Di corruzione si può anche morire, come nel caso dei tre operai morti in una cisterna a Capua, nel Casertano, l’11 settembre scorso: gli ispettori della Asl, in cambio di denaro, avrebbero solo fatto finta di fare i dovuti controlli.
Il fenomeno della corruzione oltre ad indebolire l’economia incide anche sulla qualità della vita dei cittadini
Il cibo avariato nelle mense di Milano, alla metà degli anni ’90, fu la conseguenza di una serie di atti legati alla corruzione: dietro alla cattiva qualità di frutta e verdura c’erano infatti fornitori che pagavano mazzette a funzionari comunali e dirigenti ospedalieri per avere quei grossi appalti. Gli esiti eclatanti non bastano però a dare la misura di quanti funzionari o ufficiali pubblici in Italia assolvano al proprio dovere, o lo devino a fini personali, solo con extra o favori. A questo proposito sono più utili i dati, secondo un approccio macroscopico. A darli è Trasparency, agenzia statistica riconosciuta a livello internazionale che stila ogni anno una classifica mondiale sulla corruzione ordinando i Paesi in ordine decrescente, a partire dai migliori. Scorrendo i rapporti degli ultimi cinque anni ci si accorge dal 2005 al 2007 l’Italia oscilla tra il quarantesimo, quarantacinquesimo e di nuovo quarantunesimo posto. Ma negli ultimi tre anni si assiste al tracollo: nel 2008 è alla posizione numero 55, nel 2009 alla numero 63 e nel 2010 scende al sessantasettesimo posto, peggio del Ruanda e di Capo Verde. Per i Paesi europei invece, se i primi posti sono occupati da Danimarca e Finlandia, dietro all’Italia ci sono solo Romania, Bulgaria e Grecia. Trasparency si basa per le sue misurazioni sull’indice di percezione della corruzione, un valore ricavato dai pareri di prestigiose istituzioni ed esperti nel mondo degli affari. Un metodo che per questa “soggettività” è stato bocciato dall’ultimo dossier presentato dal Servizio anticorruzione e trasparenza del dipartimento della Funzione pubblica del Governo, ma che ha una sua logica. Il reato di corruzione per la sua natura seriale si fonda su relazioni estese che tendono alla conservazione, anche da un punto di vista sociale. Per questo molto spesso non viene segnalato alle autorità. E poi in un reato come la corruzione, dove il limite tra costrizione e complicità è tanto labile, anche la vittima esita a denunciare per non rischiare a sua volta. Altre indagini statistiche supportano inoltre la tendenza delineata da Trasparency, almeno per l’Europa. Da un sondaggio dell’Eurobarometro del 2009 risulta infatti che i cittadini italiani che nel 2008 si sono sentiti chiedere o offrire una tangente sono stati il 17%, contro una media europea del 9%.
L’allarme della Corte dei Conti
Anche i numeri oggettivi dell’attività di polizia non sono comunque confortanti: allarmati i toni con cui il procuratore generale della Corte dei Conti Mario Ristuccia ha aperto l’anno giudiziario lo scorso febbraio. «Nel corso del 2010 – si legge nella relazione dell’Alta Corte - in termini complessivi dall’Arma dei Carabinieri, dal Corpo della Guardia di Finanza e dal Corpo forestale dello Stato sono stati denunciati 237 casi di corruzione, 137 di concussione e 1090 di abuso d’ufficio, che rispetto a quelli denunciati nel 2009 indicano un incremento del 30,22% dei reati corruttivi, mentre si riscontra un decremento rispettivamente del 14,91% e del 4,89% per i reati concessivi e di abuso d’ufficio. Le stesse forze di polizia hanno denunciato complessivamente 708 persone per corruzione, 183 per concussione e 2290 per abuso d’ufficio, rappresentando un decremento percentuale dei soggetti denunciati rispetto al 2009 pari all’1,39%; al 18,67; e al 19,99%. Quanto alle citazioni in giudizio, nello stesso arco di tempo le Procure Regionali della Corte dei Conti ne hanno depositate 227 riguardanti danni da reato così specificate: 40 da corruzione e concussione; 50 da peculato ed appropriazione indebita; 17 da abuso d’ufficio; 95 da truffa e falso e 25 da altri reati. Per complessivi importi di 225.901.064 euro per danni patrimoniali e di 4.809.829,57 euro per danni all’immagine». La corruzione e la frode sono i fenomeni dunque più frequenti e la sanità rimane da anni il settore più scoperto. Ristuccia ha ricordato che nel 2010 le procure regionali della Corte dei conti hanno condannato 91 soggetti pubblici contestando 32 milioni di euro di danni patrimoniali e 4,7 milioni di danni all’immagine. Per un danno che complessivamente, tra rinvii a giudizio e condanne, si attesta intorno ai 265 milioni di euro.
