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Novembre/2010 - Articoli e Inchieste
Problema energetico
Inutile e rischioso il ritorno al nucleare
di Monica Centofante

Nessuno è in grado di calcolare il costo economico
di una centrale atomica e nessuno ha ancora
risolto il problema dello smaltimento delle scorie che sono
sostanzialmente ineliminabili. E poi c’è la questione
dell’aumento della radioattività registrata nei luoghi
in cui si trovano le centrali, l’alterazione climatica, il notevole
quantitativo di acqua a loro necessario. Queste ed altre
questioni nel libro inchiesta “La menzogna nucleare”
di Giulietto Chiesa, Guido Cosenza e Luigi Sertorio


La decisione del governo Berlusconi di riaprire al nucleare giunge in un momento particolarmente delicato nella storia del nostro pianeta: quando l’umanità ha smesso di essere immortale.
L’illusione di un progresso senza limiti in un sistema finito di risorse si è manifestata in tutta la sua drammaticità nel corso della Conferenza mondiale sui mutamenti climatici tenutasi a Copenaghen lo scorso dicembre 2009. L’appuntamento più atteso del dopo Kyoto. Il vertice organizzato con i principali obiettivi di trovare un accordo tra Stati per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e mantenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi.
Grandi speranze, dissolte in dichiarazioni genericamente ottimiste di impegni futuri, ma di pochi impegni immediati; “lo specchio di enormi difficoltà politiche, economiche e psicologiche ancora tutte da superare”.
Giulietto Chiesa, giornalista e fondatore di Alternativa, di fronte a quella conclusione non è rimasto sorpreso. Nella “distrazione generale”, ha ricordato, l’appuntamento clou “è stato preceduto da un altro appuntamento, destinato a determinare l’esito dell’incontro mondiale successivo”. Quello del governo danese che nel maggio del 2009 ha organizzato il World Business Summit, un vertice del gotha degli affari e della finanza. “Insomma, di tutti coloro che hanno in mano le leve del comando reale della politica mondiale”. Il messaggio lanciato nel corso dell’incontro e racchiuso nel documento The Copenaghen Call è limpido: il mercato non rinuncerà all’idea di crescita illimitata nella speranza che la tecnologia risolva nel frattempo tutti i problemi presenti e futuri. Come, però, non è ancora chiaro. E di fronte alla urgente necessità di ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica e di trovare sostituti alle risorse non rinnovabili in via di esaurimento la folle chimera è proprio il ricorso all’energia nucleare. Ribattezzata energia pulita.
Il governo italiano, in spregio al referendum storico del 1987, all’attuale volontà popolare e alle ferite ancora aperte sul nostro territorio disseminato di scorie ha già detto sì. E a luglio del 2009 ha varato un programma di costruzione di quattro centrali le quali però, contrariamente alla rassicurante idea offerta dal mainstream mediatico, non risolveranno il problema energetico e complicheranno di molto quello ambientale. Tema complesso, che si scontra con la campagna di disinformazione e propaganda operata dai soliti noti: gli interessi economici, militari, politici e sociali. E nella confusione generale per ristabilire l’ordine è necessario, come sempre, ancorarsi ai fatti.
La menzogna nucleare [Edizioni Ponte alle Grazie, E 12], il libro di Giulietto Chiesa e di Guido Cosenza e Luigi Sertorio, personalità illustri nel campo della fisica, è in grado di soddisfare questa necessità. Fornendo anche al lettore sprovvisto delle basiliari conoscenze scientifiche gli strumenti idonei a formulare un proprio pensiero critico per sfuggire alle manipolazioni mediatiche. Partendo da alcuni assunti essenziali: primo, non è possibile esaminare l’uso civile dell’energia nucleare separatamente da quello militare; secondo, l’impresa nucleare implica costi insostenibili; terzo, e non per importanza, l’impatto zero sull’ambiente e sull’uomo è solo una leggenda. I dati, a volerli leggere, lo dimostrano: il resto è tutto un colossale inganno.
Nucleare pulito?
