Pubblichiamo alcuni estratti del Dossier 2010
della Caritas Migrantes, un documento
che fornisce un quadro preciso della presenza
degli stranieri nel nostro Paese, e vi inserisce
considerazioni logiche ed eticamente valide
su una realtà ineludibile
L’immigrazione
e la crisi economico-occupazionale
Innanzi tutto, a predisporre negativamente la popolazione verso la presenza immigrata sono gli effetti in Italia della crisi mondiale: nel 2009, il crollo della produzione (specialmente nelle manifatture e in edilizia) e degli investimenti, la diminuzione di 380mila posti di lavoro e del tasso di occupazione, l’aumento del tasso di disoccupazione e dei disoccupati (2 milioni e 45mila), l’incremento delle migrazioni interne anche a lungo raggio. In questo contesto, in cui le previsioni di nuove assunzioni dall’estero sono andate diminuendo (da 168.000 nel 2008 a 89.000 nel 2009 secondo l’indagine Excelsior), non solo si è ridotto l’afflusso degli immigrati, considerati in qualche modo una causa di questi mali, ma molti sono stati anche licenziati e in parte costretti a lasciare il paese o a scivolare nell’irregolarità.
È il nostro sistema economico a trovarsi in difficoltà, impossibilitato ormai a ricorrere alle svalutazioni della moneta dopo l’introduzione dell’euro, a esportare nel mondo prodotti a basso costo, come riescono invece a fare i paesi emergenti, e a ridurre l’enorme peso della spesa pubblica. Intanto, continua la diminuzione nella crescita del Prodotto Interno Lordo: 3,8% negli anni ’70, 2,4% negli anni ’80, 1,4% negli anni ’90, 0,3% negli anni 2000 (un valore ridottissimo anche per effetto del crollo del Pil del 6% nel biennio 2008-2009). Inoltre, il rapporto tra debito pubblico e Pil, pari al 95,2% nel 1990, è passato al 109,2% nel 2000 ed è stimato pari al 118,2% alla fine del 2010, il rapporto più alto tra tutti gli Stati membri dell’UE.
Le opportunità connesse
con l’immigrazione
Alla luce degli effetti della crisi bisogna chiedersi se gli immigrati, che contribuiscono alla produzione del Prodotto Interno Lordo per l’11,1% (stima di Unioncamere per il 2008), siano il problema o non piuttosto un contributo per la sua soluzione. Diversi studi, tra i quali quello della Banca d’Italia di luglio 2009, hanno posto in evidenza la funzione complementare dei lavoratori immigrati in grado di favorire migliori opportunità occupazionali per gli italiani. Venendo essi a mancare, o a cessare di crescere, nei settori produttivi considerati non appetibili dagli italiani (in agricoltura, in edilizia, nell’industria, nel settore familiare e in tanti altri servizi), il paese sarebbe impossibilitato ad affrontare il futuro. È quanto ci è stato ricordato il primo marzo 2010 dal primo “sciopero degli stranieri”, ispirato a una analoga manifestazione francese, con l’astensione dal lavoro e dagli acquisti e la presenza in piazza per far sentire la propria voce.
In particolare, gli immigrati sono sempre più indispensabili per rispondere alle esigenze delle famiglie, come emerso in occasione dell’ultima regolarizzazione, chiusa a settembre 2009 con quasi 300mila domande: basti pensare che nella prospera Lombardia, nel 2025, le persone con oltre 65 anni saranno circa tre milioni, un milione in più rispetto al 2010, con un fabbisogno esponenziale di assistenza.
Il Dossier, nelle indagini condotte sui benefici e sui costi dell’immigrazione, ha evidenziato che gli immigrati versano alle casse pubbliche più di quanto prendano come fruitori di prestazioni e servizi sociali. Si tratta di quasi 11 miliardi di contributi previdenziali e prelievi fiscali l’anno che hanno contribuito al risanamento del bilancio dell’Inps, trattandosi di lavoratori giovani e, perciò, ancora lontani dall’età pensionabile. Essi, inoltre, dichiarano al fisco oltre 33 miliardi l’anno.
