in servizio dal 18 ottobre al 22 ottobre dello scorso anno «abbandonavano Stefano Cucchi del quale dovevano avere cura» in quanto «incapace di provvedere a se stesso». In particolare il giovane «era affetto da politraumatismo acuto, con bradicardia grave e marcata, alterazione dei parametri epatici» e «segni di insufficienza renale». Una situazione, secondo i magistrati, che lo poneva «in uno stato di pericolo di vita» e che quindi «esigeva il pieno attivarsi dei sanitari» che invece «omettevano di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione e adottabilità, e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo peraltro certamente idonei a evitare il decesso del paziente».
«La storia di Stefano Cucchi - scrivono Luigi Manconi e Valentina Calderone - non è una storia di malasanità e neanche una storia di carcere. La sua vicenda è un esempio paradigmatico del fallimento della “macchina della giustizia” e di come questa sia in grado di provocare danni incalcolabili: insinuandosi, spandendosi, coinvolgendo e contagiando tutta una serie di apparati e figure che avrebbero tutt’altra missione rispetto a quella, evidentemente così prioritaria, della repressione e della custodia».
«Bastava un cucchiaino di zucchero» e Stefano si sarebbe salvato, scrivono i pm Barba e Loy nell’avviso di fine inchiesta. Tra le varie mancate cure contestate al primario Aldo Fierro, a quattro medici e tre infermieri (i dirigenti medici di primo livello Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi e Preite De Marchis, e i tre infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, si salva dall’accusa di abbandono di incapace aggravato dalla morte solo la dottoressa Rosita Caponetti), c’è anche quella di aver volontariamente omesso di «adottare qualunque presidio terapeutico al riscontro di valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica come pericolosa per la vita (per un uomo pari a 45mg/dl), neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d’acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso».
La tragedia di Stefano inizia dalla caserma di via del Calice, nella serata del 15 ottobre, e finisce all’obitorio, dove viene portato il corpo nella tarda mattinata del 22 ottobre. Sette giorni in cui Cucchi diventa invisibile, intollerabile, smette di essere un individuo per diventare altro. Pasquale Capponi, trascrisse una lettera riferita da Alaya Tarek, un extracomunitario che raccolse le confidenze, finita poi nelle mani del senatore dell’Italia dei Valori Stefano Pedica e consegnata alla Procura. In quello sfogo Stefano afferma che fu «ammazzato di botte» dai carabinieri. «Tutta la notte ho preso botte per un pezzo di fumo». Questa la miccia di una tragedia e della fine di un ragazzo, di un fantasma che ha attraversato luoghi dove lo «Stato è presente con i suoi apparati, le sue procedure, i suoi funzionari (compresi i presidi medici dove opera personale sanitario appartenente all’Amministrazione pubblica e i posti di Polizia presso il pronto soccorso degli ospedali) e dove Cucchi viene trattenuto e sorvegliato, trattato e costretto e dove subisce abusi e illegalità. E dove, ancora, una lunga schiera (decine di persone) di carabinieri e agenti di Polizia Penitenziaria, magistrati e avvocati, medici e infermieri, funzionari e operatori penitenziari - dal momento in cui la violenza fisica viene inferta, forse da più autori -, chiudono gli occhi per non vedere, si astengono, omettono, quando non contribuiscono a fare del male, abusando del loro ruolo o mancando ai doveri che quel ruolo impone, negando e falsificando, trascurando e abbandonando».
Oltre le indagini, oltre la giustizia, il caso di Stefano ci dimostra come un’Istituzione, come quella carceraria, se lasciata allo sbando si può trasformare in un inferno. Sarebbe bastato poco per salvare la vita di Stefano, sarebbe bastato interessarsi di lui. Il magistrato scrive: «era nelle mani dello Stato e nelle mani dello Stato è deceduto». Si tradisce così il ‘patto’ (ubbidienza in cambio di sicurezza) fondante del rapporto con lo Stato, che tra i primi doveri ha quello di garantire l’intangibilità fisica (e psichica) delle persone. «Da un lato - viene descritto in ‘Quando hanno aperto la cella’ -, infatti, sin dalle teorie contrattualistiche (in particolare, ma non solo hobbesiane) si è individuato nel dovere statuale di proteggere l’integrità individuale da turbative esterne, il principale requisito di legittimazione dello Stato. Dall’altro, sin dal 1215, con la Magna Charta, lo Stato si è impegnato a non “mettere le mani” sul corpo delle persone; a non limitarne cioè la libertà personale, garantendone l’immunità da arresti arbitrari». Per continuare, poi, con il citare Michel Foucault e la sua de-fisicizzazione della pena, che tende a mutare da «arte di sensazioni insopportabili» a «economia di diritti sospesi». Oggi, invece, sembra assistere ad una rapida retro marcia. Lo Stato tende ad assumere l’atteggiamento che ha avuto, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, verso le «classi pericolose».
