La fotografia del nostro Paese che emerge
dall’ultima analisi dell’istituto
ritrae un popolo che reagisce alle sempre maggiori
difficoltà mutando il suo comportamento in peggio: i tanti
episodi di una violenza apparentemente immotivata
possono essere ricondotti a una serie di fenomenologie
dell’insicurezza che nasce dal disagio e quindi
spesso più percepita che reale
L’anno trascorso è stato dominato dagli effetti della crisi, l’impatto più duro l’ha subito l’occupazione e la protezione sociale. «In sostanza - scrive il Censis nel suo ‘Rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2010’ -, le contraddizioni strutturali del welfare italiano, dall’asimmetria tra domanda e offerta alle difficoltà di finanziamento, si vanno intrecciando con le attuali difficoltà che, in pratica, stanno ampliando il bacino dei soggetti fragili e dei bisogni di copertura».
Anche se a breve termine il sistema Paese ha retto «l’improvviso rialzo della richiesta di reddito e di tutela», sono stati intensificati l’uso degli ammortizzatori sociali, ha fatto arrivare le uscite a 453.360 milioni di euro correnti (il Censis si riferisce al 2009 e per il conteggio usa il sistema europeo delle statistiche integrate della protezione sociale Sespros96), pari al 29,8% del Pil. «Il saldo - ci ricorda il Rapporto del Censis - tra entrate ed uscite è negativo, pari a -241 milioni di euro».
Nel medio-lungo periodo questa differenza ricadrà sicuramente sugli strati più fragili della classe media della società italiana. «Un effetto sicuro di questa fase - continua il Censis - sarà l’ampliamento del disagio sociale, cosa che renderà più aspre le contraddizioni strutturali del welfare, a cominciare dalla già citata asimmetria quali-quantitativa tra offerta di tutela e composizione della domanda sociale».
Le scelte di politica economica del nostro governo, poi, anche quest’anno non sono cambiate molto, persiste una logica di aggiustamenti per comparti con, «ad esempio, ulteriori ritocchi all’età pensionabile per la previdenza, con un primo disvelamento dei costi standard per la sanità, e con un ulteriore frammentazione degli strumenti contro la povertà». Scaricare poi le responsabilità alle varie «dimensioni territoriali del welfare» rischia solo di aumentare il divario tra Nord e Sud e tra Regioni ricche e non.
Ricapitolando; la crisi economica, il già precario stato delle finanze pubbliche, le scelte settoriali e poco coraggiose del Governo e una “atavica” criticità del sistema produttivo italiano sono la cornice di un Paese che quest’anno ha visto modificare i comportamenti sociali. «L’azione sempre più evidente - riporta il Censis - di progressiva riduzione delle tutele continuamente sottoposte al vincolo stringente della carenza di risorse è giunta quest’anno a un punto cruciale, come testimoniato anche dall’impatto sui comportamenti sociali. In molti casi le famiglie sono già oltre la rassegnazione rispetto a un welfare sempre più povero e in difficoltà, e mentre continuano ad usufruire di un’offerta che con enormi difficoltà garantisce uno zoccolo duro di prestazioni e si è mostrata certamente indispensabile per rispondere alla crisi economica, non cessano di attivare tentativi di arrangiamento su più fronti, ormai oltre le logiche dell’autotutela fondata sull’esigenza di personalizzazione». Ovvero le strategie economiche individuali si basano sempre di più sull’aiuto della famiglia e sui membri più anziani di essa.
Il pessimismo nasce anche dal fatto che pure le famiglie sono sempre più sole nell’affrontare la crisi. «L’arretramento delle politiche sociali ha determinato in non pochi casi una situazione di vera e propria solitudine delle famiglie con problemi, rispetto alla quale anche l’azione del volontariato ritorna ad essere l’unica risposta presente soprattutto in certe situazioni e certe zone del Paese, come i volontari stessi testimoniano quando descrivono, e in misura decisamente più marcata al Sud, come risultato della propria attività il “dare aiuto a chi, per tanti motivi, non ne riceve da altri canali/soggetti”».
