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Gennaio - Febbraio/2011 - Interviste
L’opinione dell’avv. Nino Marazzita
“In Italia manca una cultura dell’attività investigativa”
di a cura di Eleonora Fedeli

Dal caso Ruby al delitto di via Poma:
lo sguardo dell’avvocato Nino Marazzita
sulla giustizia italiana

Il 27 gennaio il New York Times ha posto una domanda ai suoi lettori: cosa dice degli italiani la loro tolleranza nei confronti dell’edonismo di Silvio Berlusconi? Io, pochi giorni dopo, ho rigirato la questione all’avvocato Marazzita. “Dice che siamo un popolo che ha perso il senso civico”, mi ha risposto, con la prontezza di chi quella domanda se l’era già posta un milione di volte.

E come lo recuperiamo?
La gente si deve ribellare. Politicamente non c’è soluzione, perché la politica è nelle mani del Presidente del Consiglio. Berlusconi la spunta sempre, perché compra, illude, da. Ha una schiera di fedeli che lo difende con le unghie e con i denti. Quello che serve è una rivoluzione promossa da quella parte di società che ha ancora il senso della legalità, che non può più tollerare un governo incapace di intervenire sulle questioni importanti.
La cosa preoccupante, a mia avviso, è che la mentalità di moltissimi italiani è quella di Berlusconi: del resto non è stato eletto dal Padre Eterno, ma da tantissime persone che in lui vedono un modello da emulare, non certo da condannare. Interpellati sulle feste ad Arcore, in molti hanno risposto: “magari mia figlia partecipasse!”, “beato lui!”. Questo non lascia ben sperare.

Infatti questa storia del Rubygate non sembra aver intaccato più di tanto la sua immagine. In un certo senso, dopo Noemi e la D’Addario, è storia vecchia.
Intendiamoci, Berlusconi non sarebbe il primo uomo a pagare una donna in cambio di prestazioni sessuali. Quando Gronchi, democristiano, era Presidente della Repubblica, c’era un viavai di donne al Quirinale che non aveva nulla da invidiare ad Arcore. Quello, però, era un uomo che aveva il senso dello Stato e che rispettava le forme. Non si è mai arrivati ad una simile deriva. Si diceva, si mormorava, ma in quell’Italia codina non si sconfinava oltre la dimensione del petegolezzo sussurrato.
Oggi, invece, quello che accade durante le feste di Berlusconi è sulla bocca di tutti e noi siamo oggetto di derisione da parte dei giornali e delle televisioni di tutto il mondo. Il problema è che siamo in un tale stato di arretratezza giuridica e costituzionale che la classe politica attuale risulta inamovibile. Da giurista penso che ci vorrebbe una repubblica presidenziale, perché più agile, più funzionale. Ma poi, se immagino che Berlusconi potrebbe diventare il Presidente, inorridisco: se siamo arrivati fino a questo punto con i poteri che ha ora, tutto sommato limitati, figuriamoci con quelli di Capo di Stato.

La magistratura è al centro del mirino di Berlusconi e dei suoi. Il premier ha definito le inchieste a suo carico “farsesche, degne della Ddr”. Lei pensa ci sia un accanimento nei suoi confronti?
L’indipendenza della magistratura è la chiave di volta dell’indipendenza di un Paese democratico. La libertà può essere garantita solo dalla divisione dei poteri. Ma, come fanno notare i giuristi più sottili, se l’esecutivo e il legislativo sono due poteri che derivano direttamente dal popolo attraverso le elezioni, quello giudiziario è un ordine.
Oggi, però, l’ordine giudiziario si è trasformato in un potere, che talvolta prevale sugli altri. Ma perché? Perché la politica è assente e la Procura è costretta ad agire, diventando un controllore etico.
Il problema è che dopo la Prima Repubblica non si è creata una classe dirigente nuova, ma solo un rimescolamento di quella precedente. Non si parla neanche più di politica, ma solo di un vecchio satrapo incapace di gestire il governo e se stesso.

