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Marzo - Aprile/2011 - Contributi
L'arte della dirigenza. Se si confonde l'efficienza con la velocità arrivano i danni
di Oliver Cromwell

Dirigere un ufficio di Polizia non è cosa semplice, ma nemmeno troppo complicata. Basta usare il buon senso (che non è un optional molto diffuso… e, da qui, il fatto che alcuni si trovano in serie difficoltà). E allora, per arrivare a definire come bisognerebbe fare, partiamo dall’analisi di come sicuramente non si fa. L’esemplificazione aiuta.
Siamo sempre nella ipotetica piccola questura che prendo sempre ad esempio come campione di irresponsabile approssimazione organizzativa e dove c’è una dirigente che chiameremo Antonella Vibraroli (nome e personaggio di fantasia, abbiamo verificato che non esiste nei ruoli nessuno che si chiama così. Perché siamo prudenti e rispettosi del prossimo, noi).
Costei fa parte di quella piccola minoranza di funzionari e dirigenti nefasti, che ignorano le basi più elementari dell’azione direttiva, non sanno cosa sia il buon senso e la prudenza né nel parlare, né nello scrivere né, tantomeno, nel giudicare. Fanno danni all’intera classe direttiva e dirigente più di quelli che farebbe un ciclone associato ad un terremoto.
Troppo pieni di sé per poter imparare qualcosa, convinti, come sono, di sapere già tutto e di essere il top management della Polizia. In realtà più che manager sembrano quei bambini viziati che si divertono a rompere tutti i propri giocattoli, nella certezza che, poi tanto, ne verranno comprati dei nuovi.
Date a costoro un ufficio di Polizia dotato di personale preparato, motivato, entusiasta del suo lavoro e perfettamente funzionante: nel giro di poco riusciranno a trasformare l’ufficio in un guazzabuglio informe dove il personale giorno dopo giorno diventerà disilluso, irritato, svogliato, privo di motivazioni, litigioso: insomma un ammasso di fannulloni dai risultati scarsi.
Costoro, non sapendo né dirigere né comandare utilizzeranno lo strumento più controproducente che esiste: il pettegolezzo, facendolo assurgere a strumento principe nell’azione direttiva; diventando così i diffusori, spesso inconsapevoli, delle peggiori mistificazioni, le quali creeranno inevitabilmente malcontento, equivoci, dissapori tra il personale, favoritismi e ingiustificate penalizzazioni in un sistema che, da un lato si autosostiene ed alimenta e, dall’altro, autodistrugge l’ufficio sottraendo tempo ed energie al servizio: in pratica, anziché lavorare, la gente occuperà il tempo a sparlare di questo o di quello.
Il risultato è chiaro: avendo sprecato il tempo utile in attività improduttive quel poco che resta verrà utilizzato per trattare le pratiche d’ufficio “a tirar via” perché, poi gente come la nostra Antonella Vibraroli, di solito si vanta che, nel suo ufficio le pratiche vengono evase subito (che efficienza… all’amatriciana): solo che la realtà e ben più cruda. Le pratiche evase subito altro non sono che un’accozzaglia di castronerie che obbligano, poi, altri uffici a rimandarle indietro, a chiedere integrazioni e chiarimenti e, di fatto, il 90% del tempo dedicato al lavoro viene impiegato per aggiustare le corbellerie fatte nei giorni precedenti, spesso con rattoppi che sono peggiori del buco.
A questo tipo di dirigenti manca del tutto uno dei requisiti indispensabili a ricoprire questo ruolo: la capacità di valutazione critica. Essi, per supplire alle loro carenze organizzative e professionali nella gestione del personale (a poco importa, né serve, che siano dei luminari del diritto, ammesso che lo siano e, spesso non lo sono nemmeno) si circondano di ruffiani, spesso tanto brillanti e simpatici quanto vuoti moralmente e professionalmente: progressivamente questi ultimi plasmano l’imprudente dirigente fino a divenirne i veri burattinai ed animatori.
La gerarchia salta del tutto, un assistente si permette di strillare ad un ispettore capo, un ispettore con due minuti di servizio si ritiene legittimata a non obbedire ad un ispettore capo con più di vent’anni di servizio, il dirigente, che a questo punto è quasi privato della sua autonomia e delle sue prerogative, arriverà, andando dietro a cattivi consiglieri, a scrivere pedissequamente quanto gli viene riferito, senza verificarlo, con il rischio, più concreto che teorico, di commettere dei reati di falso e di prodursi in azioni diffamatorie facendo una gaffe dietro l’altra.
