Claudio Giardullo, segretario nazionale del Silp, fa un bilancio
di questi ultimi 30 anni dalla Legge 121. Un modello che ha retto
alle scosse del terrorismo e delle stragi mafiose, ma che oggi
si trova di fronte a nuove minacce criminali. Prime fra tutte, le infiltrazioni
delle mafie al Nord
«La riforma? E’ un modello assolutamente valido. Ha solo bisogno di un po’ di manutenzione».
Claudio Giardullo, Segretario del Silp, fa un bilancio di questi ultimi 30 anni dalla legge 121. Un modello che ha retto alle scosse del terrorismo e delle stragi mafiose, ma che oggi si trova di fronte a nuove minacce criminali. Prime fra tutte, le infiltrazioni delle mafie al Nord.
Nel 1981, con la Riforma della Polizia, nasce un nuovo concetto di sicurezza imperniato sulla democrazia e sui diritti del cittadino, nel quale centrale è il rapporto tra Organi di sicurezza dello Stato e popolazione. Sono passati trent’anni: a che punto siamo in questo processo di democratizzazione? E’ un dato acquisto o c’è ancora strada da fare?
La Riforma è stato uno spartiacque importante nei rapporti tra Stato e cittadino, perché per la prima volta si supera la separatezza dei corpi dello Stato. Questo, forse, è l’effetto più importante in un’istituzione così delicata come quella della sicurezza pubblica e, in particolare, della Polizia.
Fino alla Riforma le Forze di polizia non avevano un grandissimo grado di trasparenza e i cittadini non sentivano questa istituzione vicina. La percepivano come uno strumento di coercizione e di repressione e l’idea di ordine pubblico era ancora quella ottocentesca di osservanza della legge e conservazione dello status quo. Dalla Riforma in poi si è cominciato a parlare di sicurezza e di ordine pubblico democratici, è stata smantellata la classica e insidiosissima separatezza dei corpi dello Stato, ci ha guadagnato la democrazia del Paese, è cambiato il rapporto fra Stato e cittadino e il cittadino ha cominciato a vedere le Forze di polizia come un proprio strumento di autodifesa dalle minacce criminali. La Riforma ha determinato anche un grande cambiamento in fatto di efficienza del sistema. Fondamentale, in tal senso, è stato definire con chiarezza i diversi poteri e le responsabilità: le Forze di polizia diventano organi esecutivi delle direttive del Ministero dell’Interno a livello centrale, del questore e del prefetto a livello provinciale, il primo sul piano politico e amministrativo, il secondo sul quello tecnico e operativo.
Il modello della legge 121 è ancora assolutamente valido: è un impianto che ha retto all’usura del tempo, in un periodo di trent’anni in cui l’Italia ha attraversato difficilissimi momenti. Penso soprattutto al terrorismo e alle stragi mafiose. Importantissimo è stato anche il lavoro delle organizzazioni sindacali che, oltre a tutelare i diritti degli operatori, hanno costruito dei canali permanenti tra società civile e Forze di polizia e hanno garantito tenuta democratica all’interno dei corpi. Non era facile stare al di qua dei confini delle norme quando, durante il terrorismo, si uccideva un poliziotto anche solo perché indossava una divisa o quando, nel periodo delle stragi mafiose, donne e uomini della Polizia morivano mentre facevano le scorte a magistrati importanti come Falcone e Borsellino. Non era facile non perdere la calma, eppure è successo. Questo grazie anche alla presenza di organizzazioni sindacali che hanno contribuito a mantenere uno stretto rapporto con la società civile, che hanno lavorato per la tutela degli operatori, facendo in modo che non si smarrisse, sia pure nel dramma, questo orizzonte democratico. A una fase terribile come quella stragista e terrorista, del resto, sono seguiti risultati eccezionali: penso a quella importante stagione di vittorie e di successi che, dopo le stragi mafiose, portò all’arresto di altissimi esponenti della mafia. Certo, la legge 121 è un modello che ha bisogno di un po’ di manutenzione, ma ciò non vuol dire stravolgerne l’impianto. Quello che serve è adattare la struttura preesistente alle nuove esigenze, a partire dal rapporto tra organi dello stato ed Enti locali.