Oggi, essere uno straniero, un tossicodipendente o, semplicemente, povero è la discriminante che può porre il soggetto tra le «classi pericolose», ogni giorno di più «criminalizzate», facendogli perdere la propria umanità, rendendolo altro.
Numeri, nodi e cause
del sovraffollamento
La gravità e lo sconcerto che provoca questa storia dovrebbe sommarsi hai freddi numeri forniti dal Censis. «Il dato sul numero di detenuti, già di per sé preoccupante, è reso ancora più drammatico dalla presenza di altri fattori di disagio, che rilevano in pieno quale sia la gravità della situazione che vive chi ha commesso un reato ma anche chi lavora, come guardia penitenziaria o con altre mansioni, in carcere». Infatti, il «26,9% dei detenuti è straniero, il 24,5% è tossicodipendente (15.887 al 31 dicembre 2009, di cui 3.788 stranieri), il 2,3% è dipendente da alcol (1.501 detenuti alla stessa data), l‘1,8% (1.148 detenuti) è infetto da Hiv. E pensare che le guardie penitenziarie sono 39.569, sotto organico di circa 6.000 unità rispetto alle 45.121 previste dal decreto legislativo n.146 del 21 maggio 2000». Completamente insufficienti a gestire una situazione che diventa di giorno in giorno più complessa.
Il Censis non si limita ad elencare le problematiche, nel suo rapporto delinea anche le cause. «In primo luogo va considerato l’effetto che la lunghezza dei procedimenti giudiziari, unita al massiccio utilizzo della custodia cautelare, determinano nei nostri istituti, dove circa 30.000 detenuti, pari a circa il 44% del totale, si trovano in custodia cautelare, ovvero sono in attesa di uno dei gradi del procedimento e vanno considerati innocenti. Tra questi la gran parte (15.111 al 31 ottobre 2010) è in attesa del giudizio di primo grado. Ora è evidente che se si giungesse al più presto ad un abbreviamento dei tempi delle procedure di giudizio o comunque si riducessero al minimo i casi di custodia in carcere, si otterrebbe come effetto immediato di svuotare velocemente le carceri dei detenuti giudicati innocenti. C’è poi da considerare che la maggior parte dei condannati (il 51% del totale nel primo semestre del 2010, 18.769 in valore assoluto) si trova a dover scontare una pena - o una pena residua - inferiore a tre anni (e tra questi ben 11.601 hanno una pena inferiore ad un anno) e quindi avrebbe i requisiti per usufruire delle misure alternative alla detenzione. Tali misure risultano poco utilizzate. Al 30 giugno 2010 i detenuti che ne usufruivano erano 12.560 (7.800 gli affidamento in prova, 868 in semilibertà, 4.692 alla detenzione domiciliare), un numero lontano dalle cifre del periodo precedente all’ultimo indulto».
L’alto tasso di detenuti è dovuto anche dal continuo ricambio di persone che vanno in carcere per brevissimi periodi di tempo, colpevoli di reati minori (liti, risse, ingiurie, omissioni di soccorso) o di comportamenti che solo in Italia sono definiti criminosi. Basti pensare al reato di clandestinità o alle truffe di pochi euro (falsificazione del biglietto dell’autobus).
