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Luglio-Agosto/2011 - Interviste
Dove va l’Italia pagina18
Il nostro futuro è in pericolo
di a cura di Barbara Notaro Dietrich

Bruno Tabacci analizza la situazione
del Paese: conomia, società, cultura, tutti settori
in grave crisi. Risollevarsi è possibile ma il tempo
a disposizione non può essere infinito


Dal 10 giugno scorso è, a titolo gratuito, Assessore al Bilancio e ai Tributi nella Giunta del Sindaco di Milano, ma questo è solo l’ultimo degli incarichi istituzionali di Bruno Tabacci, politico di lungo corso, stimato dalla quasi totalità dei suoi colleghi, rispettato dai cronisti parlamentari per quel senso, che risponde alla sostanza, di pacatezza, signorilità e una formazione economico-giuridica che gli consente di affrontare qualsiasi argomento con estrema lucidità e di fornire sempre analisi indiscutibili.

Onorevole Tabacci, il concetto di libertà è forse cambiato negli ultimi sessant’anni. Un tempo la libertà era quella che derivava da un lavoro che rendesse degna la vita. Oggi appare sempre più sinonimo del verbo “acquistare”. Come si è arrivati a questo?
E’ attraverso un incrocio di fatti negativi che ci troviamo un Italia con minore capacità di resistenza da un lato e di rilancio dall’altro. I concetti sono sostanzialmente 3: benessere senza lavoro; affari senza regole; diritti senza dovere. Il benessere senza lavoro è il concetto fondamentale che ha attinenza a questa sollecitazione: l’idea che l’uomo possa essere valutato per quello che ha non per quello che è, di esprimere, di creare. Il lavoro passa in secondo piano. Non è più quello che io ho visto nelle carni dei contadini del dopoguerra e ancora più lontano nel tempo. Fa riferimento il fatto che nella comunità dove sono nato a San Rocco di Quistello, c’è il monumento alla prima lega contadina d’Italia. E quello era lavoro, il lavoro duro della campagna, di contadini sfruttati che trovano la prima modalità organizzativa per dare una risposta ai loro diritti.
Oggi la comunicazione che c’è stata, televisiva e non, ha fatto prevalere il verbo “acquistare” e l’idea che vale più la furbizia, l’apparire. Tradotto in termini politici perfino la scorta viene considerata uno status symbol…A livello mondiale c’è stato anche il prevalere della finanza sull’economia…e tutta l’estremizzazione di questa economia piramidale, tipo catena di Sant’Antonio per la quale se tu versavi x lire a chi stava sopra, indicando dieci nominativi, chi stava sotto avrebbe versato a te. Intanto si arricchiva chi stava in alto poi la catena sarebbe scesa. Rompendosi la catena, la parte più bassa non introiettava nulla, ma chi incassava era la parte alta. E’ una tecnica su cui si è forgiata gran parte della finanzializzazione dell’economia.

Non le sembra che l’estremismo libertario, figlio di altri tempi e di un’altra Italia, della formula “senza vincolo di mandato” sia oggi criticabile?
Quel senza vincolo di mandato indicato nell’articolo 67 della Costituzione, in realtà è il vincolo più profondo che lega l’eletto all’interesse generale. Vuol dire che egli rappresenta la nazione nella sua interezza; che è tenuto ad operare senza vincolo di interesse particolare. Va quindi letto sul versante positivo, come elemento figlio di una Repubblica che aveva messo insieme filosofie diverse, ma con uno spirito etico e civico davvero elevato. Questo articolo è l’approccio quindi più alto e non può certo essere ridotto a questioni dozzinali…

Che cosa pensa del proliferare delle notizie a tutti i livelli: è sinonimo di estrema democrazia o è invece oggetto di confusione perché non vi è più una gerarchia di importanza se non di seri guai come la diffusione di segreti di Stato?
La società dell’informazione ha fatto irruzione con una forza incredibile. Oggi quasi tutti sanno tutto su tutti. Credo che il giornalista che organizza l’informazione dovrebbe dare al lavoro che fa il senso civile di andare in profondità, di ricercare il punto più vicino alla verità. A me l’idea di limitare le notizie non convince affatto. Le informazioni devono essere date nella maniera più professionale. Non ho mai creduto nei segreti di Stato. Nel Novecento l’idea di un disegno superiore costringeva alla rinuncia di pezzi di verità. E’ la parte che non mi ha mai convinto. Credo nel gioco di squadra, ma non si significa di negare la verità. Poi certo, ci sono altri fenomeni tipo i blog. Io stesso che con il mio ho avuto molte frequentazioni, alla fine l’ho visto esaurirsi perché ognuno parlava a se stesso. C’è quindi una sorta di auto-limitazione delle notizie non interessanti.

