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Maggio-Giugno/2011 - Interviste
Intervista
La lotta alle mafie passa per la lotta alla corruzione
di a cura di Lorenzo Baldarelli

Intervista a Claudio Giardullo, segretario nazionale del Silp-Cgil: il ritardo del Governo nell’affrontare la piaga della corruzione, utilizzata da parte delle organizzazioni mafiose per penetrare nelle regioni del Nord. Strategie e soluzioni per migliorare i diritti degli operatori della sicurezza, rafforzando concretamente le possibilità di accesso delle donne in Polizia e, nel caso ‘dell’emergenza immigrazione’, salvaguardando le fondamentali necessità personali degli agenti


Dopo il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, il tema della corruzione nell’opinione pubblica e nei grandi media sembra essere passato in secondo piano. Dopo quasi tre anni dall’abolizione del Commissario Anticorruzione, secondo lei la situazione in Italia è migliorata?
«La corruzione nel nostro Paese, come dicono ormai alcuni dei soggetti pubblici più autorevoli, da una parte il Governatore della Banca d’Italia e dall’altra la Corte dei Conti, è ormai un fenomeno sistemico che riguarda non solo la politica ma anche la Pubblica Amministrazione, a qualunque livello, anche quella locale. Ormai anche le imprese, un tempo lontane da quel mondo, oggi appaiono pesantemente invischiate. A giudizio di questi due organi la corruzione è un pesante freno allo sviluppo del Paese. Se l’Italia vuole mettere in campo strumenti e strategie idonei a elevare il livello di legalità, il tema della corruzione diventa un crocevia obbligato.
Peccato che l’atteggiamento di questo governo rispetto a questo tema è decisamente insufficiente. Due episodi, due fatti concreti, lo dicono con molta chiarezza. Il primo episodio in ordine di tempo è aver abolito con la manovra finanziaria del 2008, uno dei primi atti istituzionali e politici di una certa rilevanza della legislatura in corso, la figura del Commissario straordinario Anticorruzione e aver trasferito le sue funzioni al ministro della Funzione Pubblica. Che tradotto significa abolire un organo terzo che vigilava su un tema di grande delicatezza e purtroppo di grande incidenza per la nazione, trasferendo le funzioni ad un organo che terzo non è. Il ministro della Funzione Pubblica, responsabile complessivamente dell’andamento della pubblica amministrazione, diventa il controllore e il controllato.
La strada da percorrere, secondo noi, sarebbe stata diversa: aumentare i poteri del Commissario straordinario, ampliando i controlli, permettendogli di eseguire indagini allo scopo di reprimere il fenomeno.
Trasferire le funzioni di controllo all’organo controllato, invece, la dice lunga sul fatto che la lotta alla corruzione non sia di certo una priorità di questo Governo.
In altri paesi, con una più lunga e gloriosa tradizione di attività di controllo dell’operato dei pubblici dipendenti e di verifica della loro fedeltà allo Stato e alle istituzioni, gli organi di controllo che possono promuovere procedure d’inchiesta sono realmente terzi. Non dipendendo da organismi pubblici e non possono nemmeno essere influenzati da essi.
Devo aggiungere poi, che la manovra del 2008, come quella del 2010, non ha oltretutto previsto un incremento di fondi per la lotta alle illegalità, poiché sono stati tagliati i fondi per la sicurezza e la gestione degli uffici giudiziari. Oggettivamente si è ridotto il potenziale del sistema di sicurezza e giustizia utile per garantire un alto livello di legalità in Italia».