A livello occupazionale gli immigrati non solo incidono per circa il 10% sul totale dei lavoratori dipendenti, ma sono sempre più attivi anche nel lavoro autonomo e imprenditoriale, dove riescono a creare nuove realtà aziendali anche in questa fase di crisi. Sono circa 400mila gli stranieri tra titolari di impresa, amministratori e soci di aziende, ai quali vanno aggiunti i rispettivi dipendenti. A Milano i pizzaioli egiziani sono più di quelli napoletani, così come sono numerosi gli imprenditori tessili cinesi a Carpi (Modena) e Prato, e quelli della concia ad Arzignano (Vicenza), in questo caso non solo cinesi ma anche serbi. Ogni 30 imprenditori operanti in Italia 1 è immigrato, con prevalenza dei marocchini, dediti al commercio, e dei romeni, più propensi all’imprenditoria edile.
Le esigenze demografiche
e gli intrecci interculturali
Sono circa 240mila i matrimoni misti celebrati tra il 1996 e il 2008 (quasi 25mila nell’ultimo anno); più di mezzo milione le persone che hanno acquisito la cittadinanza di cui 59mila nel 2009; oltre 570mila gli “stranieri” nati direttamente in Italia; quasi 100mila quelli che ogni anno nascono da madre straniera; più di 110mila gli ingressi per motivi familiari.
In un’Italia alle prese con un elevato e crescente ritmo di invecchiamento, dove gli ultrasessantacinquenni superano già i minori di 15 anni, gli immigrati sono un fattore di parziale riequilibrio demografico, influendo positivamente anche sulla forza lavoro.
I contatti quotidiani sul lavoro e nei luoghi di socializzazione (la scuola, le associazioni, i luoghi di culto…), insieme alle famiglie miste, stanno facendo dell’immigrazione una realtà organica alla società italiana.
La collettività romena è la più numerosa, con quasi 900mila residenti; seguono albanesi e marocchini, quasi mezzo milione ciascuno, mentre cinesi e ucraini sono quasi 200mila. Nell’insieme, queste 5 collettività coprono più della metà della presenza immigrata (50,7%). Gli europei sono la metà del totale, gli africani poco più di un quinto e gli asiatici un sesto, mentre gli americani incidono per meno di un decimo.
Diversi gruppi nazionali risiedono per lo più nelle città, come i filippini, i peruviani e gli ecuadoriani. Altri, come gli indiani, i marocchini o gli albanesi, si sono insediati maggiormente nei comuni non capoluogo. L’insediamento è prevalente nel Nord e nel Centro, ma anche il Meridione è coinvolto nel fenomeno, rappresentando un’area privilegiata per l’inserimento di alcune collettività. È il caso degli albanesi in Puglia, degli ucraini in Campania o dei tunisini in Sicilia.
Roma e Milano, rispettivamente con quasi 270mila e 200mila stranieri residenti, sono i comuni quantitativamente più rilevanti, ma gli immigrati si stabiliscono anche nei piccoli centri, spesso con incidenze elevate rispetto al totale dei residenti. Ad esempio, a fronte di una media nazionale del 7%, gli stranieri sono il 20% dei residenti a Porto Recanati (MC), il salotto del mare della riviera adriatica, come anche a Castiglione delle Stiviere (MN), conosciuto non solo per essere patria di San Luigi Gonzaga, patrono mondiale della gioventù, ma anche il luogo in cui Herny Dunant concepì l’idea della Croce Rossa. In provincia di Imperia, Airole si impone per un’incidenza degli stranieri pari al 31%, seppure su una popolazione di appena 493 abitanti.
Immigrati e criminalità
E il fattore criminalità? Nei primi anni, l’impostazione del Dossier, nella consapevolezza che l’immigrazione non comporta solo aspetti positivi, è consistita nel riportare anche i dati relativi al coinvolgimento degli stranieri in attività devianti ripartiti per territorio, per paesi di provenienza e per tipo di reato, fornendo alcune indicazioni per la loro lettura. Negli ultimi tempi questa metodologia documentale non si è rivelata più sufficiente, anche perché, con il notevole aumento dei flussi migratori a partire dalla seconda metà degli anni ’90, si è rafforzata nella società la diffidenza prima nei confronti dei marocchini, poi verso gli albanesi e attualmente verso i romeni, seppure con toni fortemente ridimensionati rispetto al biennio 2007-2008.
