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Luglio-Agosto/2011 - Articoli e Inchieste
Trentennale
Una riforma a volte calpestata
di Orlando Botti - già Ispettore Capo della Polizia di Stato

Siamo giunti al trentesimo anniversario della Legge di Riforma 121/81, cioè del rinnovamento della Polizia di Stato dopo inenarrabili percorsi irti di sacrifici e di rischi per chi l’ha inventata e fatta progredire sino al percorso parlamentare sfociato, non dimentichiamolo mai, a grandissima maggioranza; un segnale di alta rilevanza istituzionale in un Paese di scarsa unione. Gli “eroi senza medaglia” del Movimento dei Carbonari (frase coniata dal tanto rimpianto Franco Fedeli) a trenta anni da quella fatidica data, faticano molto a osservare i miglioramenti segnati da quella legge e anzi, sono molto critici su quello che hanno sotto gli occhi, giorno dopo giorno. A parte questo governo “truffaldino” che dopo le promesse elettorali ha smentito le proprie parole, ma non era tanto difficile immaginarlo, evitando di posizionarsi fette di salame sugli occhi….è stata svilita proprio l’istanza principale della Riforma cioè la primarietà della democrazia interna ed esterna. Non sto a reiterare concetti negativi che si sono svolti sotto gli occhi anche dei sindacati che hanno fatto orecchie da mercante su quanto di negativo accadeva, ma mi soffermo su alcuni concetti basilari che sono stati calpestati e isolati in un profondo oblio.
Orbene, Fedeli sottolineava l’obbligo di saper gestire la Riforma e questa parola d’ordine doveva essere l’essenza stessa di una rinnovata funzione sociale. Inoltre, si doveva evitare la proliferazione di sindacatini che potevano minare le trattative e creare lotte tra le varie categorie come purtroppo è accaduto. La primarietà era quella di creare una figura di tutore dell’ordine con una dignità nuova per appunto consegnare nelle mani dei cittadini un nuovo prestigio colmo di cultura e trasparenza. Da una Polizia “scelbiana” a una Polizia nuova e veramente democratica questa era la primarietà da raggiungere. Creare un vero coordinamento tra i corpi di Polizia, creare nuove scuole con nuovi concetti democratici, raggiungere stipendi decorosi, addivenire a contratti non mortificanti e raggiungere corposi e dinamici intendimenti con i questori che divenivano o potevano divenire riferimenti operativi ottimali nelle province. Giungere a mezzi tecnologici avanzati, avere a disposizione nutrite economie atte a combattere la micro e macro criminalità con mirate strategie di distribuzione sul territorio appunto di personale e di strutture operative degne di questo nome.
Sotto gli occhi di tutti si può notare lo sconquasso raggiunto con organici insufficienti, con automobili con migliaia di chilometri quasi inservibili, straordinari non pagati, benzina da pagare con le proprie tasche, elemosine varie per la ricerca di carta per fotocopie e molto altro ancora che non sto qui ad elencare per ragioni di spazio e di tolleranza del lettore.
Ma la questione di maggiore rilevanza era quella della democrazia soprattutto della dirigenza che doveva attivarsi allo scopo primario di formare le nuove leve ad una operatività specchiata e riflessa in norme democratiche basilari appunto per giungere allo scopo definitivo: cultura, una nuova cultura dell’essere e dell’agire. Nuove scuole, nuove menti, nuovi comportamenti da permeare con nuovi istruttori e nuovi maestri.
Niente di tutto questo è accaduto e sin dal 1981, caso delle torture inflitte al brigatista rosso Di Lenardo, dopo la scoperta del covo dove era stato rinchiuso il generale americano Dozier e gli arresti conseguenti di brigatisti sequestratori; una pagina dolorosissima si raggiunse che fece deflagrare il sindacato soprattutto presente per non perdere tessere. Il Capitano Ambrosini, il mio Segretario Generale personale, per fare trionfare la Riforma, venne fatto franare in una emarginazione totale con una scarsa difesa delle sue denunce sulle torture fatte venire alla luce con la Guardia Trifirò. Affermo questo soprattutto perché le rivelazioni fatte da Ambrosini e da Trifirò erano veritiere e incontrovertibili in quanto io sono uno dei testimoni oculari di quelle torture confermate poi nel processo fatto a Padova, vergognose anche se, ancora oggi, non so con che dignità, vengano negate dal Ministro dell’Interno dell’epoca Rognoni.
