Erri De Luca, un passato in Lotta Continua, scrittore
e traduttore rigoroso non ha dubbi: gli italiani
non sono solo canaglie, anzi sono
persone di buona volontà e scrupolosi
Erri De Luca è nato a Napoli nel 1950. Recentemente definito “lo scrittore del decennio” dal critico letterario del Corriere della Sera Giorgio De Rienzo, è anche poeta e traduttore.
Nel 1968, a diciotto anni, raggiunge Roma, dove prende parte al Gaos (Gruppo di Agitazione Operai e Studenti), gruppo che fonderà Lotta Continua a Roma. De Luca diventerà in seguito il responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. Inoltre dichiarerà più di recente che al momento dello scioglimento di Lc (Rimini, 1976) non volle entrare in clandestinità e convinse il servizio d’ordine romano a seguire la sua stessa strada.
In seguito svolge numerosi mestieri in Italia e all’estero, come operaio qualificato, camionista, magazziniere, muratore. Durante la guerra in Bosnia è autista di convogli umanitari destinati alle popolazioni. Studia da autodidatta diverse lingue, tra cui l’ yiddish e l’ebraico antico dal quale traduce alcuni testi della Torah. Lo scopo di queste traduzioni, che De Luca chiama “traduzioni di servizio”, non è quello di fornire il testo biblico in lingua facile o elegante, ma di riprodurlo nella lingua più simile e più obbediente all’originale ebraico.
Pubblica il primo romanzo nel 1989, a quasi quarant’anni: Non ora, non qui, una rievocazione della sua infanzia a Napoli..
Regolarmente tradotto in francese, spagnolo, inglese, ha ricevuto il premio France Culture per Aceto, arcobaleno, il Premio Laure Bataillon per Tre Cavalli e il Femina Etranger per Montedidio.
Collabora a diversi giornali, e oltre ad articoli d’opinione, scrive occasionalmente anche di montagna.
Che cosa pensava della Polizia l’Erri De Luca responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua e che cosa ne pensa oggi?
La Polizia faceva parte di una macchina che aveva a che fare con la repressione dei movimenti politici di allora. La Polizia sparava ancora a braccianti e operai come ad Avola e a Battipaglia. La Polizia era il braccio operativo di una macchina che riguardava tutta la filiera della repressione. La magistratura e la Polizia erano degli avversari. Con dei funzionari di Polizia mi sono trovato bene. Nel senso che in ordine pubblico, ero responsabile del mio settore e quindi ci si accordava. Avevo dei rapporti buoni con alcuni funzionari della Questura di Roma ai quali noi comunicavamo i nostri spostamenti e anche le nostre intenzioni. C’erano delle competenze che venivano rispettate.
Oggi penso che la Polizia si occupa di immigrati invece che di criminali. E di fare un servizio di supplenza alla cattiva accoglienza che noi facciamo a questi stranieri di passaggio.
Molto stranieri di recente, in fuga dai faraoni, è morta nel canale di Sicilia. Il canale di Sicilia non si è aperto come il mar del Giunco per gli ebrei. E’ la storia che si ripete, anche nella paura e rifiuto dello straniero o è un’altra storia?
Il fatto che queste persone vadano incontro al rischio di naufragio, sapendo che rischiano di morire, vuol dire che neanche la pena di morte è un deterrente nei confronti di queste ondate migratorie, questa pena di morte applicata a casaccio e per decimazione. Qualunque misura di contenimento è quindi inefficiente, quando si muovono delle persone con quelle spinte, con quelle intenzioni, con quella necessità. Per fronteggiare questo problema non si possono usare misure di deterrenza e di respingimento. L’unica è ammetterli in questo nostro Paese che è geograficamente un pontile d’Europa dentro il Mediterraneo. Perché questo è stato il destino storico dell’Italia: essere un ponte di passaggio per popoli che lo hanno attraversato in lungo e in largo. Quindi l’unica cosa da fare è permettere a queste masse di sciamare dove desiderano, dove possono trovare la loro destinazione che non è certamente di preferenza l’Italia.