Non crede che l’aver creduto, da parte dei cittadini sia di destra che di sinistra, che la nuova Repubblica poteva funzionare se in mano a non addetti ai lavori sia stato un abbaglio perché solo la formazione rende un politico capace?
Considero la politica una delle attività umane tra le più alte che però richiede una padronanza degli strumenti e dell’organizzazione del pensiero che son propri di qualsiasi altro lavoro. La domanda è semplice: uno si farebbe fare la barba da uno che non ha mai maneggiato un rasoio? Secondo me, no.
Nel 1946 l’Italia era appena uscita dalla guerra, e per la prima volta si vota con il suffragio universale. Era un paese semianalfabeta, eppure gli italiani mandano in parlamento il meglio della classe dirigente. I parlamentari eletti alla costituente erano per 3 quarti laureati e tra questi vi era il fior fiore della cultura giuridica, umanistica, scientifica.
Il parlamento di oggi, in controtendenza con tutti gli altri Paesi, a fronte di un Italia scolarizzata nella quasi totalità, ha solo il 60 per cento di laureati. Che cosa vuol dire? Non che il titolo di studio sia titolo completo, ma l’approccio alla preparazione minimale vede una caduta a picco. La società si è scolarizzata, ma le loro rappresentanze si sono “analfabetizzate”. E questo si vede nel dibattito politico. Basta confrontarne uno degli anni ’50 con uno di oggi…si capisce subito che qualcosa si è rotto.

Perché allora i partiti non pensano a rifondare le grandi scuole?
Perché i partiti sono morti; quelli di oggi sono dei simulacri dei vecchi partiti popolari del ‘900. Grazie alla mancata rivoluzione del ’92-93 sono diventati associazioni tra persone dove il detentore dei rimborsi delle spese elettorali, come si chiamano eufemisticamente i finanziamenti ai partiti, è quello che fa la differenza. I partiti non fanno congressi, secondo gli stili che sarebbero richiesti dall’applicazione degli articoli della Costituzione, tant’è che su questo punto la Costituzione è rimasta lettera morta. Noi avevamo bisogno di partiti che fossero case di vetro nelle quali il passaggio della vita democratica avviene con un fluire naturale. Questo è un punto che dovrà essere affrontato alla luce del sistema che ci daremo sul piano conclusivo. Noi siamo ancora una Repubblica parlamentare ma l’abbiamo in qualche modo mischiata con dei meccanismi che sono propri delle esperienze presidenziali senza però avere la cura di introdurre quei contrappesi che sono l’elemento costituente nelle democrazie presidenziali. Siamo a metà del guado. Non siamo più la repubblica parlamentare sul modello tedesco come eravamo all’indomani della seconda guerra, come è stato in tutti questi decenni. Siamo una cosa a metà, al punto che il capo del governo contesta il ruolo del parlamento o della Corte Costituzionale. Questo lo dice perché è prevalsa l’idea che ci fosse una costituzione materiale più riconosciuta di quella formale. Sono le tante bufale che Berlusconi è riuscito a introdurre nel corpo dell’opinione pubblica del Paese e di cui mi auguro ci si riesca a liberare.

Giuseppe De Rita ha scritto che nel risultato dei referendum vede ancora tanto berlusconisco, i segni di una cultura politica che cavalca l’andamento dell’opinione pubblica. E aggiunge che “occorrerebbe mettere all’onor del mondo un approccio sistemico, perché l’economia è un sistema, la società è un sistema”.
Non c’è dubbio che la tesi di De Rita è assolutamente corretta. Per come va l’economia la risposta è preoccupante: l’Italia va male. La comunicazione di questi anni diretta a spiegare che non era così, è infondata. Se si guarda alla ricchezza nazionale, il Pil, così come si era stratificato alla fine del 2007, facendo base 100, nel 2008 si è aperta una crisi internazionale, ci si accorge che a tre anni data, al 31 dicembre 2010, succede che la ricchezza nazionale è calata in ogni Paese europeo, a causa della crisi, ma poi c’è stata una ripresa. Quanto si è recuperato delle ricchezze perdute? I tedeschi rispetto al 2007 sono a meno 0.3: quasi coperto il divario; i francesi, meno 0,8; la Spagna, meno 3 per cento; l’Italia è a meno 5,3. Questa è la chiave interpretativa di ciò di cui si parla e questi sono i dati. Noi cresciamo l’1 per cento e con questo non solo non si paga il debito ma c’è un’intera generazione che rischia di restare senza lavoro. La Germania, che negli ultimi 20 anni ha unificato due Stati, cresce del 5 per cento. Noi siamo dentro il meccanismo di una moneta unica che ci richiede uno sforzo di riforme che il governatore Draghi ha indicato nella sua relazione del 31 maggio in 8 punti, cominciando a dire che la mancata riforma della giustizia civile costa l’1 per cento al nostro Pil; e poi, mancate liberalizzazioni etc etc.
In tutto ciò si incorpora una condizione di sommerso che inficia l’equità fiscale, determina condizioni di scarsa concorrenza in mercati decisivi; non siamo appetibili all’estero. Un 28 per cento dell’economia italiana è in nero: il 28 per cento di 1850 miliardi sono una somma enorme. E tutte le manovre adottate da questo governo in materia di sconti, deroghe e scudi fiscali hanno finito per incentivare le pratiche dei più furbi.