Secondo lei ci sono squilibri nella situazione attuale? E’ necessaria una riforma della giustizia o va bene così com’è?
Nel sistema italiano uno squilibrio c’è: quello tra accusa e difesa. Il nuovo Codice di procedura penale, ad esempio, ha degradato la prova agli indizi: si può arrivare ad una condanna se gli indizi sono gravi, precisi e concordanti. Questo è un grosso passo indietro nella cultura giuridica, un danno culturale: prima un sospetto non dava luogo a nessuna iniziativa di tipo processuale e per emettere una condanna serviva una prova certa e assoluta. Qual è il risultato di questa modifica? Ci sono moltissime sentenze in più rispetto a 19 anni fa, quando è stato fatto il nuovo Codice. Ci sono più impugnative, più appelli, più ricorsi in Cassazione e, soprattutto, più revisioni di processi.
In quest’ultimo caso, ad esempio, c’è stato un cambiamento significativo. Una volta si poteva chiedere una revisione del processo solo se in possesso di nuove prove decisive, come una nuova e comprovata confessione. In questi anni, invece, la Cassazione ha considerato anche prove già valutate, ma integrate in un contesto nuovo. Le revisioni dei processi, del resto, aumentano perché si commettono più errori. Il rito inquisitorio precedente era sì arretrato e medievale, ma evidentemente queste carenze erano supplite dalla maggiore professionalità dei giudici, da una più spiccata capacità di capire, di valutare gli elementi probatori.

Mi fa un esempio di una sentenza emessa sulla base di soli indizi?
Un esempio è la condanna di Raniero Busco per l’omicidio di via Poma. In quel processo gli elementi, un morso e alcune tracce di Dna, non mi sembrano sufficienti per una verifica.
Attenzione alla prova scientifica, non è così certa come si possa pensare. Anche la più semplice come il Dna presenta dei problemi: il Dna può essere preso male, gli elementi organici oggetto di accertamento possono essere contaminati. Quando la prova scientifica è esatta, poi, può essere al massimo un elemento di verifica. Busco era il fidanzato di Simonetta Cesaroni, quindi il fatto che il suo Dna sia stato rilevato sul corpo della vittima non sembra sufficiente per emettere una condanna. Lo stesso vale per il morso. E poi il movente? Il pubblico ministero l’ha ricostruito così: il giorno dell’omicidio la Cesaroni e Busco si spogliano e si mettono a fare l’amore. Da alcune lettere di Simonetta si evince che lei fosse molto innamorata, ma non ricambiata dal suo fidanzato. Simonetta, mentre era con Busco, arrabbiata per qualcosa che lui avrebbe detto, impugna un tagliacarte e inizia a minacciarlo. Busco, di fronte a questa reazione, avrebbe perso la testa e inferto 29 coltellate a Simonetta. Le sembra credibile? A me pare che un movente simile giustificherebbe il contrario, cioè che la persona respinta, in questo caso la Cesaroni, nutrisse sentimenti di odio.
A me, in sostanza, sembra che manchino prove concrete. Ci sono state troppe imprecisioni durante le indagini, troppi dettagli trascurati e poi ripresi anni dopo. I vestiti di Simonetta, ad esempio. Sulla scena del crimine non sono stati trovati perché, secondo l’accusa, erano serviti per pulire il sangue. Sei anni fa, però, in una trasmissione televisiva della Leosini un medico legale, uno dei migliori che abbiamo in Italia, ha dichiarato di essere in possesso di quei vestiti e di custodirli nell’Istituto di medicina legale di Torino. Che senso ha esaminarli anni dopo?

C’è, però, il problema dell’alibi di Busco, che il giorno dell’omicidio prima ha dichiarato di trovarsi con un suo amico, poi nel suo garage a lavorare sulla macchina.
Busco è la prima persona ad essere sentita. Alle tre del mattino è alla Squadra Mobile che rende l’interrogatorio. Pare, però, che nessuno degli investigatori gli chiese mai l’alibi o, come ha dichiarato l’ex capo della Mobile Nicola Cavaliere, l’alibi venne chiesto verbalmente ma non fu mai verbalizzato. Gli fu chiesto nuovamente nel 2004, a 14 anni dall’omicidio: chi di noi saprebbe dire con esattezza dove e con chi si trovava un giorno di così tanto tempo fa?
Come ho già detto, gli elementi a disposizione sono troppo deboli. I raffronti sul morso sul seno di Simonetta sono stati fatti da una fotografia del cadavere, quindi non sono sufficienti a dimostrare che si è trattato di un episodio di violenza prima dell’omicidio e non un atto durante un precedente rapporto sessuale. Busco, poi, non aveva ferite addosso subito dopo il delitto. L’assassino avrebbe usato la sinistra, mentre Busco non è mancino. Con queste contraddizioni, in assenza di prove e di un movente, non si può emettere una condanna.

