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Novembre/2010 - Interviste
Giustizia
Un giudice a pendenze zero
di a cura di Michele Turazza

Nel ricordo di Rosario Livatino della sua insegnate
del Liceo, Ida Abate, un dettaglio
significativo: la fedeltà assoluta al dovere. Ogni
volta che passava da un ufficio all’altro,
non lasciava nulla di incompiuto alle spalle


Era il 21 settembre del 1990 quando, nella secca sterpaglia a fianco della superstrada Agrigento – Canicattì, veniva ucciso con inaudita ferocia il giudice Rosario Livatino, di appena 37 anni. Magistrato integerrimo, coltissimo ed onesto, aveva fatto del rispetto della legge e della fedeltà alle Istituzioni il suo stile di vita.
Così lo ha ricordato un altro “giudice ragazzino”, Luca Tescaroli (Sostituto Procuratore a Roma), in occasione del dodicesimo anniversario della sua morte: “Egli sapeva bene i rischi che correva ma rimase al suo posto nonostante le minacce e gli avvertimenti, l’assenza dei mezzi, le singolari prudenze dei superiori e il senso di impotenza. Un eroe moderno cui il nostro Paese, senza retoriche celebrative, deve essere profondamente grato e che non può essere dimenticato per la sua lezione di professionalità e dignità. Grato, innanzitutto, per aver testimoniato un insegnamento decisivo in ogni tempo: il proprio dovere non può essere condizionato dall’interesse personale, dal compromesso e dall’esistenza di pericoli. La paura, sulla quale prosperano la mafia e l’omertà, può essere sconfitta. Quell’assassinio scosse il Paese e rappresentò la causa determinante per far approvare, nel gennaio del 1991, la prima normativa sui collaboratori di giustizia che, dando dignità giuridica all’istituto, ha fattivamente contribuito ad arginare il potere mafioso e a ottenere gli straordinari risultati in termini di condanne, cattura di latitanti e rinvenimento di armi ed esplosivi. L’anniversario di quell’atroce delitto offre anche l’occasione a tutti i cittadini e ai rappresentanti delle Istituzioni per riflettere sulla realtà che oggi viviamo, caratterizzata da una magistratura socialmente isolata e invisa al potere, e da una fase di ciclo basso della lotta alla mafia”.
Per non dimenticare Rosario Livatino, abbiamo incontrato la sua professoressa di latino e greco del liceo. Ormai da vent’anni, Ida Abate incontra i giovani delle scuole di tutta Italia, cercando di trasmettere loro la nobilissima eredità morale del “giudice ragazzino”, convinta che “nell’attuale sovvertimento di valori e nel generale disorientamento delle coscienze, sommessamente, conformemente al suo stile, Rosario Livatino lancia un messaggio che può aiutare a rimontare la china” (dal libro “Il piccolo giudice. Fede e giustizia in Rosario Livatino”, di I. Abate, prefazione di Oscar Luigi Scalfaro, Editrice Ave).

Professoressa Abate, lei è stata insegnante di Rosario Livatino: che studente era?
Era uno studente splendido, credeva profondamente nello studio. Si impegnò sempre assiduamente, con la massima serietà e costanza. Intendeva lo studio come attività utilissima non soltanto per lui, ma per tutta la collettività, e questo lo rendeva estremamente disponibile nei confronti dei compagni di classe, sempre pronto ad aiutarli; tutti ricordano le spiegazioni date da Rosario sulle varie discipline e la sua modestia e cortesia con cui si rendeva utile a chiunque avesse bisogno. Amava particolarmente storia e filosofia, ma andava bene in tutte le materie: nella pagella di seconda liceale non riportò neppure un voto inferiore al nove.

Com’è maturata la sua scelta di iscriversi, dopo il liceo, alla facoltà di Giurisprudenza?
Quando in terza liceo chiesi ai miei ragazzi a quale corso di laurea avessero pensato di iscriversi, Rosario si dimostrò fin da subito molto deciso: senza dubbio Giurisprudenza. Mi spiegò che quando era bambino, mentre giocava, stava molto attento ai racconti del nonno, socialista, che era stato sindaco di Canicattì. Era molto affascinato dal modo in cui aveva difeso i deboli dai cosiddetti “don Rodrigo” e dai potenti di turno, esistenti allora (e purtroppo ancor oggi!): maturò fin da piccolo il desiderio di voler difendere la collettività, che poi realizzò scegliendo di fare il magistrato.

Cos’era la Giustizia per Rosario?
Era strumento di garanzia dei più alti ed essenziali valori umani e cristiani. Valori che oggi, purtroppo, sono impunemente calpestati ogni giorno.

Qual è l’insegnamento che Rosario ci ha lasciato?
Senza retorica: la fedeltà assoluta al dovere. Qui c’è tutto Rosario. Mi impressionò il fatto che sulle sue agende, sia quando lasciò l’Ufficio del Registro sia quando passo dalla magistratura requirente a quella giudicante, ci fosse scritto: pendenze zero. Se tutti lavorassero così, il nostro Paese cambierebbe completamente.

Come intendeva Rosario la funzione del magistrato e la sua indipendenza?
Per lui era indispensabile l’indipendenza del magistrato da tutti i poteri, e soprattutto dai cosiddetti “poteri forti”, ma senza cedere alle istanze delle parti deboli, che vanno difese nei limiti consentiti dalla legge.

Cosa direbbe ai giovani d’oggi?
Date il meglio di voi stessi sempre, ovunque. Soprattutto nel campo dello studio e del lavoro.

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