Che cosa serba della sua esperienza in Bosnia?
Noi portavano aiuti con i nostri convogli nei campi profughi direttamente alle persone in difficoltà. Eravamo in molti e questo era bello. Era molto più efficace essere in molti con piccoli mezzi che uno solo con un grande mezzo. Intanto perché quell’uno solo avrebbe avuto poca agilità per muoversi su quelle strade sgangherate e poi perché avrebbe dovuto mettere gli aiuti in capannoni attivando una distribuzione parziale. Noi con i nostri mezzi ci intrufolavamo dappertutto e scaricavamo direttamente alle persone che avevamo contattato in precedenza. I destinatari della nostra promessa.
Come vede gli italiani di oggi?
Hanno la stessa buonissima qualità e intenzione di sempre ma non sono rappresentati, non sono raccontati. Dell’Italia prevale un’immagine o canagliesca o fatua. Invece in questo Paese sussiste una maggioranza di persone di buona volontà che fanno le cose perbene e che sono scrupolose.
Lei scrive: “Volli partire dalla terra delle dieci piaghe, mi aggiunsi a un popolo che usciva a braccio alzato e con il canto in gola.” E ancora: “So di aver traversato un mare rosso in un corteo di ranghi serrati” . Si riferisce alla sua lotta politica e che lettura dà oggi di quella volontà?
Era la volontà collettiva. Ho fatto parte dell’ultima generazione di rivoluzionari del ‘900, un secolo che si è espresso con lo strumento delle rivoluzioni, da quella Russa in poi. La storia del ‘900 è stata connotata da questo movimento rivoluzionario. Per quello che riguarda la mia generazione, abbiamo obbedito a quello che era l’ordine del giorno del mondo.
Si potrebbe dire che le sue traduzioni, siano una lotta alla mistificazione in generale?
Non ho questa pretesa. D’altra parte quando qualcosa sta lì da 2000 anni, leggere che Dio avrebbe condannato la donna al dolore del parto, certo non che non ci sia dolore, ma non la volontà di far male, è spiazzante. E’ solo una questione di fedeltà. Non ho intenzione di confutare le altre traduzioni.
Lei ha più rispetto per le parole o per la verità?
La verità è formata da parole precise.
Le fa più paura la violenza fisica o quella verbale?
Nessuna delle due. Però è più nociva quella verbale.
Nella cultura ebraica Eva è tenuta in grande considerazione perché ha rinunciato alla perfezione del Paradiso aspirando alla conoscenza che eleva l’uomo, così come Rut che diviene il simbolo dell’amicizia tra donne, facendosi carico di riportare la suocera Noemi in Israele. Cosa ne è oggi di queste due donne nell’attuale società?
Io cerco di non leggere quella lettura agli occhi del presente. Credo che così invece di renderla più importante, le si tolga qualcosa. In quella storia sacra è scritto che nella donna era immessa la conoscenza e il suo compagno la segue in questo gesto di disobbedienza e di sfondamento di un limite assegnato. Quella conoscenza una volta innescata è irreversibile, non potranno mai accontentarsi di un giardino. La conoscenza sfonda continuamente, va continuamente oltre il termine assegnato. Quindi sento gratitudine nei confronti della figura femminile. Donne che spostano un confine ve ne sono continuamente nel mondo in tutti i campi. Occorre quindi togliere il connotato abusivo di peccato originale che è un abuso teologico.
Rut è una moabita, una straniera che vuole essere madre in Israele. Per questo nella pagina del vangelo di Matteo dove è riportata la genealogia che va da Abramo a Gesù compare Rut. Compaiono solo 4 donne in quell’elenco e due sono straniere…
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Gli uomini, le donne e Dio. Un rapporto alla pari
Gli ultimi due lavori di Erri De Luca sono “Le sante dello scandalo” (Giuntina, euro 8.50) e “E disse” (Feltrinelli, eruo 10).
