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Gennaio - Febbraio/2011 - Articoli e Inchieste
Reportage
Viaggio nell’Arizona degli Indiani d’America
di Claudio Ianniello

Un lungo percorso nello Stato deli Usa
con la più alta concentrazione
di nativi. Tra testimonianze storiche
e antitesi moderne, dove la bellezza
dei paesaggi contrasta con l’emarginazione
e i problemi delle popolazioni locali


Lo scorso 5 novembre Barack Obama ha incontrato, come promesso durante la campagna elettorale, i capi delle 564 nazioni indiane riconosciute dal governo federale, inaugurando un appuntamento che, parola di Presidente, dovrà essere annuale. Obama assicura di volersi occupare seriamente degli annosi problemi della minoranza dei nativi, anche perché afferma di saper bene cosa significhi sentirsi in minoranza, un escluso! Gli indiani la loro parte l’hanno fatta [i voti, n. d. r.] ora tocca al Presidente degli Stati Uniti.
Uno in particolare di questi stati d’America, l’Arizona, è il paese negli Usa che annovera il maggior numero di tribù indiane, perlopiù residenti in riserve. Le terre dei nativi occupano oltre il 27% del territorio: mesas, canyon, rocce rosse, deserti, gran parte dei numerosi parchi nazionali e statali e delle svariate aree sottoposte a tutela ambientale, ne sono parte integrante; ovunque riecheggia la memoria di civiltà straordinarie e valorose, il cui carattere fiero e dignitoso sembra emanare dalle praterie, dalle montagne, dalle aride distese di cactus e saguari. Elementi, quelli del paesaggio, testimoni di un passato recente, fatto di agricoltura, caccia, migrazioni, danze agli spiriti kachinas e successivamente, di pionieri, missionari, esploratori e coloni.
L’Arizona, inizialmente abitata da gruppi di cacciatori nomadi, vide circa nel 200 a. C. l’affermarsi dell’agricoltura, anch’essa praticata da nomadi, i quali dopo aver seminato i campi in primavera, migravano in estate e tornavano per il raccolto in autunno. Nel 200 d. C. le tribù iniziarono a stanziarsi costruendo piccoli villaggi vicino ai loro campi, con le tipiche abitazioni semisotterranee chiamate pit-houses (successivamente adobe). Predecessori dei più noti “pellerossa” ovvero quelli delle tribù Navajo, Apache e Hopi, noti protagonisti di avvincenti romanzi ed edulcorate epopee cinematografiche, emersero tre distinte culture, gli Anasazi a nord, i Mogollon nelle regioni orientali, gli Hohokam nei deserti meridionali.
Ed è dagli Hohokam, dalle rovine di Sears-Kay, a sud est di Scottsdale che inizia il nostro tentativo di immergersi di persona nella Storia nativo-americana. Qui ritroviamo ciò che rimane di un villaggio abitato circa tra il 1050 ed il 1200 d. C., testimonianze degli antichi Hohokam, antenati degli attuali indiani Pima; questa popolazione, pioniera della cultura agricola, era straordinariamente capace di adattarsi a vivere in luoghi con temperature elevate, coesistere con animali pericolosi, quali serpenti e scorpioni, rendere coltivabili terre fondamentalmente aride e secche. Quest’ultimo particolare è indicativo di uno degli elementi più importanti per tutte le civiltà autoctone: il rapporto simbiotico con la terra, tanto amata e rispettata da renderla fertile, laddove sarebbe impossibile alle moderne civiltà occidentali. La stessa capitale dell’Arizona, Phoenix, è un omaggio alla cultura Hohokam: Fenice appunto, la città che sarebbe rinata dalle rovine di questa antica cultura indiana, come l’uccello del mito.
