Per Jaume Curbet chi governa si limita
a emanare pacchetti sicurezza contro i clandestini
invece di dotarsi di vere politiche
volte all’integrazione e all’accoglienza
“La retorica della paura – scrive Nadia Urbinati nella prefazione del libro “Insicurezza. Giustizia e ordine pubblico tra paure e pericoli” (Donzelli, Roma, 2008) del prof. Jaume Curbet –, della quale governanti poco lungimiranti si servono per giustificare politiche autoritarie è quanto di più improvvido ci possa essere, poiché mentre è relativamente facile alimentare la paura è molto complicato controllarla e mantenerla”. Un’evidente dimostrazione di tale assunto è l’ossessiva approvazione, da parte dei governi, di non meglio definiti “pacchetti sicurezza”, spesso sull’onda dell’indignazione provocata da qualche delitto, che colpisce l’immaginario collettivo anche grazie a mass media asserviti al potere, che contribuiscono non poco ad amplificare a dismisura la portata dell’evento. Il nemico da combattere sfugge, non ha contorni chiari, e viene di volta in volta individuato in un “diverso” da respingere, allontanare, escludere: “Quando l’insicurezza cittadina – spiega Curbet – si accompagna al disagio nei confronti di nazionalità ed etnie facilmente identificabili – che si traduce in risentimento contro invasori considerati inassimilabili – allora si può confondere facilmente il ladro o il borseggiatore, che non si riescono a trovare, con lo straniero, ben visibile. Soltanto in questo modo, delinquente e immigrato possono integrarsi in una figura assolutamente esterna a noi, così da meritare solo l’esclusione”. Il capro espiatorio – avendo la funzione di “far scaricare” periodicamente le ansie di una collettività – è senza dubbio utile politicamente: di esso si servono gli attori politici, le cui decisioni, lungi dall’essere basate su un’analisi rigorosa dei problemi, sono al contrario “fortemente condizionate dall’esigenza di adottare misure efficaci a breve termine, che risultino popolari e che non siano interpretate dall’opinione pubblica come segnali di debolezza o come un abbandono delle responsabilità statali”. In altre parole, le politiche pubbliche della sicurezza avrebbero una funzione essenzialmente sedativa, non curativa. Sarebbe pertanto opportuno invertire la tendenza, agendo sulle cause dell’insicurezza urbana, più che sui sintomi, adottando un “approccio integrato (olistico) che riconosce i complessi processi sociali, economici e culturali che contribuiscono all’insicurezza cittadina”, in quanto “le politiche attuali di molti governi occidentali – conclude Urbinati – sono orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata (politiche di sicurezza) più che a risolvere i diversi conflitti che stanno all’origine delle varie manifestazioni di delinquenza (politiche sociali)”.
Professor Curbet, cosa si intende per sicurezza/insicurezza urbana?
La sicurezza urbana, prima di tutto, ci mette davanti alla necessità di proteggerci dalle aggressioni delinquenziali. Pertanto, non si può che obiettare che si tratta di un bisogno umano di base e, per questo, assolutamente comprensibile. Tuttavia questo è di fatto un concetto ambivalente, dato che l’indispensabile prudenza che ci tiene lontani dalle minacce reali di natura delittuosa convive, nelle nostre società avanzate, con una pandemia di insicurezza, che ha le caratteristiche più di una nevrosi collettiva che di una effettiva protezione contro la delinquenza. Certamente questo non significa che non vi sia una stretta relazione tra la delinquenza e la sensazione di insicurezza urbana, tuttavia dobbiamo tener presente che, a un certo punto, questa relazione non è più diretta e che entrambe le dimensioni del fenomeno dell’insicurezza urbana (oggettiva e soggettiva) assumono vita propria. Questo spiega il fatto che, in molti casi, ci troviamo di fronte a un autentico paradosso, ossia che il tasso di criminalità può calare e la percezione di insicurezza rimanere alta; lo stesso può accadere al contrario.
Con riguardo alla gestione delle politiche per la sicurezza, efficacemente scrive che “i governi sviluppano due grandi strategie orientate in modo schizofrenico verso obiettivi opposti”. A quali strategie e obiettivi si riferisce?