Quanto le scelte del governo in fatto di sicurezza, e mi riferisco soprattutto ai tagli, influiscono sulla “salute” del corpo di Polizia e sulla qualità del loro servizio?
Influiscono tantissimo. La difesa e la sicurezza sono settori che hanno la continua esigenza di cambiare strategie, tecniche e modi di prevenzione. Gli scenari economici e sociali sono in continua evoluzione e quindi c’è bisogno di avere grande elasticità nel sistema per far fronte alle nuove esigenze. Il nostro governo, però, considera la sicurezza una spesa, non investimento. In questi ultimi 3 anni si ha avuto la sensazione che non ci sia grande consapevolezza del peso che ha la sicurezza nello sviluppo della vita dei cittadini. Il governo di centrodestra ha vinto, a detta degli osservatori delle vicende politiche, soprattutto per la “questione sicurezza”, ma in realtà il suo primo atto ufficiale è stata la manovra finanziaria del 2008 che prevedeva un taglio di 1 miliardo di euro alle Forze di polizia, il più importante nell’Italia repubblicana. Fino a qualche mese prima prometteva più sicurezza e più strumenti per le Forze di polizia, apparati con più dotazioni tecniche e personale, ma appena in carica ha indicato una scelta strategica opposta. Un taglio lineare che ha pesato anche sulle attività produttive, determinando i disagi che tutti conosciamo: manca la benzina per le volanti, alcuni commissariati sono stati costretti a chiudere, le trasferte, importanti nelle attività di ordine pubblico e in quelle investigative, sono state ridotte, non ci sono fondi per la riparazione dei ripetitori che devono garantire copertura radio in certe aree a forte presenza mafiosa. Queste difficoltà sono state risolte solo per l’impegno degli operatori, ma un Paese del G8, tra i più produttivi del pianeta, con un serio problema di sicurezza per la collocazione geografica e per l’altissima concentrazione mafiosa, non può fondare le strategie di sicurezza solo sull’impegno dei poliziotti.
Nonostante fosse già nota, dopo l’intervento di Saviano a “vieni via con me” la questione della presenza della mafia al Nord è diventata sempre più urgente, difficile da minimizzare. Pochi giorni fa, per citare l’ultimo episodio, 151 arresti in quattro province italiane, tre delle quali Torino, Milano e Modena. Qual è il ruolo delle Forze dell’ordine in questo problema sempre più avvolgente?
Noi in particolare denunciamo da tempo i rischi di un’occupazione pericolosa delle mafie nel Nord Italia. Purtroppo, non ci sono più isole felici nel nostro Paese. Certo, non occorre fare allarmismo perché non servirebbe a nulla, però sarebbe altrettanto sbagliato rimuovere, negare il problema, come troppo spesso in questi anni è successo in Italia. Il problema della presenza mafiosa al Nord è reale e molto rischioso, perché le organizzazioni criminali stanno passando dalla fase dell’inquinamento dell’economia legale al Nord, attraverso la messa a disposizione di capitali di provenienza illegale per tutte quelle imprese che sono in difficoltà per la crisi economica mondiale di questi anni, alla fase del vero e proprio controllo del territorio. Quello che è successo a Pavia, dove i dirigenti di un’Usl sono stati arresti e sono sotto processo, quello che è successo in Liguria dove un comune è stato sciolto per infiltrazione mafiosa, ci dice che ormai le organizzazioni mafiose puntano più in alto, e la corruzione diventa il canale privilegiato di questa ambizione. Secondo noi è finito il tempo della sottovalutazione, bisogna sensibilizzare l’opinione pubblica, gli amministratori locali, gli organi dello Stato. E’ ancora possibile fare qualcosa, non tutto è perduto, c’è ancora la possibilità di evitare che altre regioni passino sotto il totale controllo economico delle organizzazioni mafiose. Ricordo che al Sud, in città come Palermo, Catania, Napoli e Bari, la punta di controllo economico attraverso usura e racket a volte è oltre il 90 - 95%. Per evitare che anche al Nord, dove c’è un’economia vivace e quindi appetibile, si verifichino gli stessi processi già consolidati nel meridione c’è bisogno di avere consapevolezza dei rischi e intervenire prima che sia troppo tardi.