Come abbiamo visto, poi, quasi il 40% dei detenuti nelle nostre prigioni sono stranieri, quasi tutti extracomunitari, perlopiù clandestini. «La legge Bossi-Fini n. 189 del 2002 - scrive Marco Travaglio su ‘Il Fatto Quotidiano’ - non è tutta sbagliata. Ma andrebbe seriamente emendata. Fino a qualche mese fa, quando una direttiva europea ha di fatto depenalizzato la clandestinità e i reati collegati al semplice status di irregolare, l’articolo 15 della legge produceva 10-15mila nuovi detenuti all’anno: un quinto del totale. Perché prevedeva (e prevede ancora) un meccanismo tra l’ipocrita e il demenziale per l’immigrato che rimane sul territorio dello Stato dopo la notifica dell’ordine di espulsione: il clandestino viene fermato, riceve il foglio di via e di solito non va via; se lo ripescano, lo arrestano per 2-3 giorni e le volte successive lo ributtano in carcere per periodi più lunghi a causa del cumulo pena. Basterebbe espellerlo e il circolo vizioso finirebbe in partenza. Ma i rimpatri non si fanno perché mancano i fondi presso le questure e le prefetture; o meglio, i fondi ci sarebbero, ma vengono sperperati per le espulsioni in via amministrativa, che rendono di più sul piano della propaganda e danno il vantaggio di liberare i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) gestiti dal ministero dell’Interno. Risultato: l’immigrato sbarca, viene fermato perché è senza documenti, viene tradotto nel Cie, la questura avvia le procedure di identificazione e poi lo espelle. Se invece viene arrestato, chi se ne frega: così fa qualche giorno di carcere, contribuendo all’esplosione del sovraffollamento, poi esce, poi lo ribeccano senza documenti, poi rientra e così via all’infinito. Così si scarica sui Tribunali e sulle carceri un problema, quello della clandestinità, che andrebbe risolto per via amministrativa».
Per continuare la lunga lista delle cause dovremmo fare un lungo discorso sulla legge “ex-Cirielli” e sui vari “pacchetti sicurezza”, ma i temi sono lunghi e complessi. Per ora ci limiteremo a citare il “problema droga”. Il Censis segnala «come circa 30.000 detenuti si trovano in carcere per avere contravvenuto alla legge sulla droga e circa 4.000 a quella sull’immigrazione: due norme particolarmente restrittive e ispirate al principio della certezza della pena che hanno determinato la crescita della popolazione carceraria».
Ogni anno entrano in carcere, magari per brevi periodi, migliaia di persone arrestate solo perché consumatrici di dosi eccedenti quelle stabilite dalla legge Fini-Giovanardi (n. 49 del 2006). L’equiparazione tra droghe leggere e pesanti, pene oggettivamente spropositate per reati a volte irrisori (piantare un seme di marijuana sul balcone) sono i motori dell’aumento dei carcerati e dei condannati per droga. Dovremmo smetterla di inventare nuovi reati, la magistratura fa già fatica a perseguire quelli gravi. Arriviamo a paradossi assurdi. «Negli ultimi anni - spiega Travaglio - hanno tentato, finora invano, di inventare un reato apposito contro i graffitari (esisteva già il danneggiamento), mentre ce l’han fatta per chi maltratta gli animali (da 3 mesi a 1 anno di carcere, mentre chi picchia un uomo rischia solo da 15 giorni a 6 mesi; oltretutto la prescrizione è assicurata, e allora non sarebbero meglio salatissime multe in via amministrativa?). Quel gran genio di Frattini ha proposto addirittura un apposito delitto di “traffico di cuccioli di animali da compagnia”».
Per fortuna c’è il piano carceri
Nel gennaio 2010 il governo è intervenuto sulla questione del sovraffollamento dichiarando lo stato di emergenza e nominando il direttore del Dap, Franco Ionta, Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria. Il suo compito è accertarsi che il piano carceri venga attuato. Il piano prevedeva tre tipi di interventi. L’ampliamento del numero dei posti disponibili mediante la realizzazione, a partire dal 2011 ed entro la fine del 2012, di 18 nuove carceri, di cui 10 flessibili, per complessivi 21.709 nuovi posti.