In generale, i nostri governi tendono maggiormente a reagire di fronte a episodi di aumento repentino della sensazione di insicurezza, più che a rispondere al fenomeno in tutta la sua vastità e complessità. Alla luce di questo, non dovrebbe sorprenderci il fatto che la pretesa soluzione, da parte dello Stato, dei problemi legati all’insicurezza urbana – nella misura in cui tale soluzione riguarda i fenomeni di superficie (i focolai episodici di paura collettiva) e tralascia le cause (il conflitto sociale) – finisce per diventare una parte del problema. E spiega anche questa apparente schizofrenia che prevede la combinazione, da una parte, della volontà di responsabilizzare i cittadini nella funzione statale di garantire la sicurezza pubblica (strategia partecipativa) e, dall’altra, il ricorso alla retorica della “tolleranza zero” (populismo punitivo).
Che ruolo svolgono i mass media nella costruzione di un senso comune distorto, che ci fa sentire “tutti esposti non solo ai rischi reali, che corrispondono alla realtà delittuosa locale, ma anche a rischi percepiti, che si alimentano della narrazione indifferenziata di problemi che riguardano gruppi sociali e territoriali molto diversi e lontani tra loro”?
La relazione tra mezzi di comunicazione, opinione pubblica, potere economico e potere politico è davvero complessa. E’ utile, pertanto, abbandonare interpretazioni semplicistiche e manichee. E’ indubbio che, nel fenomeno dell’insicurezza urbana, convergono importanti interessi economici (l’industria privata della sicurezza o il sensazionalismo giornalistico) e politici (la politica della paura), tuttavia, in nessun caso si può ridurre l’insicurezza urbana a una semplice cospirazione politico – mediatica. D’altra parte non regge nemmeno il discorso dei mezzi di comunicazione: ci limitiamo a riportare la realtà. Tutto punta alla necessità di un’interpretazione più equilibrata: mezzi di comunicazione, opinione pubblica, potere economico e potere politico si condizionano a vicenda nella lotta – certamente impari e, per questo, in molti casi scarsamente democratica – per definire, in prima istanza, l’agenda pubblica della sicurezza e, in seconda istanza, l’agenda politica.
“Insicurezza urbana”, “terrorismo”, “criminalità organizzata”: espressioni i cui confini sono incerti ed indefiniti. Tale genericità, anche semantica, è funzionale alla produzione della paura da parte dei mezzi di comunicazione e degli attori politici?
Il caso del terrorismo è paradigmatico. Come è risaputo, nessun organismo internazionale, comprese le Nazioni Unite, è riuscito a definirlo in termini universalmente accettabili. Per cui i “terroristi” sono quelli che gli Stati, le popolazioni colpite e i mezzi di comunicazione definiscono come tali in funzione di alcuni metodi che provocano un’angoscia profonda e causano la morte di civili.
Tuttavia, molto raramente gli interessati applicano a loro stessi questa definizione; anzi, al contrario, si dichiarano “resistenti” che fanno ricorso alla “lotta armata”, espressione che può suggerire un certo parallelismo con la forza armata che si utilizza contro di loro. Però anche nel caso della cosiddetta “criminalità organizzata” – o, di una forma forse più definita, i “mercati illegali” – il limite tra economia legale e illegale è sempre più diffuso: si pensi, senza andare lontano, che le istituzioni finanziarie occidentali riciclano la maggior parte del denaro proveniente dall’economia illegale mondiale, stimato in circa 1,5 miliardi di dollari all’anno. E, come abbiamo visto, il termine “insicurezza urbana” si applica, in modo ambivalente, tanto a un supposto incremento costante della delinquenza in tutte le forme e in tutte le parti – cosa che risulta evidentemente molto improbabile – quanto a una paura diffusa, che, seppure in larga parte infondata, finisce per diventare un danno reale per i cittadini che la provano.
Che connessioni esistono tra il governo della sicurezza e il governo dei processi di esclusione sociale? In altre parole, tra il primo e le politiche neoliberiste?