Gli scienziati lo chiamano overshooting: in parole povere la saturazione dell’ecosistema, non più in grado di reggere i ritmi dello sviluppo senza limiti. Da circa 30 anni l’uomo sta distruggendo l’ambiente nel quale vive consumando degli idrocarburi bruciandone così tanti da generare una quantità enorme di anidride carbonica nell’ordine di circa 50 miliardi di tonnellate l’anno.
La conseguenza di tali scelte sarà l’ulteriore innalzamento della temperatura del pianeta, che supererà i 2 gradi centigradi provocando una serie di catastrofi impossibili da dominare con gli attuali strumenti a disposizione. Una situazione di emergenza estrema che imporrebbe scelte drastiche e il passaggio immediato alle energie alternative e rinnovabili mentre la classe politica mondiale, incapace di vedere il baratro di fronte a sé, punta incredibilmente al nucleare civile. Dipinto come sostituto di ogni strategia di sviluppo sostenibile.
L’azione di propaganda che giustifica la scelta agli occhi dell’opinione pubblica fa leva proprio sulla produzione di CO2: il nucleare, a differenza dei combustibili fossili, dicono, non produce anidride carbonica e vista la carenza delle risorse attualmente utilizzate permette di soddisfare tutte le esigenze dei consumatori nella “fase immediata” che ci separa dalla messa a punto di quelle tecnologie che permetteranno l’utilizzo su larga scala delle energie rinnovabili. Argomentazioni all’apparenza convincenti, ma nella sostanza estremamente deboli e tremendamente pericolose.
Se è vero che con il nucleare le emissioni di CO2 vengono ridotte, spiega infatti Guido Cosenza, vero è anche che nella lunga fase di costruzione, rifornimento, operatività e dismissione di una centrale nucleare diversi sono i danni e i rischi, mentre nell’ambiente si introducono sostanze radioattive “che creano alterazioni nocive, il cui contenimento è problematico e oltrettutto oneroso”.
La prova è nell’aumento della radioattività registrata nei pressi delle centrali nucleari: un fenomeno “originato dalla inevitabile fuoriuscita di sostanze (in prevalenza gassose, ma anche liquide) dotate di attività radioattiva”.
Il 63% dell’energia prodotta per via nucleare, una percentuale altissima, viene infatti dispersa sottoforma di calore: rilasciato nell’ambiente allo stato di vapore acqueo che contribuisce all’effetto serra o raffreddato con l’utilizzo di risorse idriche.
Nel secondo caso, le centrali costruite in prossimità del mare o di laghi causeranno una “rilevante alterazione dei cicli biologici costieri o lacustri, con il rischio di provocare l’estinzione di specie animali o di varietà vegetali, dato il notevole quantitativo di calore da smaltire e il conseguente innalzamento della temperatura dell’acqua in una ampia estensione costiera o lacustre”.
Se costruite in zone interne, invece, renderanno necessario “il ricorso a ingenti quantitativi di acqua, non riutilizzabile data la contaminazione dovuta alla immissione di additivi, principalmente anti-corrosivi”. Una scelta che ha “come conseguenza l’erosione delle riserve idriche, in un’epoca in cui se ne prevede un deficit crescente”.
Detto ciò è facile dedurre che gli effetti sulla popolazione non saranno leggeri e i numeri ci danno già tristemente ragione: nelle località abitate poste nelle vicinanze di centrali nucleari le malattie tumorali registrate sono decisamente al di sopra della media. Un dato che da solo dovrebbe bastare a smentire il concetto di nucleare pulito. Se a questo si aggiunge il rischio di incidenti, non troppo remoto, la curva dell’incertezza si innalza vertiginosamente: solo la Commissione nucleare francese (EdF) ne ha registrati 10.000 tra il 1986 e il 2006. E anche se “nessuno di questi - sottolinea Cosenza - ha causato alterazioni fuori dall’impianto nucleare” è vero che “un evento devastante come quello di Chernobyl può essere innescato da un incidente più lieve, apparentemente controllabile, ma in occasione del quale gli apparati predisposti per il controllo non funzionino, oppure siano mal governati da un errato intervento umano”.
