Tutta l’opera di Emilio Isgrò contiene in sé
una potentissima e feroce critica, con quelle
ormai famosissime cancellature che poco spazio
sembravano riservare alla speranza, ma per l’autore sono positive
Tutta l’opera di Emilio Isgrò, artista nato a Barcellona in Sicilia nel 1037, contiene in sé una potentissima e feroce denuncia. Le sue opere a qualcuno possono essere sembrate perfino manichee, di un menicheesimo nichilista per giunta con quelle ormai famosissime cancellature che poco spazio sembravano riservare alla speranza. Ma l’autore ha dichiarato di recente: «Sin dall’inizio quando feci le mie prime cancellature, capii che quel gesto sarebbe stato letto in chiave nichilista. Non era quello il mio intento. Erano gli anni ’60 e io volevo uscire dalle logiche neoavanguardiste: la mia, al contrario, era una volontà di far coincidere la negatività del linguaggio avanguardista con la positività di un mondo aperto alla fiducia. E la scelta stessa della cancellatura (chi non capisce il significato di una cancellatura?) andava proprio nella direzione di liberare il mio discorso dall’eccesso di sofisticazione di certa arte concettuale, per non precludere la comprensione a un pubblico vasto. Pochi allora lo capirono, ma oggi, curiosamente, sono proprio i giovani a capirlo».
Giovani come quelli che hanno modo di transitare per il campus della Bocconi e che vedranno “Cancellazione del debito pubblico”, che Andrea Manritti e Cristina Jucker hanno donato a Bag (Bocconi Art Gallery). Il tutto era nato da un’inusuale lezione di Isgrò proprio alla Bocconi. Una lezione speciale, perché inversa. L’artista fece infatti una dissertazione in ambito economico a un gruppo di docenti dell’Università milanese mentre questi poi dibatterono di arte e filosofia.
L’installazione di Isgrò è stata inaugurata lo scorso 16 maggio da Mario Monti. Sulle prima Isgrò aveva pensato prima di cancellare un testo di qualche economista neo liberista («i padri del disastro che il mondo sta tuttora pagando»), poi penso al debito. Ecco allora nascere il gigantesco giornale finanziario (il cui colore di fondo ricorda quello principale italiano) aperto alle pagine centrali e tenuto fermo da uno di quei desueti fermagionali tipici di alberghi e sale da the, i cui articoli portanti portano la firma di Luigi Einaudi e Quintino Sella perché, racconta lo stesso Isgrò “volevo che attraverso i loro nomi emergesse la nozione di debito pubblico come debito pure morale”.
Le tipiche cancellature delle opere di Isgrò non sono tal quali, ma piuttosto velature da cui traspaiono tracce verbali («volevo riaggregare la radicalità del mio discorso alle conquiste della nostra pittura antica: nessuna rivoluzione è possibile se non si conserva ciò che del passato va conservato»).
Sempre a maggio, Isgrò è stato protagonista di una performance alla Gnam di Roma (“La Costituzione Cancellata e altre disobbedienze”, in collaborazione con la galleria Boxart di Verona), in cui ha vestito nuovamente i panni di un insolito Giuseppe Garibaldi, già indossati per l’inizio delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Prima era stata la città di Marsala, già scenario dello sbarco dei Mille, a far da quinta alla pièce teatrale dell’artista, che rievocava l’approdo dei garibaldini in Sicilia nel maggio del 1860. Questa volta Isgrò si è esibito invece, davanti al pubblico capitolino, circondato dai volumi della sua “Costituzione Cancellata”, senza il pericolo (o forse proprio con quell’intento) di risvegliare il “corpo” in alluminio dell’ “Italia che dorme”, incurante di un nugolo di blatte che ne cospargono il letto e la corona turrita.
Tutto ha contribuito al pathos dell’evento: l’inflessibile Italia personificata, i volumi della carta costituzionale, cura estrema di un’ammalata cronica per la quale la mano del cancellatore prevede le sorti più cupe. Dai leggii emergevano qua e là motti ambigui: divertissement per i benpensanti; profezie funeste per i più accorti.
“Lo Stato può essere sciolto da tre cittadini”, “Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto sette anni”, “E’ senatore di diritto chi è nato di febbraio”, si leggeva in un clima di grottesca decadenza, in cui l’Italia beona russa della grossa.
“Così si è ridotta la patria per cui siamo morti?”, potrebbero chiedersi i martiri di Custoza o di San Martino, ritratti nelle tele risorgimentali di Giovanni Fattori e Michele Cammarano che rivestono le pareti del Salone della galleria di Arte Moderna di Roma O, che fine ha fatto la Verità, difesa strenuamente dal Giordano Bruno - cui la sala è intitolata – simbolo, per la tradizione repubblicana e garibaldina, della lotta contro gli ‘oscurantismi’ e della libertà di pensiero? Più concentrato sulle tragiche parole di Isgrò, appariva infatti l’imponente monumento in gesso del filosofo - opera di Ettore Ferrari –, insieme all’altro Garibaldi, quello del busto scolpito da Ercole Rosa, spettatori attenti rispetto all’incosciente Italia assopita.
Di fronte a tale passività, risuonava stentoreo il grido Disobbedisco a tutto!, cui facevano da coro gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”di Roma, in un crescendo di solennità profetica, ma anche di commozione suscitata dall’originale messinscena.
Ospite speciale della pièce, della durata totale di circa mezz’ora, è stata l’attrice Francesca Benedetti, l’indimenticabile protagonista di quella Orestea di Gibellina che, portata in scena da Isgrò tra il 1983 e il 1985, ha segnato una svolta nella storia del teatro.
Sempre nella capitale all’interno dell’esposizione “Irripetibili anni ‘60”, curata da Luca massimo Barbero per la Fondazione Roma (via del Corso, fino al 31 luglio) saranno visibili due opere storiche di Isgrò la “Volkswagen” e l’“Enciclopedia Treccani Cancellata”.
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