Al museo Bilotti di Roma una retrospettiva
dedicata all’artista dagli
esordi nell’informale alla fase matura
Al museo Carlo Bilotti è ora in corso, fino al 21 novembre, una mostra curata da Enrico Mascelloni, su uno dei più particolari artisti italiani attivi nel Dopoguerra, Filippo Marignoli (Perugia 1926 - Seattle 1995). Una serie di particolari circostanze, come la sua origine aristocratica e il matrimonio con la principessa Kapiolani Kawananakoa delle Isole Hawaii, celebre bellezza degli anni ’50, lo portarono ad esperienze internazionali, uniche per un artista italiano del suo tempo, che gli permisero di sfruttare la sua caratteriale irrequietezza tramite un nomadismo artistico passato tra Roma, Parigi, Honolulu e New York. Molto indipendente e autonomo, fuori dagli schemi tanto nella sua espressione artistica quanto nel suo percorso di vita, collaborò regolarmente con le più importanti gallerie europee dell’epoca come L’Attico di Bruno Sargentini a Roma e Denise René a Parigi. Allo stesso tempo i più importanti critici dell’epoca, come Arcangeli, Carluccio, Calvesi e Crispolti si occuparono della sua opera.
Gli esordi del pittore perugino, alla fine degli anni ’50, si collocano nell’ambito dell’Informale: dipinti di grande formato che lo fanno presto identificare come uno dei migliori interpreti della nuova arte italiana. Anche nelle opere posteriori si dimostra un grande artista, come ci rivela la mostra al Bilotti, con opere successive spesso organizzate in cicli molto originali. Purtroppo in Italia si ha una scarsa conoscenza della fase matura dell’artista, visto che la maggior parte delle opere di questo periodo vennero prodotte all’estero. Infatti Marignoli, nel momento in cui riceve il massimo riconoscimento in Italia, decide di trasferirsi negli Stati Uniti, dove vive, tra New York e le Isole Hawaii, sino al 1963. Questo periodo all’estero segna una svolta nell’ambito della sua pittura, condotta da nuove ricerche lontano dagli esiti informali del primo periodo. In quegli anni infatti conosce l’Action Painting e l’Abstract Epresionism nel loro momento più alto e prendendo parte a questi due movimenti, produce dipinti aggiornatissimi, poco conosciuti in Italia, anche questi esposti ora al Bilotti. Rientra a Roma nel ’63, anno al quale segue un periodo di totale isolamento dal mileu artistico, Marignoli infatti non si integra affatto nel nuovo clima artistico ferocemente oggettuale, affermatosi in Europa sull’esempio della Pop Art. Nonostante questo periodo di isolamento la sua ricerca procede, per arrivare alla sorprendente fase finale della sua carriera. Trasferitosi a Parigi nel 1974, inizia una collaborazione con la leggendaria gallerista Denise Renè. Le opere di questo periodo sono rappresentazioni di strapiombi mozzafiato, opere dai particolari formati molto lunghi e stretti, tanto da trasmettere la sensazione della vertigine. Le opere in mostra al Museo Carlo Bilotti ricostruiscono, passo dopo passo, la singolare ricerca e la strana carriera di un talento fuori norma, quello di Filippo Marignoli, l’artista che alternò con noncuranza momenti di grande successo ad altri di assoluto isolamento ed oblio, l’aristocratico bello e affascinante che fece innamorare dei suoi strani dipinti la gallerista più difficile di Parigi, quella Denise Renè che di lui amava raccontare anche l’ineffabile eleganza del vivere: “Questo nobile marchese di Spoleto non sdegnava nessuno dei piaceri dell’esistenza: la musica, le grandi riunioni amicali attorno a piatti raffinati che spesso preparava egli stesso”.
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