I fatti del G8 genovese e prima quelli di Napoli ancor più affondano quegli ideali per cui avevamo combattuto appunto da carbonari del Movimento sfociato poi in Sindacato. Il bisturi affondato al reparto mobile di Bolzaneto e alla scuola Diaz resterà indelebile nei ricordi e nulla dovrà essere scordato.
Dal libro di Marco Imarisio, giornalista del Corriere della Sera “La ferita” (2011):
“In quei giorni furono visti e sentiti comportamenti non degni di una nuova Polizia. Oltre che a suonerie con faccetta nera, furono pronunciate nelle azioni violente poste in essere dai poliziotti i seguenti termini: Duce 48 volte, Mussolini 8 volte, Pinochet 28 volte, Hitler 9 volte, Francisco Franco 1 volta.
Reparto Mobile di Bolzaneto: è tortura deridere una ragazza che chiede un assorbente, lasciarla con le mutande sporche di sangue e poi tirarle addosso un foglio di giornale appallottolato, preso da un cestino. Costringere una donna avanti negli anni a togliersi la maglietta restando a seno nudo, per pulirsi il sangue che le cola dalle gambe. Prendere una ragazza, accompagnarla in bagno, aspettare che si chini sulla turca e poi tirarle i capelli, gettarla a terra e pestarla.
Insultare con “troia, puttana,…entro stasera vi scoperemo tutte…avrebbero dovuto stuprarvi come in Kosovo….a una manifestante che chiede di parlare con un avvocato le viene puntata alla gola una forbice e le vengono tagliate delle ciocche dei capelli.”
Analoga situazione di democrazia calpestata e vilipesa accade alla scuola Diaz dove avviene l’inverosimile: sulla scorta di una pretesa e mai accertata azione violenta degli occupanti della scuola (basta guardare il filmato dell’irruzione per acclarare la falsità evidenziata dai dirigenti presenti) viene fatta irruzione con una violenza esasperata e inutile, in quanto i manifestanti stavano riposando. La scuola viene “innaffiata” dal sangue di ragazzi e ragazze poi portate all’ospedale o dichiarate in stato di arresto.
Non occorre soffermarsi su quanto accaduto all’interno, come detto, basta guardare il filmato dei fatti in narrativa per accorgersi di quanto grave sia stata l’azione della Polizia.
Penso che questo sia il punto terminale del mio ragionamento. La polizia ha posto in essere un pestaggio inutile e fine a se stesso ma la autodifesa è stata ancora più grave. Se il portavoce del Capo della Polizia Roberto Sgalla, dopo il massacro, dichiarava davanti alle barelle che mano a mano uscivano dalla Diaz che si trattava di “ferite pregresse”, penso che si sia giunti alla fine della corsa della Riforma in quanto Sgalla non è un funzionario qualunque ma l’ex Segretario Generale del Siulp, il più rappresentativo sindacato della Polizia di Stato. Non occorre aggiungere altro se non che l’azione processuale ha condannato i funzionari che hanno diretto i fatti emersi ma nel contempo sono stati tutti promossi ad altissimi incarichi.
Ai vari Gratteri, Luperi, Caldarozzi, si è aggiunta, e non poteva certamente mancare, la promozione a Questore di Spartaco Mottola condannato in secondo grado a tre anni e otto mesi per i falsi dei verbali di arresto della scuola Diaz e a un anno e due mesi per l’induzione alla falsa testimonianza dell’allora Questore di Genova Colucci.
Il Capo della Polizia Manganelli, ricordo molto bene, al momento del suo alto incarico aveva specificato che la trasparenza sarebbe stata la sua azione primaria. Benissimo, con questa strategia operativa che salvaguardia questi “intoccabili del G8” ha definitivamente affossato le sue parole.
Ecco, a fine di questo percorso, dopo trenta anni dall’avvenuta Riforma, occorrerebbe fare un punto sulla questione sul tappeto e sulla gravità raggiunta che ha rotto equilibri e ideali costruiti con tanti sacrifici.
Con il presente scritto suggerisco una cosa molto semplice: perché non riunire i vecchi carbonari del Movimento, Segretari provinciali del passato, unitamente ai rappresentanti sindacali di oggi, per confrontare vecchie e nuove azioni di ragionamento sul tema eventualmente facendo un numero speciale della nostra rivista?
Penso che Franco Fedeli sarebbe certamente d’accordo con questa mia modesta ma costruttiva richiesta.

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