E la situazione attuale? In Parlamento dovrebbe essere in corso di discussione una legge contro la corruzione
«Sì, la seconda questione è appunto legata al disegno di legge che è stato presentato in questa legislatura e che è ancora incagliato su gli scogli dell’attività ordinaria dei nostri due rami del Parlamento. La ‘maggioranza’ non da alcun segnale di volerlo mettere su uno dei tanti canali preferenziali con i quali sono stati approvate alcune norme. Per fare un esempio lo scorso anno il Governo aveva messo la legge per ridurre e regolare le intercettazioni, un’importante strumento di lotta anche contro i reati dei ‘colletti bianchi’, in uno di quei famosi ‘canali rapidi’, mentre il disegno di legge sulla corruzione rimaneva su un binario morto.
Sul merito del disegno di legge, invece, la questione è aperta: il testo può sicuramente essere perfezionato, il vero problema rimane però la volontà della ‘maggioranza’ politica».

Eppure questo è un governo che si vanta spesso «di fare», soprattutto sul tema della lotta alle mafie. Ci può spiegare il collegamento tra organizzazioni criminali e corruzione?
«La questione della corruzione ci porta immediatamente a parlare dell’azione anti mafia. La corruzione è uno dei canali storici e più rilevanti dell’attività mafiosa. È uno strumento di controllo economico; la capacità di corrompere funzionari pubblici permette alle organizzazioni criminali di poter controllare una buona parte delle attività economiche di questo Paese. Basti pensare agli appalti. La lotta alla corruzione è lotta alla mafia, i due reati sono sono strettamente connessi, anche dal punto di vista psicologico. Anche gli ultimissimi episodi giudiziari, le inchieste delle procure del Nord che hanno messo in evidenza attività di corruttela da parte delle organizzazioni mafiose, hanno confermato la tendenza delle organizzazioni criminali ad espandersi in nuovi mercati. La corruzione è la loro arma migliore per rafforzare il controllo su un nuovo territorio. Semplificando molto è proprio il controllo del territorio a distinguere un’associazione mafiosa da una semplice associazione criminale organizzata. Infatti è proprio nelle regioni in cui si è registrata da parte degli uffici di polizia e degli organi giudiziari una certa presenza mafiosa, penso alla Liguria e alla Lombardia, che si è notato un allarmante e pericoloso tentativo di ‘salto di qualità’ delle organizzazioni criminali mafiose. È proprio attraverso l’attività di corruzione degli enti locali e nei confronti di settori dello Stato, come la Sanità, che si riesce ad avere grandi possibilità di guadagno e di controllo capillare del territorio».

Nelle Regioni citate, il Silp ha messo in campo iniziative per contrastare le infiltrazioni mafiose?
«Il nostro sindacato sta sviluppando la sua iniziativa su un duplice binario parallelo. Da una parte la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, dall’altra, evitando facili e dannosi allarmismi, la creazione di una rete di cittadini e istituzioni che possa concretamente fermare le infiltrazioni mafiose.
La questione è che non è facile, nelle Regioni che non hanno una tradizionale presenza mafiosa, far passare alcuni concetti sia alla cittadinanza che agli organi burocratici. Si ha in genere una certa diffidenza nell’ammettere che in casa propria si è sviluppato un fenomeno del quale non si è avuto consapevolezza. C’è una certo grado di rifiuto psicologico. Evitare il crearsi di un dannoso e controproducente allarmismo, poi, permette al Silp di spiegare che ormai in Italia non ci sono più isole felici dal punto di vista dell’infiltrazione mafiosa, che orma segue solo il flusso di denaro. Dove ci sono investimenti finanziari ci sono tentativi di corruzione e controllo del mercato con metodi criminali. Con la crisi economica e finanziaria, poi, questo meccanismo si è andato espandendo. La maggiore fragilità delle nostre imprese, la scarsa presenza di capitali e la diffidenza delle banche nel concedere prestiti hanno permesso alle organizzazioni mafiose, che notoriamente hanno a disposizione immani risorse finanziarie, di potersi facilmente infiltrare nel tessuto economico del Nord d’Italia.
È importante avere la cifra giusta nel comunicare e nel sensibilizzare; noi in fondo siamo un sindacato di polizia con un alto livello di legittimazione e di ascolto da parte dei cittadini. Per noi è fondamentale però che non passi l’idea che ormai tutto sia perduto, perché questo lascerebbe ancora più spazi alle organizzazioni criminali. Solo se si ha la consapevolezza che il rischio è alto ma che comunque si può fare molto per evitare problemi, il cittadino collaborerà affinché le istituzioni si possano attrezzare di strumenti idonei ed efficaci. Siamo ancora nei tempi, ma occorre farlo prima che le organizzazioni mafiose passino dai soli tentativi al vero e proprio controllo del territorio. Dobbiamo prendere spunto dal passato ed evitare che quello che è accaduto alle regioni del Sud, dove ormai i livelli di racket sfiorano percentuali altissime, possa accadere nel centro e nel nord del Paese».