La mafia viene spesso negata dalle istituzioni, una brusca smentita è arrivata all’indomani della già citata dichiarazione di Saviano. Lo scorso anno il prefetto di Milano ha dichiarato che nel capoluogo la mafia non esiste, il ministro dell’interno Maroni ha definito le parole dello scrittore “infamanti”. Questo atteggiamento dipende da una sorta di senso di inadeguatezza nei confronti della criminalità organizzata o dalla volontà di conservarsi puliti su un piano politico? E quanto questo atteggiamento della politica pesa sulle Forze dell’ordine?
Occorre fare una distinzione. Io comprendo l’atteggiamento di quegli amministratori locali non coinvolti in attività illecite che, di fronte alla scoperta della presenza di un’organizzazione criminale nel proprio territorio, non si rassegnano, non si fanno una ragione. La prima reazione è quella della negazione. Capisco meno questo atteggiamento quando per lungo tempo le evidenze giudiziarie e le indagini delle Forze di polizia dimostrano che c’è un’espansione della mafia al Nord. In questo caso la sottovalutazione deve essere superata per cercare di dare risposte ai cittadini, poiché siamo di fronte a un rischio mortale non solo per l’economia e lo sviluppo, ma anche per la libertà e la democrazia di questo paese.
In Italia la disoccupazione giovanile sfiora il 29%. Le statistiche dimostrano che i giovani italiani stanno peggio dei coetanei europei. Il 76% degli italiani con meno dei 25 anni è convinto che l’unico modo di fare carriera sia emigrare, dato confermato dal numero dei ragazzi che negli ultimi 10 anni hanno lasciato il Paese, circa due milioni. Quelli che restano si adeguano a situazioni lavorative precarie, molti rientrano nella categoria dei Neets (not in education, employment or training), cioè quei giovani che non lavorano né studiano. Quanto questa condizione di instabilità sociale ed economica rende i giovani più esposti ai pericoli del mondo criminale? Qual è, oggi, il rapporto tra giovani generazioni e criminalità?
La crisi moltiplica le potenzialità delle organizzazioni criminali. Quando c’è crisi gli imprenditori sono in grande difficoltà, molte imprese chiudono, aumenta il numero di attività che, non riuscendo ad ottenere credito tramite i canali legali, si rivolge alle organizzazioni mafiose. Quello in genere è l’inizio della fine dell’impresa stessa, la fase che precede l’espulsione dal sistema legale, nonché la fine della serenità di quell’imprenditore e della sua famiglia. I rischi sono tantissimi per il mondo economico e per i riflessi sociali. In queste condizioni, specie in alcune aree più arretrate da un punto di vista economico e sociale, la lusinga delle organizzazioni criminali è più potente e diretta esattamente ai giovani. Ci sono delle aree del mezzogiorno del Paese in cui non c’è confronto nella capacità di “arruolamento” da parte delle organizzazioni criminali rispetto a quella dello Stato di convincere di tenersi lontani dall’illegalità. Quando, pensiamo al versante delle sostanze stupefacenti, un’organizzazione criminale può offrire a un giovane una remunerazione che è 30 volte quella di un impiego normale, c’è una concorrenza troppo forte. In questo caso, ovviamente, dovrebbero intervenire altri fattori: la fiducia nei confronti dello Stato (che, di fronte a livelli così alti e diffusi di illegalità, è difficile da mantenere), programmi e strategie di contrasto nel territorio per dare la percezione che il crimine non paga, far passare l’idea che se si finisce nel circuito criminale ci sono alte possibilità di finire in carcere. Nella conquista di questa fiducia, però, una grande e importantissima partita la gioca la cultura dell’illegalità coadiuvata da circuiti giudiziari e di Polizia funzionali. Interventi come quello di Saviano sono fondamentali perché oggi milioni di persone più di prima conoscono quali sono i drammi di un Paese che è sotto il tallone delle mafie. La diffusione della notizia, però, non è sufficiente: il giovane per non cadere nella trappola dell’illegalità deve sapere che lo Stato è in grado di offrire un’alternativa valida. Bisogna conquistare gli indifferenti, una grandissima fetta della società: solo in questo modo la parte sana dell’Italia potrà vincere.