Le ferite della democrazia
La ‘tassa occulta’ della corruzione che ogni anno pesa in media su ciascun cittadino italiano oscilla dagli 850 ai 1000 euro pro capite, neonati inclusi. A calcolare il peso delle tangenti sui conti nazionali intorno ai 50-60 miliardi l’anno è stata per la prima volta Trasparency International Italia, con una stima poi confermata ne 2009 nel rapporto presentato al Senato dal Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet) legato allora alla Presidenza del consiglio e dalla relazione della Corte dei Conti in apertura dell’anno giudiziario del 2010. Seppur impressionante questo è solo il costo immediato delle mazzette: la rendita dei corrotti e i costi di indennizzo. Non meno gravi e spesso inquantificabili sono i prezzi indiretti che la società civile deve pagare anche per una sola falla nella gestione della cosa pubblica. Si pensi all’eventuale ritardo di lavori pubblici e al lievitare dei costi con l’allungarsi dei tempi. La corruzione è infatti nemica della libera concorrenza e per lo stesso motivo si va incontro all’assenza di merito e quindi a servizi o strutture malfatte. Per non parlare degli occhi chiusi in cambio di mazzette sui controlli. Una tendenza dal tragico epilogo quando si scontra con la sicurezza delle persone, lavoratori o utenti. Le conseguenze di questa “patologia” del sistema italiano, come l’ha chiamata il procuratore Ristuccia, si leggono anche negli indici di rating finanziari. «Le società di rating internazionale – ha infatti dichiarato a la presidente di Trasparency International Italia, Maria Teresa Bressolo – valutano il rischio-Paese e quindi il costo del debito anche con il grado di percezione della corruzione. Ne viene penalizzato l’onere del nostro debito del 105% del Pil». Un peso che si traduce nella riduzione degli investitori esteri. Sono parole del 2008, ma che pesano ancora come macigni a giudicare dal corso apparentemente inarrestabile del fenomeno. C’è infine un ulteriore conto da pagare e a farlo è direttamente la democrazia. La corruzione mina infatti la credibilità dello Stato prima che all’estero agli occhi dei suoi cittadini. La scoramento che si diffonde di fronte a un appalto mancato perché qualcuno, sottobanco, ha pagato di più o davanti ad un concorso per l’assunzione ‘deciso a tavolino’, porta a non fidarsi più della macchina statale e dei soggetti che dovrebbero vigilare. È la sfiducia nei regolari meccanismi della democrazia: quando non si rinuncia in partenza a competere, si finisce per cedere al reato come unica via di accesso ai benefici pubblici. Prospettiva di deriva forse, ma non troppo se si pensa ai traffici delle ‘cricche’ scoperte nel 2010, che facevano affari ai danni dello Stato. La magistratura sta facendo il suo corso, ma l’opinione pubblica ne ha già fatto un ritornello dell’italianità. L’escamotage nostrano serve ad assimilare l’indignazione che si mescola alla sensazione diffusa che non si tratti di casi isolati. La spudoratezza con cui personaggi inquisiti nell’inchiesta di Firenze sugli appalti del G8 parlavano al telefono dei loro misfatti e la risata dell’imprenditore Pierfrancesco Piscicelli all’indomani del terremoto dell’Aquila, per il denaro che sarebbe affluito nelle sue tasche con la ricostruzione, sono fatti sintomatici. Rappresentano il senso di impunità che si lega all’alta percezione della corruzione indicata da Trasparency.