Salvo che, poi, i cattivi consiglieri nel momento del pericolo faranno un passo indietro e, con la vigliaccheria che sempre li contraddistingue, immediatamente ricorderanno la loro qualifica e, quindi, la colpa sarà tutta solo del dirigente: “è lui/lei che ha firmato, e che l’ho scritto io? Ma che, nun vedi che quello c’ha le stelle, io solo li baffetti rossi… Da me che vvoi?” E del lavorio costante nelle orecchie del dirigente (cfr. “Il barbiere di Siviglia” aria “la calunnia è un venticello…”) naturalmente, non ci sarà né dimostrazione, né memoria.
Ma la cosa incredibile è che questo tipo di dirigenti nonostante abbiano sbattuto il naso più volte andando dietro a gente inaffidabile, continua imperterrito, a seguirla andando di male in peggio.
Ecco che così tutto l’ufficio va allo sbando. Che cosa significa dire che un ufficio di Polizia è ben diretto ed un altro è mal diretto? Forse che in uno si lavora ed obbedisce e nell’altro no? Ma niente affatto: si lavora ed obbedisce in entrambi; solo che nel primo il lavoro scorre fluido ed efficace, i problemi che inevitabilmente si presentano quotidianamente vengono risolti in maniera ponderata e tranquilla, ci sarà costanza di disposizioni di servizio, un contenzioso ridotto praticamente a zero, un uso della disciplina del tutto trascurabile; nell’altro, invece, ci sarà un continuo stop-and-go, i problemi saranno affrontati con affanno e con soluzioni “di panza” più che di testa, sempre improvvisate che risolveranno un problema noto e ne introdurranno n incogniti, si daranno ordini, contrordini, ci si dimenticherà di averli dati, non ci si ricorderà il giovedì di cosa si è disposto il mercoledì (dato il turbine di disposizioni ad horas spesso collidenti l’una con le altre), non ci si curerà che le disposizioni date siano puntualmente eseguite, si ricorrerà a mezzi coercitivi subdoli (impiego nei servizi in modo non equilibrato, negazione di ferie, demansionamenti, diffamazioni con invio di “riservate” - ne parleremo in seguito - ecc.) non previsti dai regolamenti. E già, perché i dirigenti come Antonella Vibraroli, quando si trovano di fronte alla realtà del loro fallimento e constatano che la loro “brillante” carriera è stata solo frutto di casualità fortunate, del trascorrere quotidiano del tempo gentiluomo, di chiacchiere ed apparenza senza sostanza, della lontananza dal Ministero che ne ha rafforzato il delirio di onnipotenza (perchè un soggetto simile, se messo in servizio, ad es. alla questura di Roma, avrebbe una sopravvivenza di circa dieci minuti) anziché fermarsi un attimo e pensare a come si è fatto finora e come fare in futuro per meritarsi onori e carriera che altri dirigenti hanno ottenuto con impegno, fatica, abnegazione e soprattutto correttezza con il prossimo, elaborano subito, istantaneamente, una teoria per trasferire la responsabilità ad altri, spesso arrivando apertamente a denigrare l’Amministrazione in presenza del personale: “Siamo inefficienti? E’ il Ministero che ci vuole così” o, ancora, “Vedete? Che posso fare con questi quattro imbecilli che mi hanno messo in ufficio?” facendo finta di non sapere che gli stessi “quattro imbecilli” con il dirigente precedente, o in un altro ufficio, funzionavano bene… (un caso?).
Questo tipo di dirigenti non migliorerà mai perché per migliorare bisogna prendere coscienza dei propri difetti, analizzarli e sforzarsi di eliminarli (cosa che, se si giunge a questo punto della propria autoanalisi, si è già quasi compiuta).
E’ ovvio che una situazione come quella fin qui descritta non può prescindere dalla concorrenza di più fattori negativi tra i quali, in assoluto, la mancanza totale di controllo da parte del questore o, negli uffici non territoriali del dirigente il Reparto/Compartimento.
Torniamo alla nostra piccola, ipotetica, questura (lontana dal Ministero): siamo in estate, una Volante si ferma perché chiamata da cittadini coinvolti in questioni di viabilità. Ne scendono due “figuri” senza berretto (ovviamente), con una zazzera da far invidia ai fratelli neri del bronx anni ’70 (cosiddette Pantere Nere), il capo pattuglia con un cinturone che lasciava intravedere qualche chiazza di bianco tra il nero sporco che lo ricopriva e l’autista, senza cinturone, con la pistola infilata nella cintura dei pantaloni: due “barbudos” di Fidel Castro durante la rivoluzione cubana avrebbero tenuto a un assetto formale più ordinato e dignitoso.
