Una mostra per raccontare, nel quadro delle iniziative per i 150 anni dell’Unità nazionale, la storia del Pci, il Partito comunista italiano, che dell’Italia nazione è stato una componente e un motore politico fondamentale: “Avanti popolo (dalla prima strofa del celebre canto Bandiera rossa) – Il Pci nella storia d’Italia”, curata dall’Istituto Gramsci e dal Cespe (Centro Studi di Politica economica), si è aperta a Roma, alla Casa dell’Architettura, fino al 6 febbraio, per poi spostarsi a Milano, in Umbria, a Livorno, Bologna, Genova. Con una doppia coincidenza di date, perché se nel 2011 sono novant’anni dalla fondazione del Partito comunista d’Italia (primo nome, dovuto all’appartenenza alla Terza Internazionale, o Comintern, organizzazione sciolta durante la Seconda Guerra mondiale), nato a Livorno nel gennaio 1921, sono vent’anni dalla sua “conclusione”, nel 1991, al Congresso di Rimini.
Un percorso multimediale che consente di percorrere, attraverso sei stazioni cronologiche e alcuni siti tematici - con esauriente materiale documentario, a cominciare dai famosi Quaderni di Antonio Gramsci - il cammino di quello che è stato il più grande partito della sinistra italiana. E una delle forze fondatrici della democrazia repubblicana, dopo il sostanziale contributo alla Resistenza. “Compagni, avanti il gran partito noi siamo dei lavoratori”, diceva l’inno ufficiale, l’Internazionale. Ma il Pci non era stato solo il punto di riferimento più forte per la classe operaia, aveva raccolto nelle sue file, e attorno alle sue innumerevoli iniziative, intellettuali, scrittori, cineasti, scienziati, tanto da far lamentare da parte degli avversari – e ancora oggi da chi nutre rancorosi ricordi – una “egemonia culturale”, insolita per un partito che la logica della guerra fredda escludeva dal governo del Paese.
Escluso, ma partecipe: molto prima della sua storica enunciazione da parte di Enrico Berlinguer, una forma di “compromesso storico” vigeva tra il partito che non poteva andare al governo, e quello che doveva starci sempre, la Democrazia Cristiana. I due grandi rivali, uniti nella difesa dello Stato democratico, minacciato da una “strategia della tensione” che assumeva di volta in volta l’aspetto del complotto, della strage, del terrorismo. Fino all’accordo del governo di unità nazionale del 1978, segnato dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. Ormai allentati, al limite della rottura, i rapporti con L’Unione Sovietica – che gli avevano fatto approvare acriticamente le posizioni e le azioni dei compagni del Pcus, e che erano anch’esse un derivato della guerra fredda fungendo da contraltare a quelle della Dc con gli Stati Uniti – il Pci si trovò messo ai margini e apertamente deriso per gli appelli alla “questione morale” di Berlinguer. Il craxismo rampante della “Milano da bere” era sembrato a molti un modello molto più appetitoso. Con i risultati e gli effetti a tutti ben noti.
Nel febbraio 1991, a Rimini, il XX Congresso del Pci ne decretava la fine, o, se si vuole, la metamorfosi.
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