L’assuefazione al crimine
«Assuefazione» al fenomeno. Così l’ha definita il procuratore generale della Corte dei conti Ristuccia, puntando il dito sulla diminuzione complessiva delle denunce di reati corruttivi da parte dei cittadini, attestabile intorno al 20%. «Una rimarchevole diminuzione delle denunce complessive – ha detto Ristuccia - che potrebbe dare conto di una certa assuefazione al fenomeno» del malaffare, con la deriva verso una «vera e propria cultura della corruzione». In effetti al crescere della corruzione percepita sono diminuiti i processi. «Dal picco di metà degli anni ’90, quando ci sono stati quasi 2.000 crimini e oltre 3.000 persone denunciate, il calo è costante, fino alle sole 220 denunce alle forze di polizia del 2009. Ancor più drastica la riduzione delle condanne per reati di corruzione. Da un massimo di oltre 1700 condanne per reati di corruzione nel 1996 si giunge alle appena 239 del 2006. In alcune regioni la discontinuità diventa tracollo: da 138 condanne nel 1996 a 5 nel 2006 in Sicilia; da 545 a 43 in Lombardia; da 19 a nessuna in Calabria». La segnalazione del paradosso e la ricerca statistica, che riprende i dati della Corte dei Conti, è di Narcomafie (dall’articolo di Elena Ciccarello: ‘Corruzione, diamo i numeri...’ del novembre 2010). È la descrizione di una parabola discendente che fa venire alla mente quello che scriveva nel dicembre del 2007 Achille Serra, nella funzione di Alto commissario anticorruzione. Secondo Serra in Italia il sistema della corruzione è uscito «danneggiato ma non scardinato dalle inchieste giudiziarie degli anni Novanta. Secondo alcuni, dopo il primo momento, il sistema ha avuto la forza di reagire e di riorganizzarsi secondo tecniche e modelli più sofisticati e difficili da scoprire. Chiusa la stagione di Mani Pulite non si è proceduto alle necessarie riforme strutturali che agendo sulla prevenzione avrebbero potuto arginare il fenomeno, intervenendo sulle opportunità di corruzione».
Il servizio anticorruzione del Governo
Più ottimistica la fotografia scattata sull’Italia dal Saet. Chiusa l’istituzione guidata da Achille Serra nel 2008, la legge numero 116 del 3 agosto del 2009, di ratifica ed esecuzione della convenzione ONU contro la corruzione, designa il dipartimento della funzione pubblica come autorità nazionale anti-corruzione. È il Saet, il servizio anticorruzione e trasparenza, che nello specifico si occupa di ricevere segnalazioni dai cittadini ed enti e di mappare il fenomeno. Insolita scelta da parte del Governo visto che a diventare controllore è proprio quella pubblica amministrazione in cui si annida la corruzione da combattere (oltretutto con un budget che nella legge istitutiva ammontava complessivamente a 29 mila euro). Ma il Saet cerca di mettersi al riparo da questa e altre obiezioni fin dall’introduzione della relazione annuale 2010, presentata il mese scorso in Parlamento. Si spiega infatti che anche in altri Paesi l’attività di contrasto alla corruzione si colloca all’interno dell’esecutivo. Salvo vedere che in nessuno dei casi citati (dalla Germania, alla Spagna agli Usa) si inserisce nella Pubblica amministrazione. In gran parte del rapporto si mira a ridimensionare l’impatto dei reati corruttivi in Italia, per rimediare a quel danno d’immagine che, secondo il Saet, trova origine nell’insistenza e incompetenza della stampa su certi temi. Si introduce a proposito una riflessione metodologica tesa a dimostrare come la corruzione sia difficilmente quantificabile e che perciò ogni numero dato è a rischio mistificazione. Tra l’altro si smentisce il metodo dell’Icp, indice della corruzione percepita, che secondo il Saet è gonfiato dai lanci delle agenzia di stampa. Il rapporto firmato dal ministero della Funzione pubblica dichiara invece che le denunce per reati ai danni della pubblica amministrazione sono stabili dai 2004, attorno a quota 3000 circa. E che a prevalere non è la corruzione ma l’indebita percezione ai danni dello stato e la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche. Indicazione che secondo il Saet fa capire come il «saccheggio» dello Stato avviene perché la pubblica amministrazione non è dotata di strumenti adatti