Le società più diseguali sono quelle che hanno tassi di delitti gravi (omicidi, furti con violenza) più elevati. Smentendo, dunque, una credenza molto diffusa, non è la povertà che genera la violenza, ma la disuguaglianza e, in particolare, la disuguaglianza estrema. In una società fortemente disuguale, una convivenza basata sulla comunicazione, sulla fiducia reciproca e sulla solidarietà risulterebbe una contraddizione di termini. E non c’è niente di meglio della sfiducia reciproca, dell’inciviltà e della convivenza deteriorata per far presagire l’espansione della violenza sotto qualsiasi forma.
E’ corretto affermare che si sta assistendo ad un progressivo indebolimento degli strumenti dello Stato sociale a favore di soluzioni e meccanismi tipici degli ordinamenti autoritari?
Tutto sembra confermarlo. Quei poteri occulti che abbiamo chiamato “mercati” si dimostrano insaziabili (forse ora con maggiore evidenza che in qualsiasi altro momento), con l’esigenza di demolire i pilastri che avevano sostenuto, in Europa occidentale per oltre mezzo secolo, quello che viene definito Stato sociale; essi infatti continuano a fare pressione per far sì che l’attività economica, da una parte si liberi da qualsiasi responsabilità sociale, per minima che questa possa sembrare, e, dall’altra, per assicurarsi che nessun controllo civile possa disturbare il processo di accumulazione della ricchezza in poche mani. Al contempo, questi stessi poteri, appoggiati nei settori sociali più colpiti dall’incertezza, esigono che lo Stato si mostri implacabile nell’applicare le vecchie ricette di “legge e ordine” come unica politica che mira a contenere gli effetti più temuti del conflitto sociale. Non so se qualcuno, onestamente, possa credere che questa mescolanza di crescita economica radicalmente insolita e l’intensificazione della repressione penale della popolazione esclusa non scoppi in violenze interpersonali e collettive.
Quali sono gli effetti a lungo termine di politiche sulla sicurezza urbana basate su misure ad effetti immediati, poco meditate, populiste, e tendenti all’ottenimento di risultati elettorali soddisfacenti, piuttosto che a risolvere le cause generatrici di insicurezza?
Quasi inevitabilmente, queste reazioni a breve termine da parte dello Stato finiscono per aggravare il problema dell’insicurezza che pretendevano di risolvere. Nel caso della salute, tutti sanno che una diagnosi sbagliata, per ignoranza o per fretta, non consente di ben sperare in merito al trattamento prescritto. Al contrario, nel caso della sicurezza, i problemi raramente vengono diagnosticati in maniera corretta e sembra che tutti conoscano ricette universali e infallibili: nella maggior parte dei casi, si continua ad applicare la “legge del taglione”, si aumentano gli organici della Polizia, la durezza delle azioni penali, l’intransigenza dei giudici verso gli accusati e il ricorso indiscriminato al carcere (soprattutto di lunga durata). Serve a poco il fatto che la realtà non confermi questi forti pregiudizi ancestrali e che, al contrario, dimostri che ogni problema di insicurezza (reale o percepito) richieda un trattamento specifico destinato non solo a ridurre gli effetti più dannosi, ma anche ad attaccare le sue cause.
L’insicurezza dà origine a politiche per la sicurezza, ma l’ossessione per la sicurezza crea, a sua volta, insicurezza: è un circolo vizioso?
L’ossessione per la sicurezza (stabilità, conservazione) rompe l’equilibrio, necessariamente instabile, con la libertà (innovazione, creatività) che regge l’evoluzione non solo degli organismi biologici, ma anche di quelli sociali. Smentendo la logica del progresso lineare e continuo, la vita evolve in un rimando continuo tra innovazione e conservazione. In assoluto, l’incremento costante della sicurezza o meglio della libertà risulta più utile rispetto alla ricerca di un punto di equilibrio che faciliti, simultaneamente, la creatività – che ci permette di rinnovarci – e la conservazione degli elementi imprescindibili per preservare la vita. In maniera che la libertà completa è il caos, ma la sicurezza assoluta è la morte. La miglior sicurezza possibile, di conseguenza, presuppone che si riconosca l’insicurezza insita nell’esistenza umana. Sembra paradossale, ma è inevitabile.