Si è parlato di pesanti tagli economici nel settore della sicurezza e della legalità. Nell’ultima ‘emergenza’ legata all’arrivo di migliaia di migranti, quanto hanno pesato le scelte economiche del Governo?
«Rispetto alle precedenti ‘emergenze’ c’è un generale peggioramento dovuto ai tagli economici subiti dalle Forze dell’Ordine. Il che comporta una riduzione delle possibilità di rispondere tempestivamente ed efficacemente alle emergenze, nonostante il massimo impegno degli operatori. C’è poi un peggioramento delle condizioni quotidiane di lavoro, che risulta più evidente quando si devono affrontare delle criticità. Per fare un esempio, gli operatori di Polizia, in questa ultima ondata migratoria legata alle rivoluzioni in Nord Africa, hanno dovuto lavorare in turni continuativi sulle navi che trasportavano i migranti da Lampedusa ai centri d’accoglienza sparsi per l’Italia. Hanno lavorato anche per quattro, cinque giorni di seguito senza cambio. La mancanza di personale e di mezzi di trasporto, per insufficienza di fondi, e di una rete logistica che consentisse di far fronte alle normali esigenze materiali delle persone, hanno reso estenuante il lavoro degli agenti. Abbiamo registrato casi in cui alcuni operatori hanno potuto mangiare solo dopo la fine del servizio, oppure non hanno potuto dormire e riposare in modo dignitoso e hanno dovuto subire condizioni igienico sanitarie inaccettabili.
Come consolazione rimane solo il giudizio unanime di tutte le istituzioni. Gli operatori di Polizia hanno dimostrato grande umanità e dedizione. Purtroppo la considerazione e l’apprezzamento è solo a parole, formale.
Da parte nostra, ci siamo mobilitati immediatamente per costringere il Governo e il Ministero degli Interni ad affrontare le problematiche dei lavoratori, dei migranti e dei cittadini di Lampedusa, costretti ad accettare senza potersi ribellare condizioni di vita estremamente disagiate. Ci siamo soprattutto battuti affinché il Governo si rendesse conto che quella non sarebbe stata un’emergenza di brevissima durata. Infatti il miglioramento delle condizioni meteorologiche non ha fatto altro che aumentare l’arrivo dei ‘barconi’ carichi di disperati.
Le cose sono migliorate solo quando la ‘maggioranza’ ha smesso di assumere posizioni demagogiche. “Rispedire” gli immigrati nei loro paesi di origine non solo è inaccettabile dal punto di vista della civiltà del nostro paese, ma è anche impraticabile. Il diritto internazionale infatti lo vieta. Si possono riportare i migranti nel loro paese d’origine solo con la collaborazione e l’accettazione dei paesi da cui provengono e con l’identificazione personale.
Quando si è capito che l’unico strumento era quello del permesso umanitario ovviamente le cose sono migliorate. Noi, comunque, continuiamo a chiedere a questo Governo di investire sul versante della sicurezza e della legalità, e di non scaricare l’emergenza sulle risorse ordinarie. Anche perché ormai il circuito ordinario delle attività di prevenzione e repressione delle forze di polizia è sottoposto a sollecitazioni sempre maggiori, soprattutto dopo i tagli subiti dalle precedenti finanziarie. Il rischio è quello di non riuscire più a far fronte nemmeno alle esigenze ordinarie».