a tutelarsi dai ladri, non per l’infedeltà dei funzionari. È vero che quei reati possono essere perpetrati anche da un privato, ma la relazione non dice che difficilmente si mettono in atto se non c’è un dipendente o dirigente pubblico consenziente. Dal rapporto del Saet è arduo tirar fuori un’immagine originale del fenomeno della corruzione in Italia. Oltre alla segnalazione di un progetto apprezzato a livello europeo che il servizio anticorruzione sta svolgendo con Trasparency (la stessa agenzia che in più passi del rapporto viene data per inattendibile), è utile la serie di sollecitazioni che il servizio rivolge all’Esecutivo. Tra queste si ricorda l’annoso problema della mancata ratifica dei trattati europei contro la corruzione e lo stallo nell’iter legislativo del disegno di legge del Governo su ‘Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione’. Presentato da Alfano al Senato il 4 maggio del 2010, il DDL non è infatti mai andato oltre l’esame in commissione. Ad oggi infatti lo Stato italiano non può contare su una normativa organica di contrasto alle modalità sempre nuove con cui si attenta alla trasparenza della pubblica amministrazione.
L’azione del Governo
A giudicare dall’orientamento politico del premier Silvio Berlusconi il contrasto alla corruzione non sembra una sua priorità. Nel 2005 varò insieme a Cirielli l’accorciamento della prescrizione per corruzione da 10 a 6 anni e oggi fa rientrare il reato entro la cerchia di quelli soggetti a ‘prescrizione breve’ per gli imputati incensurati, cioè il 55% dei soggetti che arrivano a giudizio. Ad ogni modo, nel marzo del 2010 era stato varato dal governo un piano di misure contro la corruzione. Ma all’atto pratico non si capisce quale possa essere la via di concretizzazione e l’unica cosa certa nell’ambito della trasparenza è il decreto legislativo, firmato dal ministro Brunetta e approvato nell’ottobre del 2009, per aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione con protocolli diretti a regolare il lavoro dei funzionari. Del resto l’alta percezione della corruzione, cresciuta proprio in questi ultimi anni, non ha lasciato indifferenti i parlamentari. Dal 2010 fino ad oggi sono infatti 18 le proposte di avanzamento normativo sulla corruzione depositate in Parlamento. E la calanderizzazione dei lavori del Senato dello scorso 17 maggio è stato boicottata da Pd, Idv e Udc, proprio perché per l’ennesima volta l’assemblea dei capigruppo non ha messo in agenda la discussione dei disegni di legge sul contrasto alla corruzione. Oltre a quella di iniziativa governativa giacciono infatti da tempo in commissione Giustizia una proposta dell’Idv e un’altra lanciata dal Fatto Quotidiano e portata in Senato da Idv, Pd e Fli. Sul tavolo, e tra le tante proposte legislative depositate, ci sono due aspetti dell’azione anticorruzione che in Italia rimangono inevasi: la ratifica degli accordi internazionali e l’aggiornamento del codice penale con i reati più sofisticati. Sul primo fronte, dopo l’ormai decennale aggiornamento del codice penale con l’adesione effettiva nel 2001 alla Convenzione dell’OCSE e la ratifica nel 2009 della convenzione ONU contro la corruzione, c’è stata una battuta d’arresto. Rimangono inattive la Convenzione civile contro la corruzione del Consiglio d’Europa e la Convenzione penale contro la corruzione del medesimo organismo comunitario. Entrambe firmate dall’Italia nel ’99 sono in vigore rispettivamente dal 2003 e dal 2002. La prima ha dato inoltre origine a un gruppo di lavoro chiamato Greco da cui l’Italia stessa è stata valutata senza poter influire direttamente. L’importanza di tali ratifiche sta tuttavia nell’opportunità di adeguamento del codice penale italiano con gli standard europei, permettendo così a cittadini e imprenditori italiani di confrontarsi in un panorama legislativo omogeneo con i concorrenti europei. Questi accordi inoltre, come già per la convenzione ONU, prevedono anche la collaborazione internazionale per il controllo e la repressione dei sistemi corruttivi, alzando la guardia sul fenomeno. Con le sole ratifiche si provvederebbe infine implicitamente a quell’aggiornamento del codice penale da più parti richiesto.