Insicurezza ed aggressività
Il settore critico, dove neanche il volontariato più generoso può arrivare, è la sicurezza. I fatti di cronaca risultano essere, ogni giorno di più, il sintomo dell’insicurezza individuale. Oltre ai casi clamorosi, come i ragazzi insorti a Londra perché privi di un futuro, lavoro o un posto dove andare, la vita di ogni giorno è scandita anche da fatti altrettanto paradossali. L’esempio dell’autista picchiato dal marito di una passeggera è solo la punta di un iceberg che rischia di essere gigantesco. «Si tratta della crescita - ammonisce il Censis - del tasso di aggressività, che sfocia nei tanti episodi di violenza apparentemente immotivati, e che può essere ricondotta ad una serie di fenomenologie dell’insicurezza».
Anche se per ora questo discorso può sembrare una mera speculazione intellettuale, cercheremo di dimostrare, più avanti, con i numeri le nostre ragioni; dobbiamo comprendere che c’è un sostanziale divario tra percezione della sicurezza (che porta all’insicurezza) e il reale numero di crimini compiuti in Italia.
Nel 2009, seppur in modo meno sensibile, è proseguita la diminuzione dei reati. Sono stati denunciati un «totale di 2.629.831 delitti, pari a 435,8 ogni 10.000 abitanti, con una riduzione del numero di reati del 3% rispetto all’anno precedente. Tale decremento, rilevato in tutte le aree del Paese, è però maggiore al Sud, dove i reati diminuiscono del 4,9%, e al Centro (-3,3%)».
Se analizziamo i dati del Censis, relativi all’ultimo decennio, notiamo come la criminalità sia andata diminuendo dal 1999 al 2001, «per poi aumentare dal 2002 al 2007 e diminuire di nuovo negli ultimi due anni: nel complesso si è passati dai 2.373.966 reati denunciati nel 1999 ai 2.629.831 del 2009, con un aumento del 10,8%».
«Già lo scorso anno - spiega il Censis -avevamo avvertito con preoccupazione come l’allarme sociale, più che essere condizionato dall’effettivo aumento dei reati, sembrava essere influenzato dal modo in cui i media trattano gli episodi criminali.
Oggi questo fenomeno sembra essere stato portato a compimento, e sebbene nell’ultimo anno i delitti denunciati siano in diminuzione e in Italia vi siano indici di criminalità che sono al di sotto degli standard europei, all’interno della popolazione rimane salda la convinzione che i reati siano in crescita e che, soprattutto, aumentino i reati violenti commessi da chi ci sta vicino: amici, parenti, conoscenti».
Su questo punto il Censis non ha dubbi, la sensazione dei cittadini è frutto di una comunicazione adottata dai media, che scelgono sapientemente «qualche episodio di cronaca nera particolarmente efferato per trasformarlo in una sorta di reality della realtà che riesce a garantire audience per mesi o anche per anni».
Se oltrepassiamo i dati generali sui crimini, concentrandoci sulle tre fattispecie di reato «che destano maggiore allarme sociale, ovvero gli omicidi, le rapine e i furti, si ha che: nell’ultimo decennio sono diminuiti del 4,1% gli omicidi. Si è passati dagli 805 del 1999 ai 586 del 2009. «Le rapine - viene riportato nel Rapporto - inizialmente sono aumentate sino a raggiungere la cifra record di 51.210 nel 2007, per poi diminuire vertiginosamente negli ultimi due anni e scendere a 35.822 nel 2009, il dato più basso dell’ultimo decennio (-21,9% nel solo ultimo anno). I furti hanno avuto una andamento altalenante ed hanno raggiunto il valore massimo di 1.636.656 nel 2007, mentre nel 2009 sono 1.318.076 (-5,3% nell’ultimo anno)».
Tuttavia, e questa è una delle cause di maggiore percezione d’insicurezza, esiste una forte concentrazione di reati nelle grandi aree urbane: «in 12 provincie, nelle quali vive il 33,6% della popolazione italiana, sono stati commessi 1.137.261 reati, pari al 43% del totale, con una media di 56,1 reati ogni 1.000 abitanti (in Italia la media è di 43,6)».
Oltre ad essere maggiormente colpite dalla criminalità, grande e piccola, le aree urbane vedono al loro interno moltiplicarsi le diverse forme di disagio. Si passa dalle difficoltà dovute alla scarsità, se non assenza, di lavoro al disagio «di quanti abusano di sostanze alcoliche e di stupefacenti, al disagio estremo dei poveri e degli emarginati. Tutti soggetti che sono insieme vittime e artefici delle tante aggressività che attraversano la nostra società».
