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Luglio-Agosto/2011 - Interviste
Sanità e società
Le donne devono essere libere di scegliere
di a cura di Gianni Verdoliva

Da circa un anno a Torino si sperimenta
la RU486, la cosiddetta pillola abortiva
la cui approvazione è stata un percorso a ostacoli
e fortemente voluta da Silvio Viale, il responsabile di struttura
dove però si continua a lavorare tra indifferenza e una sorta di boicottaggio passivo


Una vista piacevole e serena, quella che si scorge dall’ufficio del secondo piano. Ospedale Sant’Anna di Torino, reparto di ginecologia. Corridoi semideserti, qualche donna in vestaglia che passeggia. Tranquillità. Una tranquillità in aperto contrasto con la bufera politica che, fino a poco tempo fa, ha investito questo settore ospedaliero. Qui infatti da circa un anno si sperimenta la RU486, la cosiddetta pillola abortiva la cui approvazione è stata un vero percorso ad ostacoli e fortemente voluta da Silvio Viale che qui lavora come responsabile di struttura.
Spesso al centro di polemiche Silvio Viale è un nome conosciuto a Torino e più in generale tra gli ambienti medici e politici di chi si occupa di aborto. Appena placata la bufera, che ha visto anche coinvolta la Giunta regionale Cota, decisamente ostile alla sperimentazione in Piemonte dell’aborto farmacologico, l’attività ritorna, si fa per dire, ai ritmi ordinari. Dove per praticare un’interruzione di gravidanza bisogna vedere tra i turni chi sono i medici e gli anestesisti non obbiettori in servizio. Dove si devono contare i giorni per evitare di sforare i termini previsti dalla legge per poter effettuare un aborto, farmacologico o chirurgico. Dove la sezione ginecologia è stata apposta distaccata da quella di ostetricia per non creare alle donne che hanno deciso di abortire situazioni psicologicamente pesanti. Dove il personale medico e paramedico è scarsamente considerato e dove si rischia ogni momento di finire nell’occhio del ciclone. “E’ da ieri che non vedo mia moglie e mia figlia” confida Viale all’inizio dell’intervista, reduce dal turno di notte ed evidentemente più sensibile della media degli uomini rispetto alla conciliazione tra vita familiare e lavoro.
Impegnato da anni anche in politica per i verdi ed i radicali, Viale si occupa anche di temi quali la libertà di scelta in materia di salute, tema che unisce, dal punto di vista etico, l’aborto e l’eutanasia. Piemontese di nascita Viale è un uomo appassionato, per alcuni figura scomoda e controversa, ma sempre deciso se non testardo nelle sue lotte; come quella che ha portato alla possibilità per le donne la RU486.
Prima di cominciare le visite pomeridiane e dopo un tentativo infruttuoso di un veloce pranzo, comincia l’intervista. Non si risparmia in parole e snocciola dati, non prima di avermi fornito la nota informativa che la struttura distribuisce alle pazienti. Deciso ma anche aperto al dialogo, determinato ma anche cordiale. Un’esperienza interessante, quella di un medico che, occupandosi di aborto, deve, per forza, anche fare attività politica. Per fare in modo che la politica e l’ideologia religiosa interferiscano il meno possibile con la medicina. E con la libertà di scelta delle donne.

Come mai ha scelto come specializzazione medica di occuparsi di aborto? Si immaginava si sarebbe trattato di un tema così controverso?
Ho scelto di occuparmi di aborto alla fine degli anni ’70 perché era una disciplina medica e chirurgica. Il mio cammino a dire il vero è stato interrotto dal momento che sono finito due anni in carcere per questioni legate al movimento di lotta sociale di quegli anni e da cui sono stato assolto. In quegli anni, in particolare dal 1979 al 1981 l’aborto era un argomento ampliamente dibattuto nella società anche per via del referendum.
Per me si tratta in primo luogo di un interesse scientifico al quale si aggiunge la motivazione politica. Ci sono voluti circa 10 anni per arrivare all’approvazione della sperimentazione della RU486 che, oltretutto, ha anche chiare possibili applicazioni in altri campi della medicina che non riguardano l’aborto. La strada per arrivare all’approvazione dell’uso del farmaco è stata costellata di ispezioni, intimidazioni ed inchieste che erano chiaramente un tentativo di vietarne la registrazione.
Ci vuole testardaggine in questi casi e per questo dico che da parte mia c’è stata e c’è sempre una motivazione anche di tipo politico.

