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Luglio-Agosto/2011 - Interviste
Immigrati/1
Diritti senza se e senza ma per chi arriva in Italia
di a cura di Michele Turazza

Nel suo ultimo libro Adriana Apostoli sostiene che garantire
l’integrazione significa predisporre per gli extracomunitari
condizioni “umane” di vita, di lavoro e di alloggio: solo in questo modo
si combatte seriamente l’occupazione in nero che impedisce
loro di regolarizzare la propria posizione nel nostro Paese



“Garantire l’integrazione significa dire basta al continuo dipingere lo straniero come un pericolo da cui difendersi, fomentando la xenofobia e il razzismo, e mettere mano ad interventi che disciplinino l’immigrazione legale come una risorsa per il nostro Paese, predisponendo per gli immigrati condizioni “umane” di vita, di lavoro e di alloggio, e combattendo seriamente il lavoro nero, che impedisce loro di regolarizzare la propria posizione.
È la Costituzione stessa ad imporcelo con l’art. 2, che richiede, accanto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, e con l’art. 3, il cui secondo comma prevede la promozione dell’uguaglianza sostanziale tramite la rimozione di tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
La Costituzione ha infatti riconosciuto i diritti inviolabili dell’uomo e ha imposto allo Stato di profondere il massimo sforzo perché questi costituiscano la stella polare del suo agire, ma ha chiesto ai cittadini di contraccambiare adempiendo ai doveri di solidarietà politica, economica e sociale”.
Troppo spesso ci si dimentica della Costituzione, in particolare quando si trattano i diritti del “diverso”, dello “straniero”, che fa paura e provoca angoscia, inquietudine, smarrimento. Sempre più frequentemente è il Parlamento che legifera in spregio ai principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà. Ne abbiamo parlato con Adriana Apostoli, autrice di “Diritti senza scuse” (biblioFabbrica).

Professoressa Apostoli, il suo libro si apre con una serie di considerazioni sul concetto di cittadinanza: qual è stata l’evoluzione di tale nozione?
A partire dalla rivoluzione inglese del 1688-89 e da quella francese del 1789, si è affermato un concetto di cittadinanza quale fattore di uguaglianza di una collettività di individui e quale strumento per il progressivo affermarsi di un nucleo sempre più ampio di diritti del singolo, intangibili da parte dell’autorità pubblica, spettanti indistintamente a tutti gli appartenenti a una organizzazione statale in quanto, appunto, cittadini. Tale nozione di cittadinanza faceva inevitabilmente riferimento e si rivolgeva al popolo, il quale diveniva dunque lo strumento per l’imputazione di situazioni giuridiche soggettive: nell’ambito della cittadinanza, infatti, si cercava di realizzare il principio di eguaglianza tra tutti i cittadini nei confronti dell’autorità pubblica.

E oggi?
Oggi la realtà è profondamente mutata, e anche il significato dell’istituto della cittadinanza, come legame dell’individuo con un ordinamento statuale, non può non tenere conto di questo diverso contesto: il concetto di Stato nazionale, nell’ambito del quale si è sviluppata la nozione di cittadinanza, sta conoscendo una progressiva erosione, ad opera di molteplici fattori che riguardano principalmente, da un lato, la globalizzazione – che implica la circolazione a livello planetario delle persone, delle idee, delle merci, dei capitali, delle culture – e, dall’altro lato, il crescente fenomeno dell’immigrazione dai Paesi più poveri a quelli più sviluppati. Il mescolarsi di questi fattori ha fortemente caratterizzato lo sviluppo degli ordinamenti statali in società multiculturali e multietniche, mettendo sempre più in difficoltà il concetto di “Stato dei cittadini”. Si rende allora indispensabile una riflessione in merito alla titolarità di tutti i diritti, che fino a pochi decenni fa era riconosciuta, appunto, in virtù dell’antica nozione di appartenenza giuridico-formale ad uno Stato-Nazione, e che oggi deve invece guardare ad un concetto di “cittadinanza sostanziale” basato sulla più ampia ed indistinta nozione di diritti della persona tout court.

Quali le conseguenze in ordine al riconoscimento dei diritti allo “straniero”?
E’ una grande conquista di civiltà l’affermazione per la quale, in una società moderna e democratica, debbano comunque essere riconosciuti e garantiti allo straniero presente nel territorio dello Stato quei diritti e quelle libertà che attengono in maniera essenziale e peculiare alla condizione umana, che hanno una dimensione universalistica e che, pertanto, necessariamente prescindono dall’elemento territoriale e dal legame di cittadinanza con un dato ordinamento. I diritti inviolabili sono riconosciuti a tutti, cittadini e stranieri, e in tale materia, come è stato affermato dalla stessa Corte costituzionale, il principio di eguaglianza deve applicarsi anche agli stranieri senza discriminazione alcuna. Del resto, tra le convenzioni stipulate dall’Italia, i cui contenuti vincolano la normativa interna, vi sono le norme internazionali pattizie sulla condizione giuridica dello straniero, che estendono anche agli immigrati la titolarità dei diritti fondamentali spettanti al cittadino (ad esempio, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950).

