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Maggio-Giugno/2011 - Articoli e Inchieste
Ripartire dalla legge
Riforma della Giustizia o riforma della Magistratura?
di Marta Gara

Una riforma che da alcuni esponenti del Governo è stata definita «epocale». Divisione delle carriere, creazione di due Csm e responsabilità civile dei
magistrati, polizia giudiziarie, ricorso in appello e inamovibilità dei magistrati.
Questi sono i punti toccati dalla riforma, vediamo come


“L’aspettavo da vent’anni”, così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha presentato la riforma della giustizia in Parlamento lo scorso aprile. L’esame in assemblea del disegno di legge è stato rimandato a quando il tornado elettorale delle amministrative sarà passato, per non mettere a rischio la maggioranza di governo. Si tratta infatti di una legge costituzionale finalizzata a modificare il titolo IV della seconda parte della Costituzione, intitolato “Magistratura” (diventerà “Giustizia”) e introducendo la separazione delle carriere per giudici e magistrati con due Csm. La riforma ha già sollevato parecchie polemiche da centrosinistra, Idv e finiani, che non vedono di buon occhio quello che sembra l’ennesimo intervento legislativo per risolvere i problemi giudiziari del premier. Ma andiamo con ordine.

Divisione delle carriere e creazione di due Csm, i ‘togati’ e i ‘laici’
La firma sul DDL approvato dal Consiglio dei ministri il 10 marzo è dello stesso ministro della giustizia Angelino Alfano, che dopo la presentazione ad aprile a Montecitorio e l’arrivo in commissione il 3 maggio, ha detto: «Il nostro testo non è blindato, ma ci sono punti per noi imprescindibili come la parità tra accusa e difesa davanti al giudice con un effettivo contraddittorio e la responsabilità civile dei magistrati».
Architrave della proposta di legge è la separazione delle carriera di magistrato tra il ruolo inquirente e quello giudicante, da cui discende anche l’istituzione di due distinti Consigli superiori della magistratura. Mentre oggi a un magistrato può capitare di lavorare negli anni sia come pubblico ministero che come giudice, secondo la norma varata dal Governo si dovrà decidere all’inizio della carriera quale strada percorrere. Del pubblico ministero la riforma dice che il suo «ufficio è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza», mentre il giudice sarà membro di un «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», come da aggiunta all’attuale articolo 101. Per quanto riguarda i due Csm saranno invece entrambe presieduti dal Presidente della Repubblica che come ora ne farà parte di diritto insieme al procuratore generale della Corte dei Conti. I consigli si divideranno poi in ‘togati’, rispettivamente giudici e p.m. eletti dai colleghi e ‘laici’, eletti dal Parlamento in seduta comune tra professori in materie giuridiche e avvocati con almeno 15 anni di esperienza. Se attualmente nell’unico Csm i togati prevalgono per due terzi dell’assemblea, poi saranno la metà. Sulle funzioni dei consigli superiori invece la riforma stabilisce che si occuperanno di assunzioni, trasferimenti, assegnazioni, promozioni e «non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione». Un chiarimento, questo, che non aggiunge ma specifica la sostanza dell’attuale articolo 105 della Costituzione. Dal medesimo articolo la riforma espunta invece la competenza del Csm sui provvedimenti disciplinari. Secondo il governo infatti i magistrati saranno giudicati da un’apposita corte, un organo separato e diviso in due sezioni. Mentre i componenti per entrambe le categorie saranno nominati con gli stessi criteri dei membri dei Csm, metà togati, metà eletti dal Parlamento.

Responsabilità civile dei magistrati, polizia giudiziaria e il ricorso all’appello
Altro aspetto della professione dei magistrati che sta a cuore al Governo e che è inserito nella riforma è la loro “responsabilità civile”. Mentre oggi il cittadino che si è sentito trattato ingiustamente può far causa allo Stato ma non alla singola persona da cui è stato accusato o condannato, nella riforma è previsto che “i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato”. Secondo il Governo, inoltre, l’azione dei magistrati dovrebbe essere più vincolata in tre ambiti: l’obbligo dell’azione penale, il ricorso in appello e il rapporto con le forze di polizia giudiziaria. Stando alla riforma, infatti, l’azione penale, che rimane obbligatoria come da articolo 112 della Costituzione, dovrà però essere regolata da una legge apposita. Una norma cioè che stabilisca dei criteri di priorità per l’avviamento delle indagini. Lo stesso vale per l’uso della polizia giudiziaria: ora la magistratura ne dispone “direttamente” (articolo 109), ma se la riforma dovesse passare dovrebbe attenersi alle «modalità stabilite dalla legge». Il DDL introduce infine l’impossibilità per il p.m. di ricorrere in appello di fronte a una sentenza di proscioglimento, tranne “i casi previsti dalla legge”. L’assoluzione diventerebbe così sentenza definitiva fin dal primo grado di giudizio. E alcune eccezioni alla libertà di appello vengono posti infine anche rispetto a una condanna: «In relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione». Anche in questo caso si rimanda perciò a una legge ordinaria per ulteriori chiarificazioni e limitazioni.

