Alle prostitute sfruttate, costrette, buttate sulla strada con violenze e minacce, alle puttane da trenta euro nigeriane e albanesi si fa la guerra: di loro si parla come di un elemento di degrado delle nostre città.
L’emergenza sicurezza e l’esigenza del “decoro” fomentano spinte xenofobe e regressive e portano a militarizzare le città.
Gli uomini e il potere non si interrogano però sulla richiesta che è alla base di questo mercato, una richiesta che coinvolge milioni di italiani. Lo chiamano il “mestiere più antico del mondo” e da una parte ne accettano l’esistenza, perché fa parte dell’immaginario sessuale di molti, dall’altro lo contrastano quando infastidisce o offende la vista.
E, curiosamente, offende quando è legato alla povertà e alla marginalità; sembra non offendere più quando la compravendita di corpi è legata alla ricerca di ricchezza o potere, quando ogni giorno si perpetuano copioni di dominazione e sottomissione nella vita familiare, sul lavoro, nella vita sociale.
Il concetto di “donna-oggetto”, che le donne individuarono e per eliminare il quale lottarono, oggi deflagra e influenza la vita di questo Paese, ne corrompe la politica e la gestione della cosa pubblica.
Donne quasi bambine, bambine cresciute nella mistica di una femminilità non propria, ma maschile, dalla sessualità indotta e servile, espositiva, ammiccante, quantitativa, da “supermercato”, televisiva; donne che è possibile comprare e offrire come merce di scambio. Che accettano di riprodurre un immaginario da B-Movie degli anni ’70, l’infermiera, la poliziotta, ad uso e consumo di fantasie povere e banali anche se esercitate nel lusso.
L’uso della nostra divisa in queste feste non solo ci indigna: ci dimostra come i mondi degli uomini e delle donne abbiano subito in questi anni un progressivo allontanamento; e che di questo allontanamento, tramite la proposizione continua di pubblicità e programmi televisivi di donne bellissime, giovani e sempre più esposte, è stato artefice un sistema di comunicazione dominato da personalità sessualmente bulimiche, da fantasie trite e lontane dalla sessualità femminile, da smania di potere e denaro e da una doppia morale su famiglia e relazioni pr.
Noi quella divisa la indossiamo tutti i giorni: è il simbolo dell’impegno quotidiano e crediamo che ognuna di noi abbia voglia di pretendere considerazione e rispetto per il nostro essere donne e lavoratrici di Polizia.
Non vogliamo più che la nostra esistenza pubblica e privata sia misurata solo da vecchi, muffiti parametri dettati da altri, che di noi donne si parli solo come oggetti sessuali o come esseri dalla limitata capacità di autodeterminarsi, che delle lavoratrici di Polizia si possa fare scherno invece di preoccuparsi della loro vita lavorativa quotidiana. E’ ora di cambiare.
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