Nel primo si narra di 5 donne “particolari”. Sono quelle attraverso cui passa la storia più ambiziosa del mondo, quella del monoteismo.
Così scrive de Luca: “ La prima si vestì da prostituta per offrirsi all’uomo desiderato.
La seconda era prostituta di mestiere e tradì il suo popolo.
La terza s’infilò di notte sotto le coperte di un ricco vedovo e si fece sposare.
La quarta fu adultera, tradì il marito che venne fatto uccidere dal suo amante.
L’ultima restò incinta prima delle nozze e il figlio non era dello sposo”.
Sono rispettivamente Tamàr la Cananea, Rahav di Gerico, Rut la Moabita, bat/Sheva Betsabea e Miriam (Maria) madre di Gesù. Tutte citate nell’elenco dele generazioni che precedono Gesù. Donne particolari, donne al limite.
Molto è stato tradotto male per insipienza. Molto però, della Torah, come del cosiddetto Nuovo Testamento è stato appositamente travisato…anche con un profondo senso di misoginia che come tutte le paure nasce dalla consapevolezza di una certa superiorità di ciò che si teme.
E così scrive ancora De Luca, nel finale di questo splendido librino: “Da qualche millennio è risaputo che la divinità condanna la prima donna a partorire con dolore. Da qualche millennio si spaccia questa notizia falsa. Non che manchi dolore nel parto, manca invece la malintenzione punitiva della divinità. In quel punto cruciale della storia sacra, da cui prende spunto la faccenda del peccato originale, la parola pronunciata nel giardino dice un’altra cosa. Dice alla donna che partorirà con sforzo, o fatica, o affanno. Lo dice per constatazione, non per condanna. (…)
Niente condanna al dolore di parto: la parola ebraica “ètzev”, e i suoi derivati, vuol dire sforzo, o fatica, o affanno. (…) La parola “ètzev” ricorre sei volte nella scrittura sacra (…) i riferimenti delle sei volte servono a poter verificare quello che sot per dire: cinque volte i traduttori vari rendono “ètzev” con sforzo, o fatica, o affanno, e una volta lo dirottano e lo traducono dolore. Con deliberata intenzione le traduzioni maschili qui inventano una volontà divina di punire la donna, di caricarle sopra il senso di colpa di un peccato originale da scontare con i dolori del parto. (…)
Il falso è lì da migliaia di anni e non è rimediabile. Né spero che le future traduzioni emendino l’abuso. Mi basta sapere che non c’è volontà divina di punire quella prima donna, vertice di perfezione, con un maligno dolore. Mi basta sapere che il dito /grilletto puntato dai pulpiti, tu donna partorirai con dolore, è scarico, senza mandante”.
“E disse” è il racconto della consegna del Patto tra Elohim e il suo popolo attraverso Mosé. Un uomo balbuziente e scalatore, che si accosta alla montagna e ne viene travolto. Ma è anche il racconto dei dieci comandamenti, anche questi, troppe volte raccontati perché tradotti male. Perché c’è un senso e una storia dietro le parole, perché chi fa suoi testi altrui, li adatta e li smembra a secondo dell’uso. Un attitudine che non è da iscrivere solo ai cattolici, gli stessi ebrei spesso, traducono e interpretano a seconda dei casi che il popolo o i credenti affrontano. Questo Mosé ha il sapore di un errante. E’ forse una maschera di De Luca, molto amata certamente. Vanno tutti e due, stando ai margini dell’accampamento. Non c’è evidentemente Terra Promessa né per l’uno, né per l’altro. Oppure semplicemente la Terra Promessa, come peraltro ritengono molti ebrei non è una territorio. E la promessa non sta nella meta, ma nel cammino che si percorre per raggiungerla.
FOTO: Erri De Luca
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