Dalla politica del «volemose bene», agli affari
e alla burocrazia che restano
«una ricotta». Questa nostra Italia
viene fotografata e analizzata nella certezza
che alla fine «ancora oggi ci siano molti motivi
per essere orgogliosi essere italiani»
Sono convinto che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere. E pure che ci assomigliamo tra noi più di quanto pensiamo.
Credo sia possibile descrivere gli italiani attraverso alcune parole-chiave. La prima è senza dubbio «noantri». Noantri non è soltanto il nome della festa di Trastevere, quando i romani scendono per strada con formaggi, fiaschi e salumi e si invitano l’un l’altro a tavola. Noantri non è solo il modo provinciale e compiaciuto di ricondurre il mondo a noi stessi, alla nostra dimensione, al nostro cortile. Noantri è una logica di vita. Siamo noi: la famiglia, il campanile, la corporazione, la fazione. È l’interesse privato che prevale su quello pubblico. Lo Stato sentito come nemico, come altro rispetto a noi. Il bene personale che viene prima di quello generale.
È una logica applicata dal popolo come dalle élites. Il mondo dello spettacolo è in mano a prolifiche dinastie: i De Laurentiis, i Vanzina, i Risi, i Comencini, i Costanzo, i Dapporto, i Sollima, i Tognazzi, i Manfredi (Sordi purtroppo non ha avuto figli e il ramo si è estinto). La politica: la prima volta che entrai in Transatlantico, mi colpi la complicità da circolo della scherma tra comunisti e fascisti, berlusconiani e dipietristi che la sera prima avevo visto litigare in tv e ora si congratulavano per le stoccate inferte e subite. Gli affari: il sistema romano delle concessioni e dei cantieri, degli appalti e della burocrazia resta «una ricotta», come diceva Giovanni Agnelli parafrasando Pasolini. La mondanità, dove gente di spettacolo, di politica e di affari si incrocia, si accoppia, si associa e non si separa mai definitivamente. Si può dire «noantri» alla romanesca, ma si può dire anche «nuialtri», come in Piemonte, oppure in Veneto: «Salvo un paio de foresti, semo tuti de noaltri».
Per il senso dello Stato, forse, dovremo attendere altri 150 anni. Ma alla patria gli italiani sono molto legati. E i festeggiamenti del 2011 l’hanno dimostrato. Da celebrazione triste, mesta, da occasione polemica, ci si è resi conto che i 150 anni erano e sono una cosa importante. La parola «patria», ancora qualche anno fa, era considerata quasi impronunciabile. Il tricolore era divenuto quasi un simbolo di destra, da sventolare nei cortei per Trieste italiana. L’inno di Mameli una spiacevole necessità, poco rispettata persino nel calcio: nella telecronaca della partita più famosa del dopoguerra, Italia-Germania 4 a 3, Nando Martellini non avverte la necessità o l’opportunità di tacere durante l’inno, continua a parlare di tattica e formazioni (non è certo colpa di un giornalista mite e corretto, è lo spirito del tempo che si faceva sentire; per quanto, proprio dopo quella vittoria, si rivide qualche tricolore per le strade).
Ora i simboli dell’unità nazionale sono ridivenuti patrimonio quasi collettivo. Il tricolore è un segno in cui la grande maggioranza degli italiani si riconosce. Lo stesso vale per l’inno di Mameli. E per il Vittoriano. Perché custodisce il milite ignoto, simbolo dei soldati caduti per l’Italia. E per le iscrizioni sui due frontoni, ‘Patriae unitati’, all’unità della patria, ma anche e soprattutto ‘civium libertati’, alla libertà dei cittadini. Quasi sempre si dimentica che il Risorgimento coincide per l’Italia con la fine dell’Antico Regime, delle monarchie assolute, delle servitù feudali, del foro ecclesiastico e della giustizia separata per il clero, dei ghetti e delle persecuzioni degli ebrei e delle altre minoranze religiose, e l’inizio della lenta espansione delle libertà borghesi, della democrazia rappresentativa, dei diritti civili. Il Vittoriano ce lo ricorda.
Credo che ancora oggi ci siano molti motivi per essere orgogliosi essere italiani. Uno è senz’altro l’orgoglio e il coraggio con cui molti dipendenti pubblici, molti servitori dello Stato continuano a fare il loro dovere. A cominciare dai militari italiani in missioni all’estero, considerati i migliori del mondo. Diceva Cavour, parlando di un uomo che non amava: “Garibaldi ha reso all’Italia il più grande dei servizi che un uomo potesse offrirgli: egli ha dato agli italiani fiducia in loro stessi, ha provato all’Europa che gli italiani sanno battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria”. Questo è vero ancora oggi. Ancora oggi gli italiani dimostrano al mondo di saper sacrificare anche se stessi, certo per la loro famiglia, ma anche per il bene comune e per la patria. Sta a noi dimostrarsi degni di loro.
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