Diversi sono stati gli approfondimenti condotti dai redattori Caritas Migrantes:
• per gli albanesi (2008) è stato mostrato che la loro stigmatizzazione è continuata per forza di inerzia anche negli anni 2000 quando, stabilizzatisi i flussi, la loro rilevanza nelle statistiche criminali è risultata in realtà fortemente ridimensionata;
• per i romeni (2008 e 2010) la progressione accusatoria ha continuato a essere accentuata, nonostante le statistiche continuino ad attestare un loro coinvolgimento più ridotto rispetto alla generalità degli immigrati;
• per gli africani (2010), almeno relativamente alle maggiori collettività, si è visto che sussistono problemi quanto alla loro implicazione sia nella criminalità comune sia in quella organizzata, fenomeni che meritano di essere approfonditi nelle loro cause e nei loro dinamismi, mettendo in atto adeguate strategie di recupero.
• a loro volta, i rom sono stati, sono e forse continueranno ad essere il gruppo maggiormente discusso, non raramente al di là delle loro specifiche colpe: mai provata, e anzi del tutto smentita da un’apposita indagine della Fondazione Migrantes, è l’accusa di rapire i bambini.
Ma i timori e il senso di insicurezza degli italiani dipendono in prevalenza da altri fattori, considerato che:
1. la criminalità in Italia è aumentata in misura contenuta negli ultimi decenni, nonostante il forte aumento della popolazione straniera, e addirittura è andata diminuendo negli anni 2008 e 2009;
2. il ritmo d’aumento delle denunce contro cittadini stranieri è molto ridotto rispetto all’aumento della loro presenza, per cui è infondato (e non solo per il Dossier) stabilire una rigorosa corrispondenza tra i due fenomeni: ciò si desume anche, per quanto riguarda le diverse province, dalla raccolta statistica curata per i Consigli territoriali per l’immigrazione nell’ambito del Fondo Europeo per l’Integrazione (2010) e, per quanto riguarda le principali collettività di immigrati (con alcune eccezioni), dal Rapporto del Cnel sugli indici di integrazione (2010);
3. il Rapporto del Cnel ha mostrato che il tasso di criminalità addebitabile agli immigrati venuti ex novo nel nostro paese, quelli su cui si concentrano maggiormente le paure, è risultato, nel periodo 2005-2008, più basso rispetto a quello riferito alla popolazione già residente;
4. il confronto tra la criminalità degli italiani e quella degli stranieri, attraverso una metodologia rigorosa basata sulla presa in considerazione di classi di età omogenee, ha consentito di concludere che gli italiani e gli stranieri in posizione regolare hanno un tasso di criminalità simile;
5. lo stesso coinvolgimento criminale degli immigrati non autorizzati al soggiorno, innegabile, di difficile quantificazione e spesso direttamente legato alla stessa irregolarità della presenza e alle difficili condizioni di vita che ne conseguono, va esaminato con prudenza e con rigore in un paese in cui entrano annualmente decine di milioni di stranieri come turisti o per altri motivi.
Queste linee interpretative non devono portare ad “abbassare la guardia”, bensì a vincere i preconcetti e a investire maggiormente sulla prevenzione e sul recupero, coinvolgendo i leader associativi degli immigrati, come avvenuto nel passato con positivi risultati tra i senegalesi.
Trafficanti, regole e diritto d’asilo
Irregolarità e politica migratoria. Nel Dossier 2010 si parla anche di sbarchi e di irregolari, senza sottacere gli aspetti problematici, ma anche senza perdere il riferimento ai dati e il senso delle proporzioni.
Tutte le persone di buon senso riconoscono la necessità di controllare le coste, evitando che esse diventino l’attracco per i trafficanti di essere umani e la base per i loro lucrosi commerci (2,5 miliardi di dollari nel mondo, secondo l’Onu). Questo rigore, però, va unito al rispetto del diritto d’asilo e della protezione umanitaria, di cui continuano ad avere bisogno persone in fuga da situazioni disperate e in pericolo di vita. Il contrasto degli sbarchi non deve far dimenticare che nella stragrande maggioranza dei casi all’origine dell’irregolarità vi sono gli ingressi legali in Italia, con o senza visto, di decine di milioni di stranieri che arrivano per turismo, affari, visita e altri motivi. Rispetto a questi flussi imponenti, e non eliminabili, anche la punta massima di sbarchi raggiunta nel 2008 (quasi 37mila persone) è ben poca cosa.