Trent’anni dopo l’approvazione della storica riforma della Polizia quali considerazioni si possono fare sul tema dell’accesso al Corpo, soprattutto da parte delle donne?
«Siamo di fronte ad un processo con luci ed ombre. Negli ultimi trent’anni nel nostro Paese è sicuramente aumentata la presenza femminile nella Polizia. Grazie alla riforma, la legge 121 del 1981, si è notevolmente ampliata la consapevolezza della ricchezza apportata dalle donne nell’ambito della sicurezza. Nella Polizia, però, dopo l’accelerazione iniziale, nella metà degli anni Novanta, si è verificata una pesante battuta d’arresto. L’introduzione della norma che prevede l’ingresso facilitato nei corpi di polizia dei volontari in ferma breve (Vfb) dell’esercito, ovviamente ha ridotto enormemente il numero delle donne che hanno fatto e che faranno richiesta per entrare nella Polizia di Stato. Anche perché contemporaneamente è stato di fatto sospeso l’utilizzo dello strumento del Concorso pubblico, quindi l’unico modo, anche per le donne, oltre che per gli uomini, per accedere in Polizia è il passaggio attraverso i ruoli dei volontari in ferma breve della Difesa.
Bisogna ammettere che anche in ambito militare la presenza femminile è nettamente in aumento, ma è ancora un numero lontanissimo dai livelli raggiunti tra la metà e la fine degli anni ottanta, quando grazie alla riforma della Polizia vi era stato un accesso di massa dovuto anche ad un maggiore interesse da parte dei giovani in generale. Questo costituisce, secondo me, l’elemento di maggior freno rispetto ad un corretto sviluppo di partecipazione delle donne alla vita delle istituzioni legate alla sicurezza, e anche rispetto alla possibilità di garantire pari opportunità. Non è solo una questioni di numeri, ma il numero fa la differenza. Alte percentuali di donne in Polizia significa anche una maggiore possibilità di avere pari opportunità. Bassi numeri relegano inevitabilmente le donne in una situazione di svantaggio.
Nonostante l’entrata in massa delle donne e il costante apprezzamento del loro lavoro non sono certo finite le resistenze da parte di tutti gli uomini appartenenti a tutte le forze a tutti i livelli rispetto alla garanzia delle pari opportunità. Di qui l’esigenza del nostro sindacato e della Cgil di mettere in campo azioni positive: si deve innanzitutto controllare la gestione del personale, rispettando i diritti di tutti e in particolare delle donne. Poi è necessario assicurare che le donne abbiano una piena vita lavorativa e familiare, lasciando loro i giusti spazi e le giuste opportunità per fare carriera.
Tutto ciò si deve tradurre in azioni concrete del sindacato, con lo scopo di disegnare strutture organizzative e strumenti normativi che possano garantire nei fatti l’esercizio di questi diritti, senza che ci si accontenti di formule di principio. Questa lotta, e con questo concludo, si inserisce in un filone di estrema importanza; oggi corriamo il rischio di una compressione generale dei diritti. In ambito economico, per affrontare la crisi, si pensa a ridurre i diritti per ridurre i costi; in chiave politica si teorizza un modello di società in cui i diritti dei lavoratori sono minimi, così che si possano raggiungere più elevati livelli di crescita.
La Cgil e noi del Silp seguiamo la linea della Costituzione, che al secondo comma dell’articolo tre, quello che riguarda l’uguaglianza sostanziale, considera il riconoscimento dei diritti una condizione per lo sviluppo del Paese, senza nessun tipo di incertezza».


FOTO: Claudio Giardullo, Segretario nazionale del Silp-Cgil, durante
la manifestazione ad Arcore.

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