Con la primavera araba consistenti e costanti flussi di immigrati approdano sulle nostre coste. La gestione dell’emergenza, soprattutto in un primo momento, non è stata prontamente gestita, l’isola di Lampedusa ha pagato un prezzo altissimo in termini di sovraffollamento e di danno economico. L’inadeguatezza della politica in questo ambito quanto ricade sull’operato della Polizia?
Ha pesato moltissimo. C’è stato un ritardo gravissimo da parte del governo nell’affrontare nel modo corretto un’emergenza che si è sviluppata in termini assolutamente inediti dal punto di vista delle dimensioni, ma in un arco temporale che consentiva l’adozione di misure complessive articolate e di lungo respiro. Il governo, invece, ha inizialmente tentato un approccio assolutamente impossibile, quello della società chiusa, del respingimento di massa, del contrasto sul versante dell’ordine pubblico. Questa è un’emergenza di carattere sociale, l’idea di poter rispondere a emergenze planetarie di questo tipo soltanto sul versante dell’ordine pubblico è un’idea destinata a fallire, soprattutto se proposta da una società occidentale, a maggior ragione la nostra. E’ un’idea truffaldina sul piano politico: è chiaro quasi a tutti che di fronte a processi mondiali come quello dei flussi migratori non si può rispondere solo con l’approccio del “paese fortino”. E non lo può fare un Paese come l’Italia per la sua conformazione geografica, per la sua presenza di cerniera tra Nord e Sud del mondo. E’ gravissimo che ci sia stato in un primo momento il tentativo di far passare i rifugiati politici per semplici clandestini, cioè persone presenti irregolarmente nel nostro Paese. Le Forze dell’ordine, poi, sono state caricate di un compito e di un’esposizione della quale non dovevano sobbarcarsi. Quando si è capito che tutto questo non reggeva nell’orizzonte internazionale e che, oltre alla perdita di credibilità, stava cominciando a causare problemi enormi sul piano umanitario, igienico e sanitario non solo per gli immigrati ma anche per gli abitanti di quel lembo di terra che è Lampedusa, solo allora il governo ha fatto un passo indietro ed ha accettato l’idea del permesso per motivi umanitari. Nel primo periodo, però, tutti hanno pagato un prezzo altissimo e il Paese ha subito un danno sul piano del prestigio a livello internazionale.
Un'ultima domanda. In seguito agli scandali che hanno travolto il nostro Premier si è sviluppato un movimento trasversale che ha portato moltissime donne in piazza. Al centro della loro protesta non solo la mercificazione del corpo femminile, ma anche la richiesta di riforme che consentano alle donne italiane parità nel lavoro e un maggiore aiuto nella scelta di avere una famiglia. Anche le donne poliziotto hanno aderito all’appello di “Se non ora quando”. Qual è, attualmente, la loro situazione?