Ipotesi di futuro
Molteplici le ipotesi di miglioramento della legislazione italiana. Salta all’occhio che allo stato attuale per i funzionari o pubblici ufficiali che si macchiano di reati come corruzione, concussione e abuso d’ufficio non sia prevista in Italia l’interdizione ai pubblici uffici. Aspetto inserito ad esempio dal DDL presentato dal Pd (Ferranti) e quello firmato dal Fatto Quotidiano, ma mancante nel disegno di legge del Governo. Alfano si limita infatti a prevedere per i responsabili l’ineleggibilità, peraltro variabili a seconda del reato. Un provvedimento che in realtà dovrebbe fare il paio con la punibilità di chi nelle assemblee elettive già siede, ma di fatto oggi così non avviene. In tutte le proposte di legge si prevede poi di aumentare le pene, seppur con più forza da parte dell’opposizione e di poco da parte di Alfano. Un’eccezione rispetto alla legislazione internazionale è la distinzione, nel codice penale italiano, tra corruzione e concussione. Come più volte dichiarato dal magistrato di Mani pulite Piercamillo Davigo, la concussione è un reato che viene spesso invocato da chi ha pagato per sfuggire alla legge, mentre cerca di evitarlo, invocando la corruzione impropria, chi ha indotto a pagare. Per spezzare le complicazioni che ne nascono senza aggiungere garanzie, nella legge del FQ si propone ad esempio di parlare solo di corruzione. Presente nella normativa comunitaria ma non ancora in Italia è anche la corruzione tra privati, la cui punibilità mira a migliorare la concorrenzialità internazionale e a garantire le transazioni internazionali (la prevede anche la Convenzione ONU). Altri paletti messi dalla Convenzione penale di Strasburgo sono il cosiddetto ‘traffico di influenze’ e il ‘riciclaggio dei proventi della corruzione’. Il primo consiste in scambi di favori o regali che non arrivano a configurarsi come mazzette ma condizionano comunque l’andamento democratico della gestione della cosa pubblica e con il secondo si intende l’autoricilaggio. Insomma si tratta di due delle più moderne modalità di reato dei ‘colletti bianchi’, di cui anche la cronaca del ‘Belpaese’ ha mostrato esempi. Dal Consiglio d’Europa arriva anche un’indicazione a perseguire con attenzione i reati contabili, spesso connessi con le frodi alla pubblica amministrazione. Una direzione che il Governo di centrodestra ha finora evitato, depenalizzando reati contabili e finanziari come il falso in bilancio. La via di Strasburgo non è del resto contemplata nemmeno dal DDL di Alfano, che però introduce azioni di prevenzione mirate a garantire la legalità degli appalti. Si tratta di una banca dati dei contratti pubblici e la possibilità di attingere ai subappalti presso una lista in prefettura di soggetti non a rischio di infiltrazioni mafiose. Quella appena letta è del resto solo una mediocre rassegna dei provvedimenti che i politici potrebbero ideare per attaccare il cancro della corruzione: di carne al fuoco ce n’è molta, se solo si decidessero a discuterne. Sarebbe bello a quel punto anche dare ascolto a un appello lanciato lo scorso dicembre dalle associazioni ‘Libera contro le mafie’ e ‘Avviso Pubblico’ e che ha già ottenuto più di 24 mila sostenitori. È la campagna «Corrotti, per il bene comune restituiscano ciò che hanno rubato», una raccolta di firme per attuare la confisca dei condannati per reati ai danni alla cosa pubblica. Così si potrebbero destinare all’uso pubblico beni e immobili usurpati; come si fa attualmente per i beni confiscati ai mafiosi. Per restituire ai cittadini, insieme a palazzi e campi, anche un po’ di democrazia.
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