“Io, invece, vengo a voi a (riba)dirvi che non ci può essere futuro per chi affronta il presente senza conoscere o dimenticando il passato”. Si chiude con un monito “L’arte della fuga in tempo di guerra”, libro autobiografico di Antonio Buonomo (solista, compositore e didatta di fama internazionale), pubblicato da Effepi Libri (2010, pp. 188, 15 €), nel quale la parola tempo assume il duplice significato di andamento musicale e periodo. Ma è un monito che non ha origini “erudite”. Deriva direttamente dal vissuto dell’Autore, che lo regala al suo lettore dopo avergli fatto ripercorrere una vita di successi, sì, ma costruiti uno a uno, piano piano, con costanza, sacrificio, privazioni. E costantemente in fuga, ma non da se stessi.
E’ una giovinezza tutt’altro che spensierata, quella di Buonomo, costretto a trasferirsi da Napoli a Piana di Caiazzo (oggi Piana di Monte Verna), piccolo centro dell’entroterra casertano, dove vive sulla propria pelle i traumi della guerra: “...sentii il rombo di un aereo che si avvicinava. Istintivamente alzai lo sguardo e lo vidi abbassarsi in picchiata. Cominciai a correre e, vista una porcilaia in muratura, mi ci tuffai dentro senza esitare, appena in tempo per evitare di essere colpito dalle sventagliate di mitraglia che mi piovevano addosso. Restai accucciato... Adesso dovevamo prestare attenzione sia agli alleati, che per bombardare o cannoneggiare i tedeschi colpivano anche noi, sia ai tedeschi dai quali eravamo considerati dei traditori da castigare”.
Terminata la guerra, il ritorno a Napoli, una città distrutta: qui, Buonomo è iscritto dal padre al conservatorio, dove inizia a studiare musica. Il giovane promette bene, suonando in piccole bande, alle feste rionali e la sua faticosa gavetta segue la lenta rinascita della città partenopea. Antonio si applica e s’impegna, dando il meglio di sé, inizialmente come trombettista e poi come batterista e timpanista. Col tempo diventerà titolare di cattedra nei conservatori San Pietro a Majella di Napoli, Luisa d’Annunzio di Pescara e Santa Cecilia di Roma, entrando a far parte anche delle orchestre dei teatri San Carlo di Napoli e La Fenice di Venezia.
La fuga, filo rosso che lega i vari episodi raccontati dall’Autore, non è soltanto fisica, materiale: acquista pure un significato simbolico di rifiuto e disprezzo dei regimi autoritari che in passato hanno corrotto il nostro Paese, con conseguenze a tutti note e strascichi nefasti fino ad oggi. Numerosissimi gli spunti che richiamano alla mente del lettore attento i tempi attuali. In pieno regime fascista “La criminalità sembrava sparita ma, in realtà, aveva solo indossato la camicia nera (l’uniforme della milizia) per continuare ad operare con l’appoggio delle autorità. Le cariche più importanti, anche in ambito musicale, erano occupate dai servi del regime. Mio padre diceva: quando senti il latino dei fessi sta venendo la fine del mondo! Significava che erano tempi duri se a comandare erano gli ignoranti”. Tempi bui, ormai passati: “Ma siccome la storia si ripete a distanza di anni, perché le sofferenze di un regime si dimenticano troppo facilmente, ecco che già si profilano all’orizzonte altre ‘nottate”, forse ancora più lunghe e tenebrose di quella vissuta da me e dalla mia famiglia”. Nottate dalle quali bisognerà... fuggire!
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