Zingari, neri, omosessuali, extracomunitari. Perché l’insicurezza urbana è alimentata dalla paura del “diverso”, dell’ “altro”?
La paura dell’estraneo - del diverso, dello straniero, dell’altro in definitiva – è una paura ancestrale che catalizza, soprattutto in situazioni di grave crisi sociale, le paure collettive. Nella cosiddetta “società del rischio” l’accumulo di incertezza è costante e di enormi dimensioni. Tuttavia, costa identificare le cause delle profonde insicurezze sociali e civili che affliggono le società contemporanee. Niente a che vedere con la facilità con la quale possiamo identificare chi ruba un veicolo o chi va a rubare in casa e, ancor di più, se questo è uno “straniero” facilmente riconoscibile per le sue caratteristiche etniche. Si attiva allora il meccanismo psico-sociale del “capro espiatorio” che ci permette di deviare le tensioni collettive verso gruppi minoritari, di modo che si possa preservare l’ordine sociale.
Fino a che punto, in nome della sicurezza, possono essere limitati i diritti delle persone garantiti dalle Costituzioni degli Stati democratici?
Come abbiamo visto, la ricerca incessante di sicurezza, deviando l’equilibrio necessario con la libertà, ci porta irrimediabilmente a un finale funesto. Abbiamo esperienze, non lontane nel tempo e nello spazio, che dovrebbero portarci ad aumentare al massimo le precauzioni verso alcuni processi politici attuali. A mio avviso, rappresenta una sfida politica cruciale ammettere che non potremo vivere con la necessaria sicurezza pubblica senza affrontare in maniera adeguata il conflitto sociale che rende difficile la necessaria convivenza, alimenta l’aumento delle diverse forme di inciviltà e, in ultima istanza, della delinquenza e della violenza.
Quali potrebbero essere buone politiche di sicurezza urbana, in grado di ridurre le paure e, quindi, il senso di insicurezza?
Lo Stato democratico non può rinunciare a proteggere in maniera effettiva tutti i cittadini dalla delinquenza e dalla violenza. Per questo, è chiaro, deve fare ricorso alla Polizia, ai tribunali, alle carceri; però non in modo indiscriminato. Un uso improprio degli strumenti penali dello Stato, sia per lassismo o per abuso di potere, non solo non contribuisce a migliorare la sicurezza pubblica, ma al contrario la peggiora. Non è comunque sufficiente adottare misure di protezione nei confronti degli effetti estremi del conflitto sociale. Le istituzioni democratiche devono anche fare tutto il possibile per ridurre il clima di insicurezza diffusa davanti alla delinquenza che attanaglia le nostre società. Non dovremmo dimenticare che il timore costante e diffuso, nevrotico in definitiva, non solo non risulta utile per eludere i pericoli reali, ma ci impedisce di comportarci con la dovuta precauzione. Alla fine dobbiamo agire sulle cause sociali, economiche e culturali dell’insicurezza urbana. Solo un’azione simultanea su questi tre livelli ci permetterà di mettere in atto un autentico governo democratico della sicurezza che combini i benefici delle misure a breve termine, finalizzate a evitare le aggressioni delinquenziali con i derivati delle politiche a medio e lungo termine.
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Jaume Curbet è direttore del Programma di Formazione post-lauream in Politiche pubbliche di Sicurezza presso la Universitat Oberta de Catalunya (Spagna) ed è professore associato, in materia di sicurezza, presso l' Institut d'Estudis Regionals i Metropolitans de Barcelona. In passato è stato direttore dell' Observatorio del Riesgo de Catalunya e della rivista online Seguridad sostenible. Negli ultimi anni ha pubblicato: La glocalización de la (in)seguridad (2006); Temeraris atemorits: L’obsessió contemporània per la seguretat (2007); Conflictos globales, violencias locales (2007); Insicurezza: Giustizia e ordine pubblico tra paure e pericoli (2008) e Un món insegur: La seguretat en la societat del risc (2011).
FOTO: Jaume Curbet
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