“Inamovibilità dei magistrati”
Ultimo ‘baluardo’ modificato dalla riforma sarebbe infine “l’inamovibilità dei magistrati”. Come statuisce l’articolo 107 della Costituzione «non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso». La riforma stabilisce invece che «in caso di eccezionali esigenze, individuate dalla legge, attinenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, i Consigli superiori possono destinare i magistrati ad altre sedi». Cambiano dunque le motivazioni per cui i Csm possono intervenire per spostare o sospendere l’attività di un magistrato, p.m. o giudice che sia. Cambiano, ampliandosi, anche i poteri di intervento del ministro della giustizia rispetto alla magistratura. Lo si nota nella modifica dell’articolo 110: ferme le competenze dei consigli superiori, spettano al guardasigilli non solo l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, ma anche la funzione “ispettiva”, che esplicita una qual forma di controllo.

Conclusioni
Il DDL firmato da Alfano è ora all’esame delle commissioni riunite di Affari costituzionali e Giustizia della Camera e secondo lo stesso Guardasigilli sarà approvato entro l’estate. Intanto, una volta approdato alla discussione dell’assemblea, dovrà affrontare il complesso iter di voto riservato alle leggi costituzionali. Dovrà essere votato una prima volta da Camera e Senato a maggioranza semplice, come per le leggi ordinarie e poi, se approvato, a distanza di almeno 90 giorni dovrà passare di nuovo per il voto delle due camere, ma a maggioranza assoluta (quorum che corrisponde a 316 voti alla Camera e 162 al Senato). Inoltre può essere solo approvata o respinta senza apportare modifiche al testo approvato in prima votazione. Se a quel punto passa con la maggioranza dei due terzi la legge è promulgata dal Presidente della Repubblica ed entra in vigore. Se invece ottiene la maggioranza assoluta viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ed entro 90 giorni è possibile chiedere il referendum costituzionale confermativo. A suscitare le contestazioni dell’opposizione e di gran parte degli esponenti della magistratura è stato finora l’impianto generale del disegno di legge. La ratio della separazione delle carriere è al centro del contendere. Secondo il Governo garantirebbe maggiore imparzialità nel comportamento dei giudici e più professionalità nell’attività dei magistrati in genere. Secondo i fautori infatti si eviterebbe la condizione di vicinanza tra p.m. e giudice favorevole a scambi di favore e in più ci guadagnerebbe il grado di competenza dei magistrati, perché formati fin dal tirocinio obbligatorio nell’uno o nell’altro campo. I detrattori sostengono tuttavia che non solo l’accumulo di esperienze diverse è altamente formativo ma che nell’ordinamento giudiziario ci siano già tutte le garanzie di “equilibrio” richieste. Non è possibile infatti essere prima un inquirente e poi un giudice nello stesso processo (complesso è del resto passare in generale da una funzione all’altra) ed entrambe le figure sono soggette all’obbligo di imparzialità. Se questo scontro scaturisce da uno spirito conservativo del testo costituzionale, altra è la deriva più volte denunciata di fronte alla riforma della giustizia varata dal governo Berlusconi: la paura che attraverso la delega a leggi di chiarimento, si allunghi sulla giustizia l’azione del parlamento e quindi della maggioranza di governo. È il caso della non più diretta disponibilità della polizia giudiziaria. Se ora il p.m. ha la direzione delle indagini e può acquisire di sua iniziativa notizie di reato, con la riforma e una legge ad hoc potrebbe arrivare ad agire solo su segnalazione della polizia giudiziaria, che dipende dal potere politico. Altro allarme lanciato dalle toghe e dall’opposizione politica riguarda i limiti avocati per l’obbligatorietà dell’azione penale e la visione in luce, nella separazione delle carriere e nel depotenziamento dell’autonomia della pubblica accusa, della configurazione dei magistrati inquirenti come semplici “avvocati” dello Stato. Rimanendo al testo è però lecito porsi una domanda. In quale delle modifiche costituzionali proposte dalla riforma si dà soluzione al più radicato dei problemi della giustizia italiana, la lentezza dei processi e la scarsità di risorse?

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