Quali sono nel complesso i risultati della sperimentazione della RU486 in Piemonte?
I risultati della sperimentazione in Piemonte si attestano su dati già presenti nella letteratura scientifica internazionale. Dall’inizio della sperimentazione abbiamo avuto circa mille interruzioni di gravidanze fino a 45 giorni, una ventina di aborti spontanei, qualche caso di morte intrauterina.
Per quel che riguarda la permanenza nella struttura ospedaliera il 96% delle donne è tornata a casa firmando le dimissioni volontarie, nel 7% dei casi c’è stata una revisione con raschiamento in quanto l’espulsione del feto non era completa. A tale proposito devo aggiungere che il ricorso al raschiamento dopo l’aborto chirurgico è del 2%.
Nel complesso abbiamo dati lusinghieri con una percentuale di soddisfazione del 99%.
La questione del ricovero ospedaliero coatto è assolutamente strumentale in quanto eventuali problematiche non si verificano al momento della somministrazione casomai 30/40 giorni dopo in quanto il problema è il follow-up anche perché le donne non sono a conoscenza dei meccanismi di funzionamento del loro corpo.

Quali sono le difficoltà che il personale medico e paramedico non obbiettore si trova ad affrontare? Può fare esempi concreti?
Da parte delle autorità e delle dirigenze ospedaliere c’è assoluta indifferenza nei confronti del personale medico e paramedico non obbiettore. Non viene permessa e garantita la piena applicazione della legge come se noi fossimo dalla parte sbagliata, per cui alcuni si stufano di essere al centro di polemiche e cambiano l’ambito medico di lavoro. Inoltre non ci sono corsi di aggiornamento, non ci sono gratificazioni e manca l’alternativa tra la struttura pubblica e quella privata, senza contare che la progressione di carriera rimane stagnante, io stesso sono sempre responsabile di struttura semplice dipartimentale. Solo la clinica Mangiagalli a Milano, il San Camillo a Roma e l’ospedale Maggiore di Bologna hanno più interventi di noi che abbiamo numeri che giustificherebbero due reparti almeno con maggiore personale. Questo rende il lavoro più difficile. Inoltre ricordo non esiste l’obiezione di coscienza per la legge 40, né per chi deve fare il turno di notte.

La Regione Piemonte intende far entrare nelle strutture pubbliche i volontari del movimento per la vita che hanno una chiara ideologia religiosa ed antiabortista. Quali sono i rischi che possono derivare dalla presenza di esponenti di movimenti che fanno riferimento all’ideologia e non alla medicina?
Sono assolutamente contrario al fatto che il movimento per la vita abbia carta bianca all’interno delle strutture ospedaliere e che possa effettuare dei colloqui obbligatori di tipo dissuasivo con le donne che hanno deciso di interrompere la gravidanza. Nessuno obbliga le donne ad abortire e l’attività che svolgo è nel pieno rispetto della volontà della donna. Detto questo non temo certamente il confronto, se una donna che si trova in difficoltà economiche vuole entrare in contatto col movimento per la vita in modo da avere un aiuto finanziario per continuare la gravidanza sono io stesso che le fornisco i contatti. E penso anche che le donne debbano essere del tutto libere di parlare con una pluralità di soggetti con i quali confrontarsi. Ribadisco però che la legge non parla di dissuasione obbligatoria.
In merito alle questioni legate alla morale cattolica abbiamo un numero cospicuo di donne filippine e sudamericane provenienti da Paesi in cui l’aborto è illegale o fortemente limitato, abbiamo avuto anche donne con una collana con la croce che sono venute ad abortire così come donne musulmane col velo. Noto che malgrado le restrizioni poste dalle varie etiche religiose le donne, laddove, come nel caso italiano, hanno la libertà garantita per legge di interrompere la gravidanza, sfruttano questa possibilità invece di incorrere in pratiche clandestine e pericolose per la salute come magari accade, nel caso delle immigrate, nei Paesi di origine.