Fin qui ciò che accade mentre la centrale è in funzione, ma quando cessa la sua attività i rischi non cessano con lei.
La dismissione delle strutture, annotano gli autori, è un problema aperto. I depositi di stoccaggio definitivo praticamente non esistono e un po’ ovunque il combustibile esaurito è rimasto nelle piscine di contenimento in cui, sulla carta, è previsto che venga riposto per un periodo intermedio: mentre si attenua il surriscaldamento e si riduce la radioattività dei prodotti a vita medio-breve. L’effetto di tale ritardo ha prodotto la corrosione delle piscine stesse, cosa che è avvenuta anche all’interno delle centrali dismesse e di fatto mai completamente smantellate, “con conseguente rilascio di percolati che contaminano terreni e falde acquifere”.
In quanto allo stoccaggio delle scorie, prosegue Cosenza, il valore stimato perché cessino di essere radioattive varia, a seconda della tipologia, da 300.000 a 1 milione di anni. E considerato che un reattore nucleare ne produce in media 25 tonnellate l’anno il calcolo è presto fatto.
Per il momento, l’unico Paese ad aver scelto la località di stoccaggio e avviato i lavori di scavo è la Finlandia, che secondo i programmi dovrebbe iniziare le operazioni di deposito nel 2020.
Gli altri Stati sono in una fase di studio più o meno avanzata e tra questi l’Italia, che “apre un nuovo capitolo senza che il capitolo precedente, vecchio di oltre un ventennio, sia stato chiuso”. Giulietto Chiesa pone l’accento sulle strutture mai totalmente smantellate presenti sul nostro territorio: “Non soltanto le quattro centrali nucleari”, ma anche “gli impianti del ciclo di combustibile ex Enea”.
“La creazione di un ‘sito unico nazionale per la raccolta delle scorie - dice - non è stato neppure abbozzato, per l’immediata opposizione delle popolazioni interessate”. “Ma le scorie esistono e, come sappiamo, non sono eliminabili”. Secondo i dati ufficiali, nel 2003 i metri cubi di sostanze radioattive non ancora poste in condizioni di massima sicurezza ammontava a 58.000 e la media prodotta attualmente dalle strutture sanitarie e dai centri di ricerca è di 500 tonnellate.
Con il ritorno del nucleare il dato aumenterà vertiginosamente e con esso le conseguenze. Che incideranno anche sul fattore economico.

Parliamo di affari
Il costo reale di una centrale nucleare nessuno è in grado di calcolarlo e il motivo è semplice: perché una volta costruita, quella centrale “è per sempre”.
Abbiamo detto, nel caso del nostro Paese, che gli impianti dismessi nel 1987 sono ancora da smantellare, il che implica una serie di costi tra cui l’impiego di centinaia di tecnici, ma il discorso può essere allargato su scala internazionale. Per stabilire se sia conveniente o meno la costruzione di centrali che sfruttano energia atomica occorre quindi tenere conto di questo dato e di una serie di molti altri.
Nell’analizzare le “voci di bilancio” gli autori partono dall’edificazione dell’impianto che, se tutto va per il meglio, ha una durata che varia dai 7 ai 10 anni. La costruzione del primo reattore nucleare civile - scrivono - risale al 1954. Nel 1989 gli impianti in funzione erano ben 423, ma da quella data ad oggi la crescita si è quasi arrestata, tanto che al 2009 le centrali in funzione sono 435. Il motivo del deciso rallentamento risede in diversi fattori. Il primo è proprio quello economico: in seguito agli incidenti di Three Mile Island (1979) e Chernobyl (1986) il risvegliato allarme dell’opinione pubblica ha imposto il potenziamento dei sistemi di sicurezza con conseguente lievitazione dei costi. E se nel 1970 la realizzazione di un impianto negli Stati Uniti costava 400 milioni di dollari, nel 1990 il costo era salito a 4.000 e i tempi di costruzione risultavano raddioppiati.
