Tra i nostri connazionali è in atto una crisi
antropologica grave. Il timore degli studiosi
è che la tendenza sia già a uno stadio avanzato, difficilmente
reversibile, e che si tratti quindi di un fenomeno
che si sta manifestando in modo tragico e che porterà
a una profonda spaccatura e disgregazione sociale
con aumento progressivo della conflittualità
In un recente rapporto del Censis è stata citata, per la popolazione italiana, una condizione definita come “crisi antropologica”. E’ una definizione grave, mai usata in passato, che richiama concetti quali il disfacimento di una società, la crisi di una cultura e la fine dei valori condivisi in una popolazione. Nonostante i vari allarmi che sono stati lanciati in passato, mai si era arrivati ad una definizione così severa: crisi antropologica. A sostegno di tale affermazione si riportano, da parte del Censis, vari dati fra cui la perdita del senso delle regole sociali collegata all’incremento della litigiosità fra i cittadini e della perdita del controllo delle emozioni e delle pulsioni per cui si diventa facilmente impulsivi e aggressivi. I cittadini italiani è come se avessero perso la capacità di tollerarsi, di sopportarsi, di stare insieme e di condividere gli stessi spazi sociali senza entrare in conflitto tra loro.
Alcuni segnali vengono facilmente estratti dalla cronaca, in cui si osserva come una banale divergenza di opinioni, un semplice diverbio, un facile e vivace scambio tra automobilisti o tra passeggeri della metro, ad esempio, si trasformino facilmente in fatti di sangue con gravi lesioni nella vittima. Il timore degli studiosi è che la tendenza in atto sia già a uno stadio avanzato, difficilmente reversibile, e che si tratti quindi di un fenomeno in corso che si sta manifestando in modo tragico e che ciò porti ad una profonda spaccatura e disgregazione sociale con aumento progressivo della conflittualità, a tutti i livelli, da quello politico a quello lavorativo, da quello sportivo a quello culturale, con la perdita di ogni forma di empatia e solidarietà tra i cittadini e l’individuazione del “diverso”, come ad esempio l’extracomunitario, quale unico responsabile del fenomeno. Il Censis parla infatti di italiani quali attori di un quadro sociale sempre più criminogeno con individui sempre più propensi e disponibili a mettere in atto condotte aggressive, violenti e ostili. Individui che esercitano aggressività e violenza verso le persone su cui possono esercitarla, come i soggetti più fragili e deboli della società (donne, minori, anziani, disabili, …), ma che al tempo stesso subiscono altrettanta aggressività e violenza da chi è sopra di loro o è più forte di loro e che per questa impotenza e passività verso i più forti, per la sensazione di non avere né tutele né diritti, sono sempre più inclini alla chiusura in se stessi, all’introversione, alla solitudine e alla depressione. Anche quello dell’incremento della depressione è un dato che viene confermato dallo studio del Censis, attraverso il consumo crescente di antidepressivi (come viene più avanti riportato e discusso). Il dato preoccupante che emerge dallo studio, e che giustifica l’incremento di aggressività e ostilità, è la tendenza che le persone evidenziano nel non rispettare più le regole sociali, interpersonali, giuridiche, per la concezione individualista che l’unico giudice a cui devono rispondere è la loro coscienza o il loro interesse. Coscienza individuale, il più delle volte particolarmente permissiva e tollerante nei confronti delle azioni da loro commesse e al tempo stesso stimolata dalla percezione diffusa, all’interno della realtà sociale, dell’assenza della capacità di rendere giustizia ai cittadini, quale servizio da parte delle Istituzioni. A fronte di una scuola che non riesce più ad educare alla convivenza civile, a fronte ad una chiesa cattolica che si dibatte in laceranti problemi interni sulla sessualità e castità dei sacerdoti, a fronte di una famiglia che non riesce a essere modello di convivenza relazionale per i troppi delitti e per la troppa violenza che si sviluppa al proprio interno, a fronte di una politica che non riesce a proporre modelli positivi di vita e di impegno sociale, il giovane cittadino cresce privo di guide morali, etiche, sociali, di valori in cui credere e per cui valga la pena mettere da parte i propri interessi personali a favore di interessi condivisi o pubblici.
Le statistiche indicano e confermano che c’è un eccesso patologico di “individualismo” nella società. Individualismo che si traduce dunque, come abbiamo visto, in sempre più facili e spesso gratuiti atti ostili e intolleranti verso il prossimo. Tra il 2004 e il 2009, ricorda il Censis, le denunce per le minacce e per le ingiurie sono aumentate del 35,3%, le denunce per le lesioni e le percosse del 26,5%, le denunce per i reati sessuali del 26,3%. C’è da dire che buona parte di questi reati in passato facevano parte del mondo criminale sommerso, in parte fisiologicamente presente all’interno di qualsiasi forma di società avveniva, soprattutto nelle sue sottoculture presenti ai margini sociali o in realtà economiche depresse, ma non seguiva al reato la denuncia alle autorità di polizia e quindi il dato era statisticamente vuoto. Oggi al reato segue più facilmente la denuncia, ma non finalizzata affinché l’autore sia arrestato dalla polizia e punito dalla magistratura, la denuncia è finalizzata alla richiesta di risarcimento economico del danno subito, sia a livello patrimoniale che morale o psicologico.