Ora, il grave non è tanto il fatto che due poliziotti vadano in servizio così; il grave (che dimostra una inesistente azione direttiva e di controllo) è che costoro, evidentemente, avevano la consapevolezza che, se anche fosse passato di lì il questore, un funzionario o un qualsiasi superiore nulla sarebbe successo, altrimenti non avrebbero corso il rischio.
E pretendere un corretto assetto formale non è solo un becero retaggio di tipo militaresco: uno studio della Polizia israeliana ha dimostrato che un poliziotto non in ordine con l’uniforme ha il 74,3% di probabilità in più di accendere un contenzioso o un alterco con un cittadino rispetto a un poliziotto perfettamente in ordine: se ne deduce che questo aspetto ha un’incidenza importante sull’efficacia e regolarità del servizio ed anche, indirettamente, sulla sicurezza degli operatori.
Ed è logico. Perché a nessuno di noi piacerebbe essere ripreso o sanzionato da un soggetto sciatto e disordinato e poiché l’uniforme rappresenta il potere statuale è altrettanto logico che essa deve essere quanto più possibile curata così come il comportamento che deve essere appropriato al ruolo.
Ma laddove un capo dell’ufficio non controlla la situazione, o per disinteresse, o per incapacità di farlo ecco che si instaura un concetto generalizzato (che coinvolge tutte le qualifiche dall’agente in su) di tipo ultraprivatistico che non vede più il Dipartimento della Ps come un Ente sovraordinato e la questura come un Ente periferico sottordinato: il tutto viene visto come un contratto di franchising dove il Dipartimento è il franchisor e il questore il gestore di un negozio in franchising cui, appunto, il franchisor consente di utilizzare il proprio nome ed il proprio marchio in cambio di alcune garanzie commerciali, ma il gestore resta comunque libero di gestire il suo negozio che, anche giuridicamente è autonomo, come meglio crede. Chiaramente questa concezione aberrante si riflette anche sui vari dirigenti delle Divisioni i quali, a quel punto, si sentono svincolati da ogni regola nella convinzione, totalmente errata, che regolamenti e circolari ministeriali siano semplici linee guida. O, peggio ancora, che quel margine di adattabilità che viene lasciato ad ogni dirigente per conformare gli orientamenti del Ministero alle varie realtà locali (giacchè ciò che va bene a Bolzano non è detto che vada bene con le stesse modalità a Palermo) sia una sorta di legittimazione a fare di testa propria anche a costo di stravolgere completamente le disposizioni Superiori.
Quindi, la nostra ipotetica dirigente Antonella Vibraroli, se un dipendente le “va sul naso” si inventerà, come detto prima, tutta una serie di vessazioni e, nella convinzione di godere di una qualche forma di guarentigia, peraltro inesistente, giungerà a scrivere una “riservata” nella quale si produce in falsità e diffamazione. Poi, quando viene denunciata (come è appena il caso che avvenga) arriva all’apoteosi della stupidità: scrive che lei lo ha fatto per rilevare delle mancanze disciplinari, perché tale rilevamento è un obbligo di ogni superiore. Così dimostrando di conoscere il regolamento di disciplina che, però impone modalità e procedure ben diverse e tipizzate autodenunciando, per conseguenza, il proprio comportamento irregolare. A parte il fatto che quando si rilevano infrazioni disciplinari bisogna scrivere il vero e non il falso, il D.p.r. 737/81 che regola l’azione disciplinare non prevede affatto che si scrivano delle “riservate”: prevede (art. 12) che si inoltri al titolare dell’azione disciplinare un rapporto dettagliato dal quale si desumano le condotte censurabili affinché quest’ultimo contesti gli addebiti, consenta all’incolpato di produrre entro 10 giorni le sue controdeduzioni, il tutto in garanzia del contraddittorio (cfr. artt. 13 e 14) con ampi strumenti di impugnazione sia per l’Amministrazione che per il dipendente. Le “riservate”, invece, metodo irrituale e non previsto (e, a parere di chi scrive, anche illegale perché in contrasto con i principi di trasparenza amministrativa previsti dall’Ordinamento attuale), non sono altro che un metodo vile e surrettizio per creare al dipendente un danno permanente senza che questi possa fare nulla per opporsi (l’unica possibilità è agire legalmente a propria tutela) perché quando questa cosiddetta riservata (che poi tale non è) viene inserita nel fascicolo personale, chiunque abbia a consultarlo avrà contezza di una situazione che è riferita così come fu vista da una sola parte, senza che, allegata, possa esservi la versione dell’interessato: è chiaro che chi leggerà in futuro, magari a distanza di anni, non potrà che formarsi un’opinione negativa (e chi dirige un ufficio o un reparto con 900 dipendenti o più potrebbe anche non avere il tempo di approfondire…).