A fronte dei tempi di edificazione il reattore nucleare non ha però una lunga vita: la sua attività è calcolata in 40 anni, ma in realtà la media reale non supera i 25, a seguito dei quali inizierà l’opera di dismissione con relativi controlli che dureranno decine di migliaia di anni. Senza contare che in quest’ultima fase si presenterà il problema delle scorie, triste eredità che lasceremo alle generazioni future insieme al loro carico di morte e al conseguente elevato costo sociale.
Per stabilire o meno la convenienza del progetto occorre quindi fare una media complessiva delle tre fasi e “in molti - interviene Cosenza - siamo dell’opinione che, se si procedesse alla monetizzazione di queste incombenze, il bilancio sarebbe tragicamente negativo”.
I problemi però non finiscono qui.
A tutt’oggi il numero dei reattori spenti è pari a 119 e nel 2015 altre 93 unità si aggiungeranno alla lista. Per quella data è prevista la costruzione di soli 23 nuovi impianti, un numero decisamente insufficiente a produrre l’energia che attualmente consumiamo e la situazione si aggraverà nel 2025 quando il totale degli impianti di cui avremo bisogno salità a 192.
Con i mezzi attualmente a disposizione costruirli sarà però praticamente impossibile: tra le altre cose, per la mancanza dei tempi tecnici necessari (considerato anche che tutti i progetti portati a termine nell’ultimo periodo hanno sofferto di forti ritardi) e, vista la crisi, per ragioni squisitamente economiche.
Non solo. Secondo le stime la disponibilità di uranio necessario a fornire le centrali attualmente in funzione non può superare gli ottant’anni e di fronte alla scarsità delle risorse gli esperti rispondono con la tesi rassicurante delle centrali di quarta generazione: “Il procedimento ideato - spiega ancora Cosenza - si avvarrebbe di un meccanismo, innescato dalla radiazione circolante nel core del reattore, in grado di produrre la trasmutazione dei nuclei atomici inattivi in materiale fissile. Come conseguenza si raggiungerebbe l’ambito traguardo di spostare la data di esaurimento delle scorte di uranio di svariate centinaia di anni”. Peccato che “i dispositivi menzionati esistono solo nella mente di un gruppo di sperimentatori, che promette di metterli a punto commercialmente non prima di una quarantina d’anni. Dunque il tema relativo alla presunta convenienza dell’installazione di filiere di nuova progettazione non è di attualità, lo sarà se l’operazione andrà in porto, e in tal caso solo a quel tempo potremo fare delle valutazioni di rischi e opportunità, prendendo in considerazione le caratteristiche dei sistemi proposti e la situazione dell’economia e dell’ambiente”.
Tirate le somme c’è dunque poco da stare tranquilli e la cartina di tornasole è il mercato: allo stato attuale nessun consorzio industriale privato ha mai considerato la costruzione di una centrale nucleare come una impresa remunerativa sul piano economico, tanto che non ha mai pensato di costruire un impianto senza una copertura statale. Il motivo, conclude Cosenza, è che “nessun privato intende permettersi il lusso di violare il mercato. Lo Stato lo può fare temporaneamente e lo fa impunemente, in quanto accolla le perdite ai cittadini. C’è da chiedersi perché lo faccia”.

Nucleare civile o nucleare militare?
Esaminare l’uso pacifico dell’energia nucleare indipendentemente dal suo uso militare è un errore grossolano. E ne sono convinti gli autori del libro che ripercorrono gli anni della Guerra Fredda e il braccio di ferro fra Stati Uniti e Unione Sovietica, giocato proprio sul tavolo del nucleare.
D’altronde, annota Luigi Sertorio, “le scelte, e le realizzazioni delle tecnologie di frontiera storicamente, sono sempre state militari”: dalle “macchine che si muovono sulla terra, che galleggiano, che volano”, “alla triangolazione satellitare che mappa ogni punto del pianeta con precisione spazio-temporale estrema, figlia della meccanica quantistica (orologio atomico)” il cui proposito originario è “la guida missilistica”.
In questo senso il settore della tecnologia nucleare non fa eccezione, anzi, ne è il più vistoso esempio.