Il legislatore ordinario ha tenuto conto, nella produzione normativa in tema di immigrazione e riconoscimento di diritti ai “non cittadini”, di tale mutamento di significato?
Gli interventi del nostro legislatore volti a disciplinare il fenomeno immigratorio non sembrano aver tenuto conto delle circostanze ricordate. Soprattutto a partire dalla c.d. legge Bossi-Fini (legge n. 189 del 2002), che ha sensibilmente modificato il Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998), abbiamo assistito ad una progressiva e significativa involuzione della legislazione sull’immigrazione dal punto di vista della garanzia dei diritti fondamentali. L’atteggiamento che risulta chiaramente visibile nei recenti testi legislativi è quello di far leva sulla paura per il “nemico” e sull’esigenza di sicurezza, tanto da creare l’immagine di ordinamenti perennemente “sotto assedio”: con il pretesto della necessità di far fronte all’emergenza sicurezza, la disciplina dell’immigrazione, dal 2002 in poi, è diventata sempre più severa e restrittiva; la preoccupazione di favorire l’immigrazione regolare e di garantire ad ogni immigrato un nucleo minimo di diritti fondamentali è passata in secondo piano rispetto all’esigenza predominante di contrasto e di lotta al fenomeno degli ingressi irregolari. Per giustificare norme così restrittive, è stata posta un’attenzione particolare sull’aspetto criminogeno dell’immigrazione clandestina e sull’allarme sociale che ne deriva.

I recenti “pacchetti sicurezza” hanno confermato tale tendenza?
Già con la normativa del 2002 era chiaro che l’obiettivo fosse soltanto l’ordine pubblico. La situazione, a seguito dei cosiddetti pacchetti sicurezza, si è ulteriormente aggravata in quanto hanno aggiunto ulteriori restrizioni: dopo aver reso più difficili l’ottenimento e la conservazione del permesso di soggiorno, con conseguente aumento delle situazioni di irregolarità, il nostro legislatore ha infatti optato per la criminalizzazione della condizione di immigrato irregolare.
In un primo momento, la legge 24 luglio 2008, n. 125 (“Pacchetto sicurezza” del 2008) ha inserito nel nostro ordinamento l’aggravante della condizione di clandestino, con conseguente aumento della pena, in caso di commissione di qualunque reato, fino ad un terzo (aggravante che è stata tuttavia dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 249/2010).
Successivamente, la legge 15 luglio 2009, n. 94 (“Pacchetto sicurezza” del 2009) ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, evidenziando come lo status di migrante disegnato dal nostro legislatore non sia inscritto nella prospettiva della persona umana, dei diritti e del riconoscimento della dignità, ma piuttosto in quella della marginalizzazione, dell’esclusione e della criminalizzazione. Il nostro legislatore equipara, senza eccezioni, il clandestino al delinquente, con un ricorso al diritto penale che potremmo definire “sproporzionato”, oltre che discutibile, se si considera che la sanzione penale deve sempre costituire una extrema ratio nell’ordinamento.

Tra l’altro è doveroso notare che il reato di immigrazione clandestina criminalizza, più che un fatto materiale, una condizione personale.
Proprio così. E’ stata criminalizzata una condizione personale, uno status, anziché un comportamento o un fatto: non è l’immigrato che delinque ad essere sanzionato, ma l’immigrato in quanto tale. La condizione stessa di extracomunitario privo di permesso di soggiorno viene etichettata come illegale, criminale, non rilevando se tale condizione sia magari determinata dalla lentezza della burocrazia italiana, che non rinnova in tempo il permesso di soggiorno. In tal modo, la cittadinanza, un tempo fattore di uguaglianza, si trasforma in un ostacolo all’uguaglianza e in un elemento di discriminazione, diventando il mezzo per una distribuzione ineguale della coercizione dello Stato: maggiore nei confronti dei più deboli, minore nei confronti dei più forti.