In quale direzione dovrebbe andare la riforma della giustizia?
Io penso quello che dice il vicepresidente Vietti: ci sono strutture della giustizia che funzionano bene e altre male. Si devono introdurre controlli di gestione, sia in quantità che qualità.

Si è parlato e si parla molto di federalismo, spesso dimenticando non solo istanze del passato, come il senato delle Regioni di matrice democristiana, ma anche la “recente” modifica dell’articolo 5 che è a tutti gli effetti federalismo. Quali sono le differenze e che cosa significherà per il Paese la riforma cui si pensa?
Quello sul federalismo è un dibattito che è sfuggito ai tempi e ai termini di una correttezza istituzionale e terminologica. Perfino in Sturzo che è un alfiere di questa idea federale, l’utilizzo di questi termini è spesso associato al ruolo delle Regioni, o autonomia degli enti locali portato fino al punto più avanzato, ma che concorre a un disegno di difesa dell’unità del Paese che era dovuto allora a una concezione ideale che oggi risponde a ragioni pratiche. L’idea che ci si possa dividere è velleitaria. Gli italiani pesano per meno dell’1 per cento della popolazione mondiale; se invece di essere l’Italia unita fosse un pezzo del Paese ancorché il ricco lombardo veneto, non troverebbe l’istituzione che li potrebbe rappresentare. Il punto quale è? Che se l’idea federale risponde alla richiesta del miglior governo possibile, deve essere affrontata, se risponde a una malcelata secessione, è una perdita di tempo. Si tratta di affrontare la qualità dell’amministrare. In questi anni la Lega ha sostenuto il federalismo come la panacea di tutti i mali, ma i risultati sono modesti. Al Nord molti amministratori sono arrabbiati Si vedono effetti negativi sui bilanci comunali. Hanno tolto l’Ici, unica imposta federale…dopodichè non sono stati mandati soldi da Roma, che comunque avrebbe significato che la finanza locale dipende ancora di più da quella nazionale. Per fortuna le bugie hanno le gambe corte e sul prato di Pontida hanno rischiato di farsi contestare dalla loro stessa base. Più che uomini di governo, sono venditori di fumo. Ma questo è un prezzo che paga il Paese intero. Anche il titolo 5 è male impostato: aver affermato che la Repubblica è fatta da Stato, Regioni, Province e Comuni è rendere equipollenti queste realtà. Così non è.

La popolazione italiana invecchia. Ma questo è un governo che sembra non preoccuparsene. In più recentemente una ricerca del Censis ha detto che in Italia vi è una crisi antropologica. I dati sono vari fra cui la perdita del senso delle regole sociali collegata all’incremento della litigiosità fra i cittadini; individui che esercitano aggressività e violenza verso le persone su cui possono esercitarla, come i soggetti più fragili e deboli della società (donne, minori, anziani, disabili, …), ma che al tempo stesso subiscono altrettanta aggressività e violenza da chi è sopra di loro. Che ne pensa?
Quello che si vede sul terreno della statistica è incontrovertibile. L’Italia è uno dei Paesi più vecchi d’Europa. Questo spiega il fatto che siamo oggetto di pressione migratoria. I nostri non fanno più certi lavori. Quelli che arrivano in Italia sono quelli che aumentano il flusso di natalità. In prima elementare gli iscritti di origine extra comunitaria raggiungono cifre rilevanti, oltre il 20, 30 per cento. Vuol dire che noi siamo nella condizione di dover convivere con la pressione dei migranti e dobbiamo farlo in sintonia con il resto d’Europa. Questo richiederebbe che ci fosse una consapevolezza di questa condizione e che quindi si reagisse con responsabilità e una lettura più calibrata delle cose che stanno accadendo. Invece non solo si tende a un di più di violenza, ma c’è una fuga totale dai doveri e dalle responsabilità. Il fatto che gli italiani siano quelli che giocano di più, che scommettono su tutto, dà la misura della insicurezza del Paese, di un popolo che ha perso i fondamentali. Ed è un lavoro lungo ripristinare un senso. Certo va fatto con l’esempio e se il capo del Governo è uno come Berlusconi, quale esempio si dà? Che il cittadino deve essere un furbo.



FOTO: On. Bruno Tabacci

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