In questa tendenza, in cui l’indizio può essere una prova, le intercettazioni hanno un ruolo molto rilevante.
I grandi fenomeni criminali non si possono combattere senza le intercettazioni. Certo, al momento in Italia si tende a farne un abuso. Per sapere se due persone si incontrano per organizzare un piano criminale, non c’è bisogno di intercettare tutte le persone con cui parlano. E’ tutta questione di buon senso, di misura e di capacità professionale. Sta al giudice capire se una parola è criptata o equivoca.
Ci sono dei casi in cui si commettono errori a dir poco grossolani. Prendiamo, per esempio, il caso di Yara, la ragazzina scomparsa vicino Bergamo. Il primo indiziato è stato un ragazzo marocchino, Mohammed Fikri. Durante una telefonata pareva avesse detto: “Allah mi perdoni, l'ho uccisa io”. Dopo il consueto processo mediatico, però, si è scoperto il malinteso linguistico: si trattava infatti, non di una confessione, ma di un’imprecazione. La persona a cui stava telefonando non rispondeva. Lo stesso è accaduto a Bari: un ingegnere francese e uno sceicco-imam siriano, in seguito ad alcune intercettazioni telefoniche, vengono arrestati con l’accusa di terrorismo internazionale. Per un errore di traduzione, il loro discorso relativo all'acquisto di una tonnellata di melograni, che in francese si dice "pommegranate", era diventato un piano di attacco terroristico con granate.
Il problema è che, nel nostro Paese, manca una cultura dell’attività investigativa. Come si cerca di ovviare? Con intercettazioni telefoniche a tappeto: tanto qualcuno prima o poi parla.

Pensa che se ne faccia un uso eccessivo?
Le intercettazioni devono essere concentrate. Nel caso di Berlusconi, i magistrati di Milano pare abbiano fatto molte ore di intercettazioni: è normale che la gente si ponga anche il problema del costo. In Inghilterra, la prima sentenza sul caso Calvi [trovato morto sotto un ponte sul Tamigi, n.d.r.] è stata quella di suicidio. Un secondo processo, però, dimostrò che si trattò di omicidio. Il giudice che emise la prima sentenza, allora, fu costretto a risarcire l’erario dei soldi spesi per un processo il cui esito fu poi smentito.
In Italia c’è stato un referendum per la responsabilità civile, per la quale l’82% degli italiani si è espresso a favore. Una legge, però, non è mai stata fatta. Io credo, invece, che una responsabilità civile ed erariale sia necessaria: se ti mettono ingiustamente in carcere, non devi risarcire solo la vittima, ma anche lo Stato che ha speso soldi in intercettazioni e agenti.

Alcuni sostengono che la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni comporti un ingiusto processo mediatico prima di una sentenza effettiva. Lei cosa ne pensa?
Io penso che il dovere del giornalista sia far sapere, anche se talvolta finisce per essere controproducente. Il segreto investigativo serve a tutelare l’acquisizione delle prove. Guarda il caso dell’Olgettina: rendendo note le intercettazioni si sono avvertite tutte le persone coinvolte. Tanto è vero che Berlusconi le ha convocate tutte per organizzare una difesa: questo è un chiaro caso di inquinamento probatorio.
Il problema è che, se venisse osservato il segreto investigativo, in un Paese in cui ci vogliono due anni per fissare un’udienza preliminare, le cose le verremmo a sapere molti anni dopo. Che senso avrebbe venire a conoscenza di Ruby nel 2013?

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