Un altro aspetto affascinante delle antiche civiltà, sono i petroglifi, incisioni rupestri scavate (a volte solo disegnate) nella roccia, rappresentanti uomini, animali, figure geometriche, simboli religiosi. Disseminati un po’ ovunque nello Stato, ne riconosciamo un tipico esempio presso le Palatki Sinagua Ruins, che sono situate a 15 km ad ovest della città di Sedona, la mitica città delle “rocce rosse”, dai paesaggi suggestivi, ambientazione di molti storici film western e sede di alcuni dei più persuasi gruppi new-age che la considerano un centro di emanazione di energia cosmica. Le rovine rappresentano ciò che rimane di un gruppo regionale (i Sinagua) rapportato dagli antropologi agli Anasazi, vissuto tra il 1150 ed il 1300 d. C., il quale ci ha lasciato un notevole esempio di arte figurativa su rocce. Numerosi altri siti archeologici offrono la possibilità di apprezzare, osservando con i propri occhi e non attraverso un documentario televisivo, reperti trasudanti la quotidianità della vita degli antichi nativi, come il Montezuma Castle National Monument, a sud di Sedona e sede di antichi Pueblos.
L’Arizona si estende su un territorio vasto, affascinante, seducente, in cui i deserti, al centro sud, habitat di coyote e serpenti a sonagli, toccano regolarmente i 40 gradi, mentre le spumeggianti foreste, i poderosi fiumi, persino cime innevate, mutano drasticamente il paesaggio a nord. Questa stessa terra, i cui cieli irradiano sull’orizzonte sconfinato un azzurro vivace, talvolta ornato con tenui pennellate di nubi, appare ricca di “contraddizioni climatiche” che si presentano metaforicamente analoghe alle incoerenze ed ai contrasti rilevabili sia nel rapporto tribù-Stato Federale, sia all’interno delle stesse comunità dei nativi.
A partire dalle invasioni europee del XVI secolo, la storia degli indiani d’America divenne la storia della loro progressiva distruzione culturale e fisica e della perdita di identità. La politica della relegazione e della confisca inaugurata già a partire dal 1786 e sancita ufficialmente dal presidente Andrew Jackson nel 1830 con l’Indian Removal Act (il quale iniziò la campagna di sistematica riduzione di spazio destinato alle culture native), ha portato negli anni ad un livello tale di degradazione che fa degli “indiani d’America” la minoranza etnica in Usa con la più bassa speranza di vita alla nascita, il più basso reddito pro-capite, il più alto tasso di disoccupazione; da qui nascono piaghe considerate ormai fisiologiche nelle riserve, come suicidi, abuso di alcol, attività al limite della legalità. Lo stridore tra i fasti della tradizione ed il presente è tristemente e facilmente verificabile, percorrendo, proprio qui in Arizona, le polverose strade secondarie e non, che molto spesso si trovano a costeggiare (se non addirittura ad attraversare) diverse zone, più o meno vaste, adibite a “riserve indiane”.
Da Scottsdale, percorrendo la Highway 87, in breve tempo giungiamo ad una di queste tante indian reservation: quella di fort McDowell. Questa comunità, formata dai nativi Yavapai, conta oggi non più di 900 elementi e si è costituita relativamente di recente, nel 1903. E’ un raro esempio di comunità piuttosto prospera e dinamica, attraverso la quale ci si rende immediatamente conto della tipologia di moderne attività economiche poste in essere all’interno delle riserve. Golf Clubs, Resorts, tour operators specializzati nell’organizzare avventurose escursioni a cavallo sulle orme dei mitici guerrieri indiani o ad immergere il turista in ambientazioni mitiche, a volte ricreate ad arte, fatte di tepee, danze votive e sacre cerimonie ma soprattutto, ciò che anima principalmente la “moderna” economia indiana, sono le sale da gioco, i casinò. Un fenomeno, quest’ultimo, reso possibile grazie al beneplacito del governo federale il quale, nel 1988 promulgando l’Indian Gaming Regulatory Act, di fatto ha autorizzato la costruzione e la gestione di sale da gioco nelle riserve.