Le risorse da destinare a questi interventi vengono individuate in 600 milioni di euro (500 milioni dalla legge Finanziaria del 2010, cui si aggiungono 100 milioni dal bilancio del ministero della Giustizia). Tali propositi vengono però ridimensionati dal Piano del Commissario straordinario, presentato il 29 giugno 2010, che stabilisce che entro il mese di giugno del 2012 vengano costruiti 20 nuovi padiglioni all’interno degli istituti già esistenti per un totale di 4.400 posti e una spesa di 231 milioni di euro, e 11 nuovi istituti al costo di 430 milioni di euro, per un totale di 4.750 posti da realizzare entro dicembre 2012. I posti si riducono a 9.150; ben poca cosa, se si considera che già allo stato attuale mancano almeno 23.000 posti e che i detenuti sono in continuo aumento. «Oltre tutto - scrive Silvia D’Onghia sul ‘Fatto Quotidiano’ - il neo guardasigilli, Francesco Nitto Palma qualche giorno fa ha annunciato di voler virare su 11 penitenziari “a bassa sicurezza e costi minori” sul modello di quelli americani. “Entro settembre – ha aggiunto – saranno bandite le gare dei primi venti padiglioni da 4.500 posti-detenuti, che saranno conclusi a fine 2012”. Sarà da vedere.
Nel frattempo, però, il Piano inesistente continua a spremere le casse dello Stato. Sullo stesso sito c’è, infatti, quella che viene definita “operazione trasparenza”, cioè la pubblicazione dei compensi dei consulenti (esterni) chiamati da Ionta. Apprendiamo dunque che, nel secondo semestre 2010, sono stati versati 40mila euro ciascuno a quattro “soggetti attuatori” e 15mila euro, sempre pro capite, a nove “contrattisti”. Nella prima sezione si va dalla commercialista fiorentina Fiordalisa Bozzetti al “prof. avv. Andrea Gemma” dello studio legale e tributario Gemma&Partners (un giovane avvocato che insegna presso la scuola forense dell’Università Roma Tre). A 40mila euro troviamo anche Mauro Patti, un ingegnere siciliano amico di Alfano, e l’avvocato Massimo Ricchi, classe 1965, pratica forense nello studio del finiano Giuseppe Consolo».
Considerazioni e conclusioni
«Stiamo pensando ad un decreto legge per dare un regime di detenzione domiciliare a coloro a cui manca soltanto un anno di carcere». Lo ha anticipato il premier Silvio Berlusconi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Il ministro della Giustizia, durante la visita al carcere minorile di Nisida, ha precisato: «Non mi pare che vi sia un accordo politico». Poi ha aggiunto: «Abbiamo un grave problema di sovraffollamento, è giunto il momento di intervenire». Palma si è poi detto disponibile a portare in Parlamento alcune proposte di depenalizzazione dei reati. Queste per ora sembrano solo parole.
«L’introduzione di misure deflattive - conclude il Censis -, con la possibilità di scontare l’ultimo anno di pena residua agli arresti domiciliari e l’introduzione della messa in prova», se anche fossero realizzate appieno «non garantirebbero comunque il raggiungimento di una situazione soddisfacente all’interno delle nostre carceri, tale da garantire al contempo condizioni di vita accettabili e la possibilità di un recupero dei detenuti alla società civile.
La sensazione è che, per evitare che si ripropongano a cadenze fisse situazioni di emergenza non più tollerabili, si dovrebbe procedere attraverso un progetto complessivo, che tenga conto di tutte le componenti del sistema carcere e di tutte le problematiche in esso presenti, a partire da un ripensamento sullo stesso valore da dare alla detenzione, sulla funzione riabilitativa del carcere, sull’utilizzo delle misure alternative».
E allora che fare? In questi ultimi mesi gira sempre più spesso la parola amnistia. «Ogni tanto si parla di un’amnistia, dal ’45 ce ne sono state 24, non so se si creeranno le condizioni». Queste le parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Si potrebbe obiettare che allora non c’è nulla da fare. Non è così. Pensiamo magari a cambiare qualche legge e soprattutto a cambiare mentalità. Le politiche di depenalizzazione e le misure alternative al carcere del centro sinistra hanno fallito. La politica della “tolleranza zero” (solo contro gli strati marginali della società) del centro destra ha solo portato ad aumentare i carcerati. Oggi basterebbe cancellarle queste leggi al limite dell’intollerabile (Bossi-Fini ed ex-Cirielli) e cambiare quella sulla droga. Gli ospiti delle galere scenderebbe all’istante di diverse migliaia di unità, riportando la situazione nelle carceri in una condizione quantomeno dignitosa.
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