Risulterà inefficace il controllo delle coste marittime, come anche di quelle aeree e terrestri, se non si incentiveranno i percorsi regolari dell’immigrazione. Non è in discussione la necessità di regole bensì la loro funzionalità. Ciò induce a ripensare in maniera innovativa la flessibilità delle quote, le procedure d’incontro tra datore di lavoro e lavoratore, il tempo messo a disposizione per la ricerca di un nuovo posto di lavoro (che si potrebbe ampliare tenendo conto dei periodi di integrazione salariale o disoccupazione indennizzata). In effetti, è disfunzionale costringere ad andar via lavoratori già ben inseriti, e in grado di ritrovare un posto di lavoro dopo la crisi, oppure costringerli di fatto a incrementare l’area del lavoro irregolare (il 12,2% del totale, secondo l’Istat). Lascia, perciò, perplessi constatare che diversi enti locali abbiano destinato fondi per il loro allontanamento, oltretutto con scarsa efficacia, come si è visto anche in Spagna. Sembra, invece, auspicabile estendere i rimpatri assistiti a favore degli irregolari, come raccomandato dalla stessa Commissione europea, trasformando il ritorno di chi non ha avuto sbocco o successo nell’immigrazione in un investimento positivo per i paesi di origine.
Seguendo un’ottica realistica, Eurostat ha precisato che il miraggio di una “immigrazione zero” in mezzo secolo farebbe perdere all’Italia un sesto della sua popolazione. Perciò, se l’immigrazione è funzionale allo sviluppo del paese, l’agenda politica è chiamata a riflettere sugli aspetti normativi più impegnativi, come quelli riguardanti la cittadinanza e le esigenze di partecipazione di questi nuovi cittadini, in particolare se nati in Italia. È questa la strada più fruttuosa sotto tutti i punti di vista, economico e occupazionale non meno che culturale e religioso. Ed è per questo che il Dossier 2010 pone a tutti la domanda: e se mancasse, in realtà, la cultura dell’altro?
Sono molti ? Sono troppi?
I numeri fondamentali dell’immigrazione. All’inizio del 2010 l’Istat ha registrato 4 milioni e 235mila residenti stranieri, ma, secondo la stima del Dossier, includendo tutte le persone regolarmente soggiornanti seppure non ancora iscritte in anagrafe, si arriva a 4 milioni e 919mila (1 immigrato ogni 12 residenti). L’aumento dei residenti è stato di circa 3 milioni di unità nel corso dell’ultimo decennio, durante il quale la presenza straniera è pressoché triplicata, e di quasi 1 milione nell’ultimo biennio.
Intanto, però, complice la fase di recessione, sono cresciute anche le reazioni negative.
Gli italiani sembrano lontani, nella loro percezione, da un adeguato inquadramento di questa realtà. Nella ricerca Transatlantic Trends (2009) mediamente gli intervistati hanno ritenuto che gli immigrati incidano per il 23% sulla popolazione residente (sarebbero quindi circa 15 milioni, tre volte di più rispetto alla loro effettiva consistenza) e che i “clandestini” siano più numerosi dei migranti regolari (mentre le stime accreditano un numero tra i 500mila e i 700mila). Su questa distorta percezione influiscono diversi fattori, tra i quali anche l’appartenenza politica.
La Lombardia accoglie un quinto dei residenti stranieri (982.225, 23,2%). Poco più di un decimo vive nel Lazio (497.940, 11,8%), il cui livello viene quasi raggiunto da altre due grandi regioni di immigrazione (Veneto 480.616, 11,3%) e Emilia Romagna (461.321, 10,9%), mentre il Piemonte e la Toscana stanno un po’ al di sotto (rispettivamente 377.241 e 8,9%; 338.746 e 8,0%). Roma, che è stata a lungo la provincia con il maggior numero di immigrati, perde il primato rispetto a Milano (405.657 rispetto a 407.191).