In molti si domandano perché l’amministrazione Usa abbia scelto, come suggello al riconoscimento della sovranità dei nativi sui territori ad essi destinati, il consenso alla pratica “legale” ed “esentasse” del gioco d’azzardo. Innanzitutto bisogna ricordare il particolare status giuridico di queste tribù: esse sono amministrate dai governi tribali, i quali si avvalgono, per esercitare il potere esecutivo, dei Consigli tribali; i governi tribali hanno come organo di riferimento a livello statale il “Bureau of Indian Affairs”, istituito nel 1789 allo scopo di occuparsi precipuamente della “questione indiana”. Una peculiarità delle comunità native è di essere esenti da tasse statali e federali.
Sono stati quindi gli stessi Consigli tribali a richiedere con forza la possibilità di erigere sempre piu casinò, ed il potere federale, in parte per stimolare l’economia delle riserve, forse anche per apparire magnanimo agli occhi di una comunità da tempo discriminata, si è dimostrato disponibile. Qualche vecchio capotribù obietta che la reale motivazione sia da ricercare nella volontà di diffondere l’ennesimo vizio tra gli indiani e provocarne ulteriori disastri culturali, dando cosi l’opportunità ai governi statali di imporre ulteriori restrizioni e leggi sui loro territori. Certo è che il gioco d’azzardo crea dei nuovi leader, in qualche modo indipendenti anche dai Consigli delle tribù, i quali detengono ingenti somme di denaro, pensano spesso più al profitto personale che alla crescita dell’economia della comunità e non sempre sono determinati nell’evitare infiltrazioni del crimine organizzato nella gestione di questi nuovi affari. Va da sé che all’interno delle singole comunità, si stiano creando nuove tipologie di piramidi sociali, le quali non vedono più al vertice gli antichi capi ma moderni e spregiudicati uomini d’affari che contribuiscono, con il loro esecrabile comportamento, ad aumentare il dislivello economico tra pochissimi (spesso corrotti) benestanti e la gran parte della popolazione che rimane umile, senza risorse e vede esautorata ogni forma di partecipazione all’attività decisionale collettiva.
All’altezza del villaggio di Payson, sorto nel 1881 con l’arrivo dei cercatori d’oro, la Highway 87 diventa una semplice main road (strada asfaltata), la Main Road 87 appunto che dopo un ulteriore ora e trenta di percorso, giunge al villaggio di Winslow. Questa caratteristica cittadina, è nata come capolinea ferroviario nel 1882 e non ha perso un colpo dal 1926, anno in cui la Route 66 portò l’America nel cuore della città. Qui il paesaggio si evolve: siamo nella zona del Mogollom Rim, dove il deserto inizia a cedere il passo a fredde foreste di pini e a torrenti montani. In quest’area oltre ad un gran numero di piccole altre riserve indiane, inizia ad estendersi, quasi ad avere la Route 66 come proprio confine a sud, la più grande riserva dei nativi americani esistente, quella degli indiani Navajo.
E’ in questa porzione di territorio, abitata da molteplici comunità che ritroviamo uno spaccato completo della realtà delle riserve: attività legate ai casinò e giacimenti di petrolio pongono l’area dei Navajo in una buona condizione economica, inoltre la caccia, l’agricoltura e la pesca sono ancora esercitate, benché in misura esigua e più a livello di perpetuazione delle tradizioni. Interessante pure l’artigianato che dà vita a moltissimi manufatti quali gioielli, utensili, tessuti e vasellami, venduti in prima persona dai nativi nei molteplici mercatini da loro stessi allestisti. Una di queste aree di vendita si trova nel bellissimo parco dell’Oak Creek, situato tra la città di Sedona e quella Flagstaff, dove i toni caldi delle rocce si specchiano nel fiume Oak e le piacevoli sensazioni di pace e tranquillità che si avvertono nell’etere, ci inebriano al punto da indurci a qualche piccolo acquisto. Non è tutto purtroppo, descrivere solo questo si ridurrebbe ad una narrazione idealizzante.
