“Esisteva soltanto il gioco. Il mondo per me aveva il profumo delle sigarette e il rumore delle slot machine. Non c’era altro. Le mani sporcate dai Gratta e Vinci e il pensiero rivolto al gioco anche di notte. I Gratta e Vinci li sfregavo con le unghie: varie volte hanno tentato di darmi un aggeggio per raschiare, ma io dopo due minuti dovevo grattare con le unghie per sentire il contatto delle mie dita con la schedina. Era pazzia pura, le assicuro che diventa proprio pazzia e uno non se ne rende conto quando fa quel gesto [...]. Avevo le mani argentate e dovevo lavarle in continuazione. La mia macchina era un tappeto d’argento: grattavo e guidavo, grattavo e guidavo; ogni tanto dovevo stare attento a non tamponare qualcuno perché nella frenesia di grattare alzavo gli occhi e avevo una macchina ferma davanti. Altro che cellulare”.
Basterebbe questa drammatica testimonianza raccolta da Carlotta Zavattiero nella sua ultima inchiesta, “Lo Stato bisca” (Ponte alle Grazie, 2010, pag. 256, ? 14), a far comprendere come il gioco, da passatempo, possa diventare una vera e propria dipendenza patologica. Di come possa essere degradante farsi scippare l’esistenza dalle slot machine o dalle lotterie online. Anche i numeri sono indice di una realtà oscura, tenuta celata dietro alle allegre musichette e alle ammiccanti immagini della pubblicità: con oltre 30 miliardi di dollari, i concessionari italiani di giochi pubblici, Lottomatica e Sisal, nel 2010, sono stati i più forti d’Europa. Non solo: hanno fatto addirittura meglio di tre continenti messi assieme (Africa, Australia e Sud America con i loro complessivi 13,3 miliardi di dollari rappresentano su scala mondiale appena il 5,5 per cento del totale).
Ma queste enormi quantità di denaro sono indicatori di un’economia sana? Per niente, spiega nel libro il sociologo Maurizio Fiasco: “Quando l’economia fiorisce, l’azzardo deperisce. Accade che nei periodi di crisi economica la forza attrattiva del gioco aumenta, perché esso diventa un’alternativa all’azione costruttiva per accedere al reddito. Viceversa, con la dinamizzazione dell’economia, acquista significato la ricerca di soluzioni non aleatorie”. L’economia “di plastica” del gioco non produce ricchezza ma, nel lungo periodo, diventa un pericoloso moltiplicatore di povertà. E lo fa legalmente.
Leggendo il suo libro si resta sgomenti di fronte all’enorme giro di affari legato al gioco. Partiamo da qualche dato?
Come definire uno Stato di sessanta milioni di persone dove gioca il 78% della popolazione fra i 18 e gli 80 anni, se non come uno “Stato bisca”? Ecco il motivo del titolo: da noi l’offerta dei giochi è molto più ampia che in altre nazioni europee.
All’anno, in media, gli italiani spendono circa mille euro in lotterie e scommesse. E se nel 2009 si sono spesi 54 miliardi di euro in giochi e scommesse, l’anno successivo, il 2010, i miliardi hanno superato la sessantina.
Cifre impressionanti: lo Stato guadagna senza investire. Il gioco produce reale ricchezza o è semplicemente un produttore di bisogno e dipendenza?
Ci si dimentica troppo spesso che “il banco vince sempre” e che “la fortuna è cieca”. Le grosse vincite sono molto rare. La gente, astutamente, viene fidelizzata al gioco da piccole vincite che comunque non portano mai il giocatore in pari.
Si spende, e nel gioco questo equivale a una perdita di denaro, sempre di più di quanto poi si vince. I soldi investiti nel gioco sono dissipati; danno una gioia effimera: pochi secondi, il tempo di grattare l’argento di un biglietto di una lotteria istantanea; in cambio non si ha alcun servizio o oggetto.
Chi incassa realmente?
Certamente non il giocatore. Ma un pregiudizio da abbattere è quello di uno Stato biscazziere che ci guadagna sempre. In realtà, incentivando il gioco come viene attualmente fatto, si creano i presupposti culturali per favorire il degrado, anche economico, del Paese.
Si fanno tagli sulla cultura, sulla ricerca, sulla scuola, ma si incentiva il gioco: si potenzia il numero delle estrazioni, si installano slot machine ovunque. C’è bisogno di soldi e si attinge a questo settore, sfruttando la partecipazione degli italiani, complici dello Stato biscazziere.
Alla politica fa comodo e la gente paga con il sorriso questa nuova “tassa dei poveri”, nella illusoria speranza di cambiare vita. È la via più facile, apparentemente “economica”, per fare cassa, ma che alla lunga mostrerà la sua vera natura: un insano vicolo cieco.