Ecco perché usare questi metodi squalifica chi li adotta dimostrando ictu oculi quale sia il suo basso livello morale, la sua profonda disonestà intellettuale e costituisca manifestazione di un comportamento indecoroso e gravemente lesivo della dignità delle funzioni perché inconciliabile con esse nonché della deontologia cui sono tenuti i funzionari e i dirigenti della Polizia di Stato che si riassume, non a caso, in una delle fattispecie sanzionate proprio dallo stesso regolamento di disciplina: malgoverno del personale.
E allora facciamo un esempio di come si fa (a scanso della facile affermazione “é facile criticare, più difficile fare”): molti anni fa chi scrive aveva la responsabilità anche erariale di un ufficio (oltreché di tutto il personale). Un giorno un dipendente nel fare una manovra presso il distributore Agip nel quale normalmente ci si riforniva venne a collisione con un basso ostacolo sporgente, lì collocato in maniera non troppo intelligente dal gestore (che per questo fu richiamato a maggior prudenza) rompendo un fanalino posteriore di un automezzo di servizio. Era praticamente impossibile, dal posto di guida, vedere quell’ostacolo basso, tuttavia la burocrazia ha le sue esigenze e un danno erariale, seppur minimo era stato causato. Chi scrive inoltrò, come da regolamento, un rapporto al titolare dell’azione disciplinare, (nella circostanza un dirigente di zona) che contestò al dipendente una negligenza in servizio nella conduzione del mezzo danneggiato. Ma chi scrive aiutò anche il dipendente a redigere le controdeduzioni accompagnandole, nella trasmissione, con una relazione che confermava l’involontarietà e la mancanza di negligenza da parte del dipendente stesso (sembra una contraddizione? Niente affatto, perché non sta a chi rileva un’infrazione disciplinare decidere nel merito; si riferisce e basta): il procedimento fu aperto ed archiviato con l’accoglimento delle controdeduzioni e, dal punto di vista contabile un danno erariale fu trasformato in una spesa di funzionamento (al pari di una lampadina bruciata per la quale certo non si può incolpare alcuno); così l’ufficio fu a posto a livello regolamentare ed a livello contabile.
Quando, fra trent’anni, si andrà a consultare il fascicolo di quel dipendente si vedrà che fu aperto un procedimento e che lo stesso fu archiviato riconoscendo che il dipendente non fu negligente. Se chi scrive avesse fatto la bella pensata di scrivere una cosiddetta riservata non sarebbe stato a posto né sotto il profilo disciplinare, né sotto il profilo contabile, quel dipendente verrebbe, ancora oggi, giudicato male e, in definitiva l’Amministrazione potrebbe anche decidere, sbagliando, di non affidargli una machina nuova mentre potrebbe risultare più affidabile di altri, ed ecco che così si sarebbe prodotto un danno plurimo peggiore del fanalino rotto.
E’ certo che il detto popolare “la mamma degli imbecilli è sempre incinta” ha, come tutti i detti popolari, un suo fondamento: chi non sa lavorare o non ne ha voglia sembra faccia di tutto per cercarsi faticose complicazioni. Il cercare di non lavorare o, peggio, inventarsi regolamenti o procedure inesistenti è un’attività che richiede almeno il triplo della fatica che richiederebbe lavorare secondo le regole già esistenti che, spesso, sono studiate da gente qualificata che sa quello che fa e che ha previsto ogni aspetto di una certa problematica ad evitare contestazioni, ricorsi, contenziosi e questioni di lana caprina: insomma, al Ministero ogni tanto saranno pure un po’ “stronzetti”, ma certamente non sono scemi e allora, per favore, si faccia ciò che è previsto (e solo quello) così si eviteranno situazioni nelle quali “a pummarola è abbasch e i maccaruni n’ coppe”.

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