Secondo il Censis, nel 2009 sono stati 533 i Servizi per le tossicodipendenze attivi (Ser.T), un numero pari a quello del 2008, ma in diminuzione nell’ultimo decennio. «Al contrario, in deciso aumento figurano i tossicodipendenti in trattamento, nell’ultimo decennio cresciuti del 18%, fino a raggiungere nel 2009 le 168.364 unità». Questo aumento non è stato seguito da quello delle strutture socio-riabilitative attive, «passate dal 1999 al 2009 da 1.351 a 1.108, con un calo pari al 18%».
Reati “a domanda”:
il ritorno del contrabbando
Sono crimini senza vittime apparenti, «anche se spesso possono provocare danni economici, psicologici e di salute notevoli». Generalmente per scoprirli è necessario una grande capacità investigativa e la capacità di intervento delle Forze dell’ordine, «prima tra tutte - scrive il Censis - la Guardia di Finanza. Il gioco clandestino, il lavoro nero, l’usura, la contraffazione, il contrabbando sono alcuni di questi reati che sembrano aver avuto una spinta ascensionale dalla crisi economica in atto». Quindi, tutti i reati che hanno un forte movente economico e che «presuppongono un patto implicito, una sorta di complicità, tra chi li compie e chi li subisce, possono essere definiti “a domanda”».
Tra tutti, «particolarmente interessante è la ripresa di un illecito che sembrava essere scomparso nel corso degli anni ’90, soppiantato da altri traffici più moderni e remunerativi, che è quello del mercato nero legato al contrabbando di sigarette».
Una stima precisa del mercato interessato da questo reato è difficile da fare, è possibile un solo calcolo. Guardare il numero di fumatori e analizzare le vendite di sigarette.
«Nonostante il numero dei fumatori - scrive il Censis - sia in diminuzione, il mercato del fumo è comunque molto esteso: secondo i dati dell’Osservatorio sul fumo dell’Istituto superiore della sanità, in Italia i fumatori di età superiore ai 15 anni sono circa 11 milioni, pari al 21,7% del totale della popolazione; tra questi ci sono 5,9 milioni di uomini e 5,2 milioni di donne».
Accanto a questi dati vanno poi calcolati quelli sulle vendite, che negli ultimi dieci anni «hanno visto una diminuzione costante dei quantitativi venduti». I dati forniti parlano di 89,1 milioni di chilogrammi di sigarette vendute nel corso del 2009, con una «contrazione del 3,1% rispetto ai 92 milioni del 2008 e del 13,2% rispetto al 2002. I dati relativi ai primi nove mesi del 2010, confrontati con gli stessi mesi del 2009, confermano un calo nell’ordine dell’1,3%».
Tale contrazione può essere spiegata «come effetto congiunto dell’aumento dei prezzi al consumo (un aumento che tra il 2008 e il 2009 è stato mediamente del 3,8%, tanto che al momento attuale il prezzo medio di un pacchetto di sigarette è di circa 4 euro) e dalla minore disponibilità economica indotta dalla crisi».
Ma questa spiegazione è fin troppo semplicistica, soprattutto se si considera «che il calo delle vendite non è supportato da un analogo calo dei consumatori», e che anche il commercio illegale è in cospicuo aumento.
I dati della Guardia di Finanza, infatti, riferiscono di un’impennata a partire dal 2005, «con una crescita costante che ha portato dalle 240.785 tonnellate di tabacchi esteri sequestrati nel 2006 alle 297.689 del 2009. Tale aumento - commenta il Censis -, accanto alle opinioni espresse dagli addetti ai lavori, sembra indicare chiaramente una ripresa del commercio illegale, seppure fortemente modificato nella qualità, nelle forme e nei circuiti della commercializzazione».
Gli addetti ai lavori stimano che i danni economici derivanti dal contrabbando e dalla contraffazione possano andare da «un minimo del 3% ad un massimo del 5% del fatturato del settore, per un importo che oscilla tra i 500 e i 700 milioni di euro annui».
La prima considerazione da fare, di carattere qualitativo, è legata alle modalità d’ingresso nel nostro Paese della merce contraffatta. Oltre al tradizionale contrabbando di prodotti senza il pagamento delle imposte, oggi è molto sviluppato anche il commercio transfrontaliero, che ha potuto sfruttare la libera circolazione delle merci dai Paesi da poco entrati nell’Unione Europea in cui i tabacchi lavorati vengono venduti a prezzi decisamente inferiori rispetto all’Italia. «Inoltre - viene spiegato nel Rapporto -, negli ultimi anni è cresciuto lo smercio di prodotti contraffatti, generalmente provenienti dalla Cina, che spesso contengono sostanze gravemente nocive per la salute del consumatore».