Secondo l’indagine del Censis, la riduzione del controllo sulle pulsioni, con la conseguente liberazione di violenza e aggressività, si spiega anche con l’atteggiamento profondamente individualistico degli italiani nei confronti della società. L’85,5% del campione preso in esame (circa 1.500 persone) pensa che l’unico arbitro dei propri comportamenti sia la propria coscienza. Per il 67,6% le regole sociali non devono soffocare la libertà personale e per il 63,5% (76,9% nel caso dei giovani tra i 18 e i 29 anni) si può essere buoni cattolici anche se non ci si adegua alla morale sessuale della Chiesa. Interrogati sull’aggressività, 7 italiani su 10 dicono che se non ci si fa rispettare, non si otterrà mai il rispetto. Il 48,6% pensa che a volte sia giusto difendersi da solo, anche con le cattive (61,3% tra chi vive nelle grandi città) e il 21,2% ritiene che in un mondo di furbi sia necessario adeguarsi e diventare furbi e scaltri come gli altri. Sono queste le risposte che da sempre ci aspetteremmo da un appartenente ad una banda criminale oppure da un giovane che vive in una sottocultura da borgata o di periferia. E invece sono le risposte di comuni cittadini, di chi ogni giorno troviamo al nostro fianco nei vari contesti sociali in cui ci muoviamo: è il vicino sui mezzi pubblici, il guidatore che ci segue, la persona che sta facendo la fila accanto a noi all’ufficio pubblico o all’ufficio postale. Da questi dati emerge quindi un quadro della società italiana in cui il peso di una coscienza collettiva condivisa nei valori etici e morali è sempre più marginale, falsata e non determinante. Il riferimento per tutti è la coscienza personale, l’etica personale, la morale personale, la giustificazione personale al proprio egoismo, con tutte le distorsioni che una valutazione soggettiva può avere in un contesto relazionale, come il tornaconto personale. Emerge inoltre che il peso dell’impregnazione religiosa nel determinare i comportamenti dei cittadini è sempre più relativo, se non addirittura assente, nonostante ci si continui a considerare cattolici e ignorare sistematicamente al tempo stesso i precetti della religione cattolica. Dagli studi emerge e si conferma anche la già citata sfiducia dei cittadini verso la giustizia istituzionale, a favore della voglia crescente di farsi giustizia da soli.
In questo quadro individualistico, egoistico e soggettivo non può mancare anche il conseguente dato che gli italiani sono pronti anche ad accettare compromessi per raggiungere i loro obiettivi (46,4%) e il 16,9% pensa che sia legittimo che una bella donna usi anche il suo corpo per avere successo. Si conferma quindi la realtà italiana come la culla di una società machiavellica dove non contano i mezzi e i modi con cui si raggiunge lo scopo prefissato, l’importante è raggiungerlo a tutti i costi, sia con le buone che con le cattive, con tutte le modalità possibili, lecite o illecite che siano. Ed emerge anche il dato, soprattutto nei più giovani, il 44,8% tra i 18-24enni, i quali sono convinti che ci siano dei momenti di svago in cui è lecito trasgredire, anche a discapito della salute e della sicurezza propria o altrui. Si è perso quindi il rapporto tra moralità e peccato a sfavore della moralità ed è percepito come dominante il pensiero egocentrico secondo cui ci sono solo “io”, con le mie esigenze, le mie necessità ed obiettivi, mentre l’altro non esiste oppure esiste solo in funzione strumentale come il facilitarmi nel raggiungere i miei scopi.
Il quadro globale dunque che emerge è un quadro di cittadini sempre più egoisti, materialistici, più ostili ed intolleranti tra di loro. Ostilità ed intolleranza che bisognerebbe anche agganciare, nelle sue motivazioni, all’incremento del disagio e delle difficoltà personali nei confronti degli impegni stressanti del quotidiano. In 10 anni, dal 2001 al 2009, il consumo degli antidepressivi è raddoppiato (+114,2%) e ciò evidenzia il crescente stato di disagio psicologico cronico collegato alle difficoltà individuali in cui si trovano le persone e che le conduce ad avere un sempre più labile controllo delle proprie emozioni, soprattutto di quelle negative o distruttive, quali le frustrazioni e le insofferenze che producono condotte aggressive e violente.
Per fronteggiare questi stati psicologici negativi si osserva, soprattutto nelle fasce di malessere e disagio giovanile, a fronte dell’assenza di sostegno e guida sociale, la crescita e anche l’aumentata pericolosità del consumo di droga e dei suoi negativi effetti sulla salute e sulle condotte antisociali (le persone prese in carico nei Sert per consumo di cocaina sono aumentati negli ultimi anni del 2,5%, ponendo il grave problema che per la cocaina non ci sono sostituti chimici come il metadone lo è per l’eroina). E’ in crescita tra i giovani, anche giovanissimi, il consumo di bevande alcoliche (dal 2009 al 2010 sono passati dal 14,9% al 16,6%), con tutti i rischi correlati che si corrono con il successivo guidare automobili ed altri mezzi di trasporto sotto l’effetto di alcolici. In più, alcol e cocaina sono oggi i maggiori responsabili attivatori chimico-biologici della facile ed imprevedibile comparsa di comportamenti aggressivi, ostili, impulsivi ed intolleranti verso il prossimo, se non di vere e proprie psicopatologie gravi e cronicizzanti, quali le psicosi deliranti o paranoidee.
Di fronte a un realtà e una società fatta di persone sempre più ostili e aggressive, di fronte ad una relazionalità difficile e problematica si osserva inoltre anche una maggiore propensione ad una relazionalità “sicura” come quella virtuale: dal settembre 2008 al marzo 2011 gli utenti italiani di Facebook sono passati da 1,3 milioni a 19,2 milioni e ogni giorno vi trascorrono in media 55 minuti. Se un contatto reale nella vita quotidiana è difficile da gestire e da portare avanti, allora è meglio rifugiarsi nei contatti virtuali, mediati da uno schermo, da un computer, da uno pseudonimo, dove è facile negarsi, nascondersi e magari costruirsi quell’identità che vorremmo da sempre avere ma che non siamo mai riusciti nella realtà a tirar fuori.
(www.marcocannavicci.it)
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