Le donne che affrontano una gravidanza difficile e che scelgono di interromperla avrebbero diritto comunque ad un’assistenza psicologica non giudicante. Esistono realtà o progetti in tal senso?
Il nostro staff ha ovviamente un atteggiamento non giudicante nei confronti delle donne che si rivolgono a noi. Certo siamo pochi e a volte dobbiamo essere sbrigativi, purtroppo il lavoro ce lo impone ma riceviamo lodi e complimenti. Non entriamo nel merito del vissuto delle persone anche se ci sono dei casi in cui alcune donne sembrano dotate della straordinaria capacità di complicarsi la vita da sole.
Certamente molte donne, anche quelle che portano avanti la gravidanza avrebbero bisogno di un supporto psicologico e da questo punto di vista abbiamo un team di psicologhe all’interno del S. Anna decisamente preparate.

Esistono svariati episodi di malasanità anche drammatici eppure l’aborto farmacologico sembra essere l’unica area in cui con il ricovero obbligatorio per le donne lo stato parrebbe voler tutelare la salute delle cittadine, come mai?
L’aborto farmacologico è addirittura più sicuro di quello chirurgico di per sé decisamente con basso tasso di complicanze. Da anni in diversi Paesi del mondo occidentale la pillola RU486 è somministrata con successo.
L’attenzione alla salute delle donne, in questo particolare caso, è semplicemente ideologica e ha come scopo quello di cercare di rendere il percorso un po’ più complicato a fini dissuasivi e senza alcun supporto di tipo medico e scientifico.

Il movimento antiabortista in Italia al momento non ha avuto derive di tipo violento ed estremista come negli Stati Uniti. Quali sono a suo avviso i motivi di tale differenza nelle modalità di espressione politica? C’è il rischio di possibili derive estremiste in tal senso?
Diciamo che la società nel suo complesso si disinteressa delle tematiche legate all’aborto e chi conduce delle battaglie antiabortiste come il movimento per la vita si rende conto che atteggiamenti estremisti, come mostrare foto di feti, si rivelano controproducenti ed allontanano simpatie.
In Italia il movimento antiabortista offre soldi alle donne per convincerle a portare a termine la gravidanza o si occupa della sepoltura dei feti. Io stesso ricevo tante lettere da parte di gente che mi vuole convertire. Il S. Anna ha una convenzione con l’associazione “Difendere la vita con Maria”.
Aggiungo inoltre che i vari gruppi antiabortisti sono tutti, direttamente o indirettamente, collegati alla Chiesa cattolica. Altri gruppi religiosi minoritari, come i testimoni di Geova, esercitano una sorta di pressione interna di tipo sociale sulle donne.

Cosa pensa dell’uso dei crocifissi negli ospedali, dell’abbigliamento religioso ostentatorio da parte del personale medico e paramedico o ancora di richieste di deroghe alle regole comuni motivate da richieste di tipo religioso?
Nella nostra struttura nella maggioranza delle stanze non ci sono crocifissi. Ce n’è invece uno nella stanza dove facciamo gli aborti, può darsi che sia stato messo apposta come provocazione. Considero comunque il crocifisso come un orologio da parete, una sorta di arredo senza particolare importanza simbolica. Per quel che riguarda l’abbigliamento religioso ostentatorio non abbiamo mai avuto casi di tale natura.
In merito alle richieste di medici uomini o donne devo dire che si tratta spesso di diffidenze di tipo culturale. Insisto sul fatto che il medico è prima di tutto un professionista e ci sono bravi medici di entrambe i sessi anche per quel che riguarda l’ambito della salute riproduttiva e sessuale. Personalmente non arretro in caso di richieste motivate da questioni religiose o culturali, si tratta di preservare la professionalità e la laicità degli ospedali.
Se si guarda la questione dal punto di vista del medico devo dire che una parte dei medici donne del mio reparto fanno obiezione di coscienza ma non tanto perché idelogicamente contrarie all’aborto ma perché, in quanto donne, è forse più facile che scatti in loro un meccanismo di identificazione.

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