Rispetto agli anni ’90 sono cambiati anche i circuiti di arrivo e di partenza: «un tempo le sigarette di contrabbando, che provenivano principalmente dal Montenegro, viaggiavano sugli scafi diretti verso le coste della Puglia e della Campania e venivano vendute soprattutto nelle località del Sud della Penisola. Oggi sono cambiati i mercati di approvvigionamento, che sono soprattutto quelli dell’Europa dell’Est e della Cina. Le sigarette arrivano in Italia dalla Russia, dalla Moldavia, dall’Ucraina, dalla Bielorussia, dalla Polonia trasportate su gomma o per mare. E l’Italia, spesso e volentieri, non costituisce più lo sbocco finale, ma è invece una terra di passaggio verso altre destinazioni del Nord Europa dove i prezzi dei tabacchi sono ancora più proibitivi».
Negli ultimi anni sono cambiate anche le tipologie di vendita, se prima le sigarette di contrabbando si potevano acquistare in banchetti improvvisati nei vicoli di Napoli o Bari, oggi “le bionde” possono essere anche ordinate via Internet e recapitate direttamente a casa.
Anche il profilo del cliente è cambiato, «per cui accanto ai giovani o giovanissimi i cui consumi sfuggono alle rilevazioni campionarie e che risultano essere tra i principali consumatori di sigarette di contrabbando, vanno considerati i cittadini extracomunitari che, oltre ad avere un reddito generalmente più basso degli italiani, hanno più facilità a servirsi di canali di vendita paralleli a quelli ufficiali».
Per combattere questa nuova, forse sarebbe meglio dire rinnovata, attività criminale si sono intensificati i controlli e si stanno studiando sistemi di tracciatura. Rimane il fatto che non è facile «individuare quale sia la misura più efficace per fermare i traffici in un settore in cui sono in gioco interessi molto consistenti sia da parte dello Stato che da parte dei privati, e in cui è in gioco anche la salute del consumatore».
“Bisogna fare rete”
La società in cui viviamo oggi è sempre più complessa e con sempre maggiori regole, leggi e norme, che alla fine rischiamo di non rispettare. L’aggressività nasce proprio dal venir meno del senso del rispetto delle regole del vivere civile. Mettendo sullo stesso piano crimini, malcostume e maleducazione, si rischia di unificare tutti i valori creando uno sfasamento della percezione su una realtà che sembra essere in continua decadenza. «Nei nostri territori - scrive il Censis -, si sta perdendo la capacità di fare connessione, di creare relazioni, di costruire degli spazi in cui incontrarsi e stare insieme. La perdita dei legami sociali ci lascia sempre più soli con i nostri interessi individuali, e ci fa diventare un po’ più diffidenti e più cattivi nei confronti degli altri. Tanto più se gli altri sono gli ultimi arrivati, quegli extracomunitari che hanno finito con l’occupare gli spazi di territorio che non sono più presidiati».
Sul vivere sociale sembra avere la meglio una sorta di anarchia collettiva, che porta ciascuno a commettere una serie di grandi e piccole illegalità, senza neppure avere la percezione della gravità di quello che si sta facendo né delle sue conseguenze. La memoria non fa fatica a ricordare fatti di cronaca - il pestaggio del musicista nel Rione Monti a Roma - dove i colpevoli una volta ascoltati dai magistrati a stento riconoscono le accuse, loro non volevano mai «fare del male».
«Tutto questo - commenta il Censis - finisce con avere costi elevatissimi in termini di crescita del disordine e dell’allarme sociale: non siamo tranquilli, perché tutto quanto può succedere, e siamo pronti a reagire anche con la violenza».
Ma come si risponde alla crescita dell’insicurezza e dell’aggressività? Fino ad ora solo con politiche di sicurezza che, «anche quando prevedono l’intervento di soggetti diversi, sono centrate principalmente sul controllo del territorio e sulla repressione dei reati». Sarebbe necessario, invece, comprendere meglio quali sono i cambiamenti del corpo sociale, come si è modificata la comunità locale, quali sono i punti di forza (sicuramente il già citato volontariato) e quelli di debolezza, «per costruire delle politiche di sicurezza e di welfare che, senza dimenticare la repressione dei reati, si preoccupano anche di riportare al centro del territorio gli individui, la comunità e le regole che la fanno funzionare».
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