Fin dall’inizio associare al progetto militare un programma di espansione industriale nel campo del nucleare civile è apparso estremamente vantaggioso. Tanto che il processo produttivo inerente l’arricchimento dell’uranio per uso civile è lo stesso di quello utilizzato per uso militare con conseguente allargamento del processo produttivo e ammortamento dei costi.
Fin dall’inizio, ancora, Stati Uniti da una parte e Urss dall’altra, per dirla con Giulietto Chiesa, hanno giocato una partita estenuante “per la sopravvivenza fisica dell’uno o dell’altro campo, che impegnò energie e mezzi di tale portata da sfiancare (e alla fine far crollare) uno dei due contendenti”. E se è vero che il brusco rallentamento che seguì a quella fase e agli incidenti di Chernobyl e Three Mile Island aveva ragioni economiche, vero è anche che non possono essere escluse quelle politiche. Alla fine degli anni Ottanta, dopo la caduta dell’impero sovietico, inizia l’opera di disarmo, e in contemporanea si ha l’arresto del nucleare civile. “Per quanto concerne la Russia, non più Unione Sovietica, il collasso economico-sociale che seguì quello politico del 1991 s’incaricò di stroncare ogni programma militare, sia di tipo convenzionale che nucleare”. E “non a caso, dai documenti statunitensi che fissavano le strategie della sicurezza nazionale di quegli anni, sparì quasi completamente ogni riferimento alla minaccia nucleare strategica da parte dell’altra potenza che ‘non c’era più’”.
Da quel momento in poi, per un lungo periodo, gli Stati Uniti avrebbero dominato incontrastati la scelta politica mondiale, fino alla fine del secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila quando sul fronte asiatico sarebbero emerse due potenze economiche in forte ascesa: la Cina e l’India, “entrambe impegnate nella costruzione di un proprio arsenale, inclusa la sua componente nucleare militare. Due giganti in crescita vorticosa e ormai chiaramente destinati a imprimere il proprio marchio su quel secolo ventunesimo che Bill Clinton per primo aveva incautamente osato definire ‘americano’”. Guarda caso, prosegue Chiesa, è in concomitanza con il prospettarsi di questo nuovo scenario - che si allarga anche ad altri Paesi come l’Iran o Israele - che Stati Uniti e Russia hanno ripreso a programmare la crescita e lo sviluppo delle tecnologie militari nucleari. Riportando al centro del dibattito la questione del nucleare civile. “Vladimir Putin (adducendo come causa la necessità di pensare al futuro, all’esaurimento prevedibile degli idrocarburi) annuncia nel 2007 un programma di costruzione di ventuno nuove centrali atomiche” e “durante la campagna presidenziale del 2008, John McCain promette quarantacinque nuovi impianti nucleari per il 2030, alludendo alla possibilità che si arrivi addirittura a cento nuove centrali”.
Più tardi l’eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama, più modestamente, avrebbe dichiarato: “E’ improbabile che noi possiamo raggiungere i nostri elevati obiettivi climatici se eliminiamo dal tavolo l’energia nucleare”. E intanto, nel 2007, vengono programmate in nord America 7 nuove centrali nucleari e secondo notizie non ufficiali altre ancora nel 2008.

Povera Patria
In questo inquietante scenario mondiale pensare che l’Italia possa costruire autonomamente un proprio arsenale bellico con armamenti nucleari è assolutamente irrealistico. Un progetto che fallisce in partenza, concordano gli autori, ma che come abbiamo visto non sarà privo di conseguenze.
Il Bel Paese, riprende Luigi Sertorio, “è quasi completamente escluso dalla dinamica nucleare dell’impero americano: non ha potere decisionale all’interno dell’impero e, a partire dal 1945, non controlla i canali che convogliano gli investimenti nella tecnologia e i relativi canali di ritorno del denaro”. Una volta costruita la centrale, infatti, il rifornimento del combustibile “entra a far parte di una complessa gestione internazionale di cui l’Italia non è protagonista; ciò implica altre spese indirizzate all’estero”, che vanno ad aggiungersi a quelle già affrontate per l’utilizzo dei brevetti visto che la cosiddetta filiera nucleare non esiste più dagli anni Settanta e solo pochi Stati sono detentori del know-how.