Come si è arrivati alla criminalizzazione della condizione di immigrato irregolare?
L’introduzione del reato di immigrazione clandestina, così come tutte quelle norme restrittive dei diritti fondamentali degli stranieri contenute nei recenti interventi normativi del legislatore, si inscrivono a pieno titolo in un quadro, sia nazionale sia internazionale, che ha visto crescere progressivamente l’attenzione degli Stati e dell’opinione pubblica nei confronti del tema della sicurezza e dell’ordine pubblico. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno dato inizio ad una stagione contrassegnata dall’adozione, da parte di tutti gli Stati occidentali e delle organizzazioni internazionali, di norme e provvedimenti a tutela della sicurezza collettiva. Tale legislazione dell’emergenza ha comportato sia deroghe a principi costituzionali universali sia, in particolare, forti restrizioni in materia di diritti fondamentali.
Il medesimo strumento della compressione dei diritti, “giustificata” dalla necessità di difendersi dal “pericolo esterno”, viene poi utilizzato anche nella gestione delle emergenze interne ai singoli Stati; sul versante nazionale, infatti, la paura per il nemico e l’esigenza di sicurezza portano gli ordinamenti a sentirsi perennemente “sotto assedio”, costretti a difendersi dall’ “invasione” degli stranieri. È inevitabile che l’attribuzione di una importanza primaria al valore della sicurezza porti a giustificare il ricorso a meccanismi repressivi: se sul piano internazionale, a fronte delle minacce terroristiche o delle violazioni dei diritti umani, gli Stati, in luogo della valorizzazione della diplomazia e del dialogo tra i popoli, preferiscono ricorrere all’uso della forza, allo stesso modo, sul piano interno, la paura per il nemico, identificato con il “diverso”, si traduce in politiche repressive dell’immigrazione, rinunciando aprioristicamente alle politiche per l’integrazione.
La criminalizzazione della condizione di immigrato irregolare rappresenta dunque chiaramente uno degli aspetti e delle conseguenze della demagogica adozione di una strategia emergenziale, la cui prima vittima sono i diritti, soprattutto quelli degli stranieri, che diventano il “capro espiatorio” su cui concentrare l’attenzione e l’ostilità dei cittadini.

Cosa resta dell’effettività dei diritti fondamentali?
Al di là della previsione della nuova fattispecie penale, le recenti norme in tema di immigrati toccano tutti gli aspetti della vita di queste persone (salute, famiglia, casa, istruzione, lavoro, integrazione sociale): in tal modo, esse investono la materia della dignità dell’essere umano e tendono ad una precarizzazione della vita degli immigrati, andando ad incidere profondamente sui loro diritti fondamentali – quali quelli inerenti il matrimonio, il diritto all’unità familiare, il diritto fondamentale alla casa, il diritto di mantenere ed istruire i propri figli, il diritto alle cure mediche – tutti diritti irrinunciabili che vengono, invece, negati o compressi. A ciò dobbiamo aggiungere il trattamento che viene riservato alle persone che si trovino nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), nonché le politiche dei respingimenti di massa, per capire fino a che punto la dignità di esseri umani può essere, ed è, effettivamente calpestata.
Le politiche legislative, che comprimono i diritti fondamentali, portano inevitabilmente ad un aggiramento delle norme costituzionali, producendo una regressione dei sistemi democratici. Non nego che l’aumento dei fenomeni di migrazione possa creare oggettive difficoltà e problemi in termini di sicurezza e convivenza pacifica; tuttavia, occorre prendere atto, con molta onestà e senza ipocrisie, che viviamo ormai in società multiculturali e multietniche, e che i fenomeni migratori, pur potendo e dovendo essere regolati, in nessun modo possono essere fermati, e per nessuna ragione possono essere tollerate inammissibili deroghe al principio universale della tutela dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali.

Come si è espressa la Corte costituzionale sul punto?
Numerosissime sono le pronunce della Corte costituzionale che hanno contribuito all’individuazione e alla specificazione del contenuto dei diritti fondamentali spettanti allo straniero.
In via generale, il giudice costituzionale, in tema di diritti inviolabili, ha da tempo dichiarato che essi spettano “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, e che il principio costituzionale di eguaglianza non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero. La Corte costituzionale è stata inoltre chiamata ad esprimersi anche sul ricorso al diritto penale nei confronti degli immigrati irregolari operato con le citate norme del 2008 e del 2009. A questo proposito, va detto che il giudice costituzionale non si è spinto a dichiarare l’incostituzionalità della disposizione che introduce il reato di immigrazione clandestina, sulla base dell’affermazione per cui l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore, il cui esercizio può essere sindacato solo ove si traduca in scelte connotate da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, caratteristiche che la Corte non ha in questo caso ravvisato (Si veda però la recente pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che ha bocciato il reato di clandestinità, ritenendolo in contrasto con una direttiva del 2008 sul rimpatrio degli immigrati irregolari, ndr). È stata, invece, dichiarata non compatibile con la Costituzione la norma che introduce l’aggravante della clandestinità, poiché fondata su una irragionevole presunzione generale ed assoluta di maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare, che si riflette sul trattamento sanzionatorio di qualunque violazione della legge penale da lui posta in essere, con conseguente lesione del principio di offensività.