L’incidenza media sulla popolazione residente è del 7%, ma in Emilia Romagna, Lombardia e Umbria si va oltre il 10% e in alcune province anche oltre il 12% (Brescia, Mantova, Piacenza, Reggio Emilia, Prato).
Le donne incidono mediamente per il 51,3%, con la punta massima del 58,3% in Campania e del 63,5% a Oristano, e quella più bassa in Lombardia (48,7%) e a Ragusa (41,5%).
Il “rischio etnico”
Tra demografia, intercultura e contrasto della irregolarità. Gli immigrati assicurano un valido sostegno demografico all’Italia. Tra la popolazione residente in Italia, tra il 2000 e il 2009 sono aumentate di 2 milioni le persone con più di 65 anni, di solo 1 milione quelle in età lavorativa e neppure di mezzo milione quelle con meno di 14 anni. L’età media è salita da 31,5 a 43,3 anni. Gli ultrasessantacinquenni sono il 2,2% tra gli stranieri e il 20,2% tra l’insieme della popolazione residente. Il tasso di fecondità è di 1,33 per le donne italiane e di 2,05 per le donne straniere (media 1,41).
I matrimoni celebrati in Italia sono scesi dai 418.944 del 1972 ai 246.613 del 2008, con una diminuzione specialmente delle prime nozze, un aumento delle seconde (un sesto del totale) e dell’età media degli sposi (30 anni per le donne e 33 anni per gli uomini). Nel periodo 1996-2008 sono stati celebrati 236.405 matrimoni misti. Nel 1995 erano misti solo 2 matrimoni su 100, ora sono 10 su 100 e non risulta statisticamente fondata l’idea che falliscano con molta più facilità del resto delle unioni. Nel 2008 su 100 matrimoni, 15 riguardano almeno un coniuge straniero e di questi 5 riguardano due sposi stranieri.
Secondo i dati dell’Unar gli atti di discriminazione, non solo in ambito lavorativo, colpiscono maggiormente gli africani, i romeni, i cinesi, i marocchini, i bangladesi. Ricordiamo, per esempio, che alcune compagnie di assicurazione praticano agli immigrati polizze RC auto più costose per il cosiddetto “rischio etnico”.
La regolarizzazione di settembre 2009 (quasi 300mila domande) ha consentito di abbassare il livello della irregolarità, anche se il provvedimento, limitato (ufficialmente) al settore familiare, ha avuto una efficacia parziale, per quanto non trascurabile, soprattutto in ragione del limite di reddito previsto (20 mila euro: limite che è stato superato mediamente nel 2008 solo da due regioni), oltre che per il fatto che l’assunzione, per un minimo 20 ore, è stata riferita a un solo datore di lavoro; non stupisce quindi che, secondo il Censis (luglio 2010), 2 addette su 5 nel settore domestico lavorerebbero ancora in nero.
Nel 2009 sono stati registrati 4.298 respingimenti e 14.063 rimpatri forzati, per un totale di 18.361 persone allontanate. Le persone rintracciate in posizione irregolare, ma non ottemperanti all’intimazione di lasciare il territorio italiano, sono state 34.462. Il rapporto tra persone intercettate e persone rimpatriate è andato diminuendo nel corso degli anni (dal 57% nel 2004 al 35% nel 2009). Le persone trattenute nei centri di identificazione e di espulsione sono state 10.913, tra le quali diverse già ristrette in carcere, dove non era stata accertata la loro identità. Nell’insieme il 58,4% delle persone trattenute nei CIE non è stato rimpatriato.
L’Italia è anche uno snodo e meta forzata per donne, uomini e minori, vittime della tratta a fini di sfruttamento sessuale e, sempre più spesso, lavorativo (soprattutto in agricoltura), che si cerca di contrastare anche con la concessione del permesso di soggiorno per protezione sociale (810 permessi) e con l’intervento del Fondo Europeo per i Rimpatri. Nel corso del 2009 sono stati aperti 212 procedimenti per reati di tratta, e si sente l’esigenza di contrastare maggiormente questo fenomeno in crescita.
|