La scelta di tornare al nucleare provocherà quindi, per noi, solo nuove spese, nuova dipendenza economica ed energica e altrettanta consequenziale dipendenza politica. In Italia, inoltre, sono pochissimi i siti in cui è possibile installare le centrali e mentre si pensa di affidarsi alla vecchia mappa stilata dal Cnen negli anni Settanta non si tiene conto dei cambiamenti climatici che rendono oggi molte di quelle zone non più praticabili.
I rischi a cui si va incontro sono dunque drammatici e denotano in modo inquietanta il divario tra le scelte politiche e la vita reale. La fisica nucleare “è terreno totalmente ignoto agli uomini che per professione si dedicano alla politica”. E “questo non sarebbe un gran male - annota ancora Sertorio - se la scienza e la tecnologia, non solo quella nucleare, fossero patrimonio dell’umanità. Ma non è così. Le invenzioni della tecnologia sono usate da uomini che non sanno come sono nate né che conseguenze avranno, ma che sanno benissimo come fare a impadronirsene per vantaggio proprio, escludendo gli altri”. La storia è piena di questi esempi e delle conseguenze a cui hanno portato. Ma se è vero che imparare dagli errori appartiene al processo di apprendimento del singolo individuo nell’intervallo di tempo della propria vita, vero è anche che tale capacità non appartiene alla collettività. E immaginiamo il significato di questo assunto in un campo delicato come quello dell’energia nucleare, che implica l’assunzione di responsabilità estese nel tempo, verso le generazioni future.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha dichiarato lo scorso settembre all’Assemblea generale che “abbiamo meno di dieci anni per evitare scenari peggiori” in tema di riscaldamento globale. E se il pronostico è reale i dati raccolti da numerose organizzazioni non governative escludono a priori che il nucleare civile possa risolvere il problema: se vi fosse anche una massiccia espansione, fino a quattro volte l’attuale situazione - spiegano - da qui al 2050 si otterrebbe una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra inferiori al 5%. Troppo poco e troppo tardi.
L’unica soluzione rimangono quindi le energie rinnovabili e un atteggiamento diverso della specie umana che da agente infestante, nella definizione di Sertorio, deve necessariamente diventare specie coesistente. Con se stessa e con la natura. La scimmia al comando non lo capisce e come titola Giulietto Chiesa nell’ultimo paragrafo del libro: tutte le inquietudini sono giustificate.

[Per gentile concessione
di AntimafiaDuemila N. 2/2010]
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E con l’uranio niente autonomia

L’uranio da utilizzare come combustibile è l’uranio 235, che è lo 0,7% del totale dell’uranio che si estrae e per usarlo devono utilizzare quelle “centrifuche” che ci mostrano spesso, quando denunciano il “pericolo iraniano”. Altri Paesi l’avevano fatto ampiamente e si sono muniti della bomba atomica come Israele, Sudafrica, India e Pakistan.
Anche l’Iraq l’avrebbe fatto e l’Italia aveva già iniziato a mandargli i materiali negli anni Ottanta, poi, Israele, che aveva fatto la stessa cosa, si è messo in mezzo. Questo per ricordare che l’energia nucleare “civile” è un sottoprodotto di quella militare.
L’Italia ha accettato, con il trattato di non proliferazione, di non produrre il combustibile, dunque siamo totalmente dipendenti dall’estero per il combustibile attivo, il che vuol dire che, se non dipendiamo più, per esempio, dallo sceicco o dal russo per il metano, dipendiamo da chi arricchisce l’uranio. Dunque nessuna autonomia.
Torniamo alla roccia, allo 0,7%, col problema dell’arricchimento; va aggiunto il problema del trasferimento dell’uranio e del passaggio fino alla centrale.
La centrale deve essere costruita e consuma energia e se non dura almeno i 35 anni previsti non tornano i conti.
Gianni Tamino “Terra e Acqua” - gennaio/febbraio 2010

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