Il filo rosso degli ormai annuali “pacchetti sicurezza” è rappresentato da politiche dell’emergenza, in nome delle quali, sempre più spesso, vengono previste deroghe permanenti ai diritti inviolabili dell’uomo.
Premesso che uno stato di emergenza è certamente una condizione grave che può senz’altro richiedere misure altrettanto pesanti, è giusto e doveroso sottolineare che l’emergenza ha pur sempre carattere temporaneo, e che anche le misure straordinarie adottate per farvi fronte non possono protrarsi illimitatamente nel tempo.
La normativa che stiamo commentando, invece, evoca l’emergenza per giustificare restrizioni di diritti fondamentali che non sono caratterizzate dal necessario connotato della provvisorietà, ma che vengono anzi presentate come regole volte a garantire a tempo indeterminato la sicurezza e l’ordine pubblico.
Il grave rischio è che, se l’emergenza da fattore eccezionale diviene regola generale, il passaggio da un sistema democratico ad uno con caratteri illiberali, autoritari e finanche dittatoriali sia davvero molto probabile. Lo status del non cittadino, in effetti, costituisce un importante banco di prova per verificare la tenuta e l’effettività dei principi che stanno alla base di una moderna democrazia, primi fra tutti il principio di eguaglianza e il rispetto del valore della dignità di ciascun essere umano.
La paura si presta molto bene ad essere sfruttata da chi detiene il potere anche legittimamente per oltrepassare i limiti rappresentati dalla garanzia dei diritti fondamentali, che non riguardano, come noto, solo gli stranieri.
La resa alla paura e all’“ossessione della sicurezza”, giustificando uno svilimento del valore della dignità e del principio di eguaglianza, può portare alla pericolosa situazione per cui tutti possiamo diventare potenziali criminali, magari per condotte bagatellari: se, infatti, giustifichiamo la “disinvoltura” con la quale vengono compressi o negati i diritti degli altri (che diventano, in questo modo, un po’ meno inviolabili di quanto siamo abituati a ritenerli), se ammettiamo che la difesa della persona da parte dello Stato possa basarsi sulla disuguaglianza dei diritti, dobbiamo allora essere consapevoli che il passo verso una restrizione anche dei nostri diritti può essere pericolosamente breve.

Lo sgretolamento dei regimi del Nord Africa porta migliaia di persone a riversarsi sulle coste italiane, nella speranza di condizioni di vita migliori: come si potrebbe fronteggiare efficacemente l’emergenza umanitaria, coniugando sicurezza e solidarietà?
E’ importante sottolineare che sicurezza e integrazione non sono due concetti in contrasto tra loro: garantire la sicurezza dei cittadini, che senza dubbio rappresenta un loro diritto fondamentale, non significa negare ai non cittadini il riconoscimento dei più basilari diritti umani, bensì adoperarsi per garantire l’integrazione dei soggetti più deboli tramite l’affermazione e la tutela dei loro diritti (oltre che, ovviamente, dei loro doveri), di modo che essi, vedendosi finalmente riconosciuta la loro dignità, non siano tentati dal cercare nella criminalità una via d’uscita alla loro condizione disperata.
Le politiche legislative ricordate, peraltro, oltre ad essere palesemente discriminatorie, sono anche del tutto inutili: nel tentativo di rendere sempre più difficile l’ottenimento di un permesso di soggiorno, esse avranno l’unico effetto di far aumentare il numero dei clandestini e di aggravare la loro emarginazione sociale, con la conseguenza di un inevitabile aumento della illegalità, come sempre accade quando le persone si trovano costrette a sopravvivere in condizioni disagiate, disumane, di debolezza e di difetto, e per questo soggette a soprusi e sfruttamento.
“La nostra cultura politica ha bisogno di solide basi morali affinché in ogni scelta, riguardante sia le dimensioni personali del vivere sia la difesa del bene comune, risulti sempre prevalente il rispetto della dignità dell’ uomo. [...] Anche per coloro che si dimostrano scarsamente sensibili alla tematica dei diritti umani, mi pare ci possano essere delle buone ragioni per investire sulla dignità, fondamento e misura dei diritti e della democrazia: la democrazia non sopravvive ad individui che non sanno fare alcun sacrificio per difenderla e che inseguono unicamente il proprio momentaneo ed effimero tornaconto”.
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Adriana Apostoli insegna Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia. Tra le sue pubblicazioni: L’ambivalenza costituzionale del lavoro tra libertà individuale e diritto sociale (Giuffrè, 2005) e Implicazioni costituzionali della responsabilità disciplinare dei magistrati (Giuffrè, 2009). Nel 2010 è uscito Diritti senza scuse, edito da biblioFabbrica, piccola casa editrice bresciana, nata nel 2007 “con la ferma convinzione di coltivare i fiori della diversità, della multiculturalità; di essere un crocevia d’incontro tra culture, lettori e scrittori; di raccontare storie e di contribuire al dibattito sui alcuni temi centrali per il nostro paese” (www.bibliofabbrica.com).

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