Ovviamente in questi anni sono stati fatti molti passi in avanti. La mia organizzazione sindacale ha nel suo dna un’attenzione particolare per le questioni di genere e per i diritti delle donne. Inutile nascondere che quella della Polizia era, in passato, tra le strutture più chiuse, esclusive e maschiliste. Dalla riforma in poi la presenza femminile in Polizia è decisamente aumentata, anche se negli ultimi anni si è verificato un arresto in tal senso. Non essendoci un concorso da dieci, dodici anni, il passaggio di un anno di servizio da volontario in ferma breve nell’esercito ha spinto molte donne a fare altre scelte professionali. Il numero di donne che decide di entrare nelle Forze di polizia passando per i volontari di ferma breve è ridottissimo, parliamo di poche unità all’anno. Questo ferma un processo virtuoso e positivo che si era innescato all’indomani della Riforma, che vedeva con i concorsi entrare in Polizia una percentuale altissima di donne.
Certo, è anche un problema di affermazione di nuovi modelli sociali e culturali. Le donne di altri paesi, come gli Stati Uniti, sono abituate da un tempo molto più lungo del nostro ad entrare nei corpi dell’esercito. Nella Polizia di Stato smilitarizzata le donne sono entrate sono all’inizio degli anni Ottanta, con un ritardo di decenni rispetto ad altri paesi del mondo occidentale. C’è stato un grande successo dopo la Riforma, segno anche di un cambiamento profondo dell’idea dell’appartenenza alle Forze di polizia rispetto al periodo precedente. Ormai quella del poliziotto era considerata anche dalle donne una professione interessante, dalla forte carica civile e morale. Ora, invece, si registra una brusca diminuzione e, purtroppo, il numero conta. Certo, ci sono altri fattori importanti, come l’adozione di una normativa che consenta alle donne di lavorare e al tempo stesso di svolgere quella funzione sociale alla quale la famiglia le chiama. Conta anche la cultura e la mentalità di un’amministrazione, l’idea che riconoscere le pari opportunità non è soltanto fondamentale, ma anche un arricchimento imprescindibile per questa società.
Se le donne in polizia fossero di più si potrebbero raggiungere altri risultati, ma ad oggi sono solo il 10 - 15% della forza totale, ancora di meno nei posti di comando. Su questo occorrerà lavorare, sulla cultura delle pari opportunità e sulla condizione delle lavoratrici donne, perché si raggiunga la condizione necessaria per favorire il loro sviluppo professionale, senza prescindere dal carico di lavoro sociale che nel nostro paese viene chiesto loro.
Il problema è che non vedo un grande sforzo nel nostro Paese nel campo delle pari opportunità. Non possiamo vivere in un Paese che sia economicamente tra i più sviluppati e socialmente tra i più arretrati. Ci dobbiamo porre un’ambizione sul piano sociale, confrontandoci anche con i paesi del Nord Europa e con gli Stati Uniti. Chi pensa che ci possa essere uno sviluppo solamente sul piano economico e non anche sul piano sociale, che si debba competere con i paesi più sviluppati del mondo solo su un piano della produzione e non su quello del benessere sociale, non considera che sono due facce della stessa medaglia. Purtroppo in Italia c’è chi propone di uscire dalla crisi con il modello “meno diritti”: noi, invece, pensiamo che i diritti e la democrazia siano la condizione necessaria per lo sviluppo di questo Paese. Solo società forti, compatte, coese anche da un punto di vista sociale sono in grado di sostenere grandi sforzi su un piano produttivo. I lavoratori devono sentirsi tutti cittadini di serie A: solo in quel caso parteciperanno a importanti momenti di lavoro e sacrificio per uscire dalle difficoltà economiche. Penso agli Stati Uniti della Grande Depressione: in quel momento nessuno pensò che attraverso la compressione dei diritti si potesse uscire dalla crisi. Il New Deal era un’idea di impegno che metteva al primo posto il riconoscimento e la tutela dei diritti di tutti i cittadini.
FOTO: Claudio Giardullo, Segretario nazionale Silp per la Cgil
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