Quando il gioco, da vizio assume aspetti patologici?
C’è patologia quando si perde il controllo nella gestione del tempo e del denaro investiti per giocare. Se i due fattori, tempo e denaro dedicati al gioco, modificano la vita del giocatore al punto da deteriorarne l’esistenza, i rapporti familiari, di lavoro, lo stato di salute, ecco che siamo di fronte a un caso di Gap, l’acronimo che definisce il gioco d’azzardo patologico.
Il problema è che si scivola nella patologia in maniera impercettibile. Faccio un esempio: si inizia a fumare una sigaretta. Il tabagista – chi supera cioè il consumo di un pacchetto di sigarette al giorno – è in grado di dire, a posteriori quando ha superato il limite? Non dimentichiamo la fragilità dell’uomo. Nulla ci vieta di pensare che si potrebbe passare dai due euro di giocata al Superenalotto alla settimana, all’ipoteca della casa o al ricorso all’“aiuto” di un usuraio.
Quali sono gli “effetti collaterali” del gioco d’azzardo?
Oltre alla patologia descritta sopra, il Gap, al gioco sono legati altri aspetti negativi. Proprio perché il gioco nasconde in fondo la filosofia del guadagnare senza fatica e subito, evitando sacrificio e investimenti personali, parte di questo mondo attira una fauna di persone di discutibile moralità: intorno al gioco possono ruotare usura, malavita organizzata, criminalità, prostituzione, evasione fiscale, truffe ai danni dello Stato e dei giocatori.
A quali drammi familiari e personali può portare?
Portato alle estreme conseguenze, il gioco danneggia l’economia familiare e i rapporti interpersonali. Ma va detto che si tratta della punta di un iceberg: con il Gap emergono problematiche molto più profonde, che anche altri “vizi”, come alcolismo, tabagismo o tossicodipendenza, servono a coprire o evitare.
La modalità on-line ha cambiato il gioco?
Certo, nel senso che si diffonderà sempre di più, proporzionalmente alla contemporanea diffusione di Internet.
Entrando nelle case attraverso il pc, il gioco on-line potrebbe diventare ingestibile. Nella solitudine di una camera, senza controllo sociale, diventa molto più facile passare più tempo in rete, spendendo soldi per giocare, e perdere così il contatto con la realtà.
Se un giocatore patologico volesse uscire da questa spirale perversa, cosa dovrebbe fare, a chi dovrebbe rivolgersi?
Ai Sert, che si occupano di dipendenze. Ai pochi centri di cura specializzati nella cura dell’azzardo come la Siipac di Bolzano o il centro a Campoformido in provincia di Udine, gestito dal dottor Rolando De Luca.
I giocatori sono aiutati dal punto di vista legale, psicologico, anche farmacologico se necessario. L’obiettivo è quello di raggiungere l’astinenza totale. Solo così si esce dal “tunnel del divertimento”. Patologico, s’intende.
Dalla sua inchiesta esce un ruolo delle Istituzioni piuttosto ambiguo: a tal proposito parla di “guerra finta”.
Viviamo nel paradosso di uno Stato che non vieta il gioco: esorta al gioco “responsabile”, allo stesso tempo aumentando i prodotti del settore. Creando le condizioni per spingere la gente in crescente difficoltà economica a pensare al gioco come la soluzione di problemi che necessiterebbero invece di altre politiche, e soprattutto di un’altra mentalità. Una mentalità che valorizzi il lavoro e la cultura, attraverso un serio sistema di riforme di cui non c’è traccia.
Mi sono convinta che la politica di uno Stato che incentiva al gioco piuttosto che alla cultura, alla lettura di libri, e attua campagne promozionali, accettate senza battere ciglio da tutti i mezzi di comunicazione, è passibile di critica. E se la cultura, l’importanza che essa ha per la crescita individuale e collettiva, è qualcosa che non conta e non ha più valore è forse utile ricordare che il gioco è uno degli ambienti privilegiati dalla malavita.
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Carlotta Zavattiero, giornalista e scrittrice padovana, ha lavorato per diverse testate locali come Il Corriere di Verona, L’Arena, Il Verona e come corrispondente per Radio24. Ha pubblicato “Alessandro il Macedone. Il pensiero e il cuore di Alessandro Magno” (Bonaccorso, 2005) e ha collaborato con Ferruccio Pinotti al libro “Olocausto bianco” (Bur, 2008).
Appassionata di lingue straniere, collabora con l’agenzia “Piccolo Moresco” di Madrid e col blog “Cado in piedi”. Nel 2010 ha pubblicato per Chiarelettere il libro “Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo”, scritto insieme a Dalbert Hallenstein, giornalista investigativo australiano.
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