Percorrendo le stradine che fiancheggiano la riserva, si possono osservare centinaia di fatiscenti baracche, in condizioni igienico-sanitarie inidonee, assenza di ogni confort, bambini seminudi e sporchi che giocano intorno alle loro “case di fortuna”, spesso in compagnia di adulti dagli sguardi persi, inebetiti dalle condizioni in cui versano, annichiliti e frustrati dalla non appartenenza nè ad un passato glorioso, né ad un presente fatto dai bianchi, in preda spesso allo stordimento da abuso di alcol o droghe. E’ l’immagine di un popolo afflitto, vessato da disoccupazione e disgregazione sociale. Chi ha scelto invece di ribellarsi a questa mortificante condizione di vita, integrandosi nella società americana, ha di fatto scelto di rinunciare alle tradizioni, alla storia, agli usi del suo popolo, accettando di vestirsi come i bianchi, rispettare le loro leggi, sottostare ai loro stili di vita; è un conflitto apparentemente indissolubile.
Dalla città di Flagstaff proseguiamo sulla Historic Route 66 (in gran parte ormai inglobata nella Interstate 40) fino a giungere nella città di Williams. Questa è una cittadina fondata a fine ’800 con l’arrivo della ferrovia e nota soprattutto per tre cose: il suo sapore decisamente “old west” il treno a vapore che parte ogni giorno per escursioni verso il Gran Canyon e la sua collocazione sulla storica “66”. Questa città come molte altre in quest’area dell’Arizona, rappresenta l’evoluzione dei primi villaggi dei bianchi in territori indiani, siti sviluppatisi grazie ai commercianti di pelli, ai cercatori d’oro, agli avventurieri ed alle prime miniere scavate nelle impervie rocce. Da Williams percorriamo dapprima un tratto della Highway 64, poi la 180, che ci porta diretti in una delle più incredibili e superbe meraviglie della natura: il Gran Canyon.
Nato dall’erosione dell’altopiano del Colorado ad opera del fiume omonimo e dei suoi affluenti, estende il suo abisso per 445 km, con una larghezza media di 16 km. È una testimonianza geologica unica, gli strati rocciosi sono visibili uno sull’altro e si distinguono depositi di antichi mari, fiumi, vulcani,e rocce formatisi oltre un miliardo di anni fa. I nativi americani lo hanno abitato fin dai tempi antichi, gli Anasazi innanzitutto, per cedere poi il posto agli Havasupai, presenti ancora nel villaggio di Supai, dove si può ammirare un fiabesco paesaggio immerso nel canyon, circondato da spettacolari cascate; ci appare come un locus amoenus, in cui rifugiarsi e tornare, almeno con la mente di tanto in tanto. Quasi incredibile che possano ancora esistere posti di questo genere e che siano abitati da discendenti di antiche tribù, ben felici (e non potrebbe essere diversamente) di vivere lontani dalle città moderne.
In conclusione si matura il pensiero che le antinomie persistano oggi, nell’era Obama, ed appare lungo ed impervio il cammino per giungere alla loro risoluzione. È giusto però riflettere su questo: più o meno contemporaneamente all’inizio del progressivo annientamento dell’identità nativa, il Congresso americano, nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, approvata e ratificata nel 1776, affermava: “Consideriamo come evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono stati creati e dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà, il conseguimento della felicità”. Inoltre nella Costituzione del 1787, si riconoscono tutti i cittadini, indistintamente, titolari di diritti naturali inalienabili.
In virtù dei principi su cui i Padri fondatori hanno costituito l’amata Patria, si dovrebbe affermare e sostenere, tangibilmente, il valore delle minoranze, dimostrando così l’efficacia e la bontà di assunti, idee e diritti posti alla base delle moderne democrazie, di cui certo gli Stati Uniti ne sono l’emblema.

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