Li chiamano delitti passionali, ma sono il sintomo
di una società patriarcale ormai
al tramonto. In ogni area geografica e contesto
sociale il problema sembra essere
lo stesso: accettare l’autonomia delle donne
Sessanta giorni, quattordici omicidi, tre aggressioni. Questi i numeri dei delitti a sfondo “passionale” che si sono consumati durante l’estate appena trascorsa. Da Milano a Trapani, storie di uomini che uccidono le proprie mogli, le fidanzate, le amanti, non accettando l’idea di doversene separare. O mia o di nessun altro, o mi ami o ti ammazzo.
Shakespeare, nell’Otello, aveva provato a spiegarcelo questo amore perverso, fatto di incertezze e ossessioni, di sospetti e di angoscia. Quel sentimento torbido, capace di condurre un uomo ad atti di inconsulta violenza ai danni della persona “amata” e, poi, di se stesso. Di quella poesia, però, oggi non è rimasto più nulla. Non c’è traccia d’amore, neppure di quello più disperato, in un rapporto in cui la donna è solo un oggetto di possesso e di gelosia, priva di qualsiasi autonomia e libertà. Non c’è amore nella persecuzione, negli inseguimenti, negli appostamenti sotto casa, nelle minacce di violenza. C’è solo un tentativo di piegare un altro essere umano alla propria volontà, di annientarlo, di possederlo. Di attuare, insomma, quello che il filosfo inglese John Stuart Mill chiamava “dispotismo domestico”, una condizione di assoluta supremazia maschile in cui la donna, essere “uterino” e irrazionale, doveva sottomettersi completamente alle decisioni del pater familias.
E’ interessante l’analisi di Mill, non solo perché individua con precisione la condizione di sudditanza femminile che contraddistingue la nostra società, ma soprattutto perché, già nella metà dell’Ottocento, aveva capito che la sottomissione delle donne agli uomini è uno dei principali ostacoli al progresso umano. E’ innegabile, però, che rimuovere del tutto la mentalità patriarcale dal nostro retaggio culturale è molto difficile. Per secoli, infatti, la sfera femminile è stata associata a tutta una serie di virtù come l’obbedienza, il silenzio, la fedeltà, tramandate di generazione in generazione. Caste e pure, preservate per il futuro marito. Oppure donne di facili costumi, espulse dal corpo della società, umiliate, punite, talvolta con la morte.
Il femminismo ha fatto sperare che questo binomio, questa concezione bipolare della donna, o santa o prostituta, si potesse annientare una volta per tutte. «Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!», recitava un famoso slogan del Sessantotto. Ma è possibile, oggi, affermare che gli uomini accettino serenamente che le donne decidano in piena autonomia del proprio corpo, della propria vita? L’aumento degli omicidi a sfondo “passionale”, purtroppo, non lascia ben sperare.
Ma chi sono gli uomini che uccidono le proprie donne? Le inchieste sociologiche, oggi, ci dicono che non si tratta esclusivamente di malati di mente o di individui provenienti da contesti sociali poveri e incolti, ma anche di uomini di buona famiglia e con un buon livello di istruzione. Non c’è molta differenza tra nord e sud, né tra le varie fasce anagrafiche. Il denominatore comune è la smania di controllo, il rifiuto del rifiuto. La violenza diventa l’unica arma per sventare la minaccia dell’abbandono, l’ultima garanzia della potestà maritale. In questi tentativi di salvaguardare una virilità minata si legge, al contrario, tutta la fragilità e l’incompiutezza degi uomini del nostro tempo. Uomini che hanno perso l’autonomia, la forza di esplorare le zone più nascoste del proprio essere, spaventati dal coraggio di autodeterminazione delle proprie donne, dalla loro voglia di esistere al di fuori del loro controllo.
Abbiamo chiesto all’avvocato Marazzita se, in un Paese in cui circa 7 milioni di donne sone vittime di violenza, esista una legge in grado di prevenire situazioni che possano sfociare dalle minacce a veri e propri omicidi.
Molte donne, nonostante sporgano denuncia contro i loro persecutori, si ritrovano da sole a fronteggiare il pericolo di ritorsioni e di minacce fino al momento della condanna. I provvedimenti attualmente previsti dalla legge sono davvero in grado di proteggere le donne?
Dal febbraio 2009 è stato introdotto nel codice penale il reato di “atti persecutori”, il cosiddetto stalking. Questo significa che telefonate, sms di minacce e insulti, appostamenti fuori dal luogo di lavoro o sotto casa, danneggiamenti intenzionali a cose di proprietà della vittima e minacce a persone unite alla vittima da un legame affettivo, sono punibili secondo l’articolo 612/bis del codice penale. La pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 4 anni. La pena sale da 1 a 6 anni quando il reato è commesso nei confronti di un minore, una donna incinta o un disabile. Certo, le norme sono molto recenti, però hanno introdotto strumenti efficaci che consentono l’azione immediata dello Stato. La vittima può addirittura chiedere l’intervento del questore prima ancora di aver presentato la denuncia e, in tal modo, il suo persecutore sa subito che la violenza non è più un fatto personale tra di loro. Questo, in qualche caso, è servito a interrompere il cerchio di minacce e sopraffazioni subito da molte donne. Il fatto, però, è che la sola legge non può essere il rimedio a tutti i mali: quello che deve cambiare, spesso, è la mentalità di chi quella legge deve applicarla. Mi colpì molto, ad esempio, la reazione di un carabiniere di fronte alla denuncia di una mia cliente che subiva da anni la persecuzione del suo ex fidanzato. «Sono cose che succedono tra innamorati. E’ normale un po’ di gelosia, qualche litigio». Finché si continuerà a giustificare la violenza degli uomini in nome dell’”amore”, la legge faticherà da sola a dare i suoi frutti.
Il fatto importante, però, è che gli atti persecutori siano stati inquadrati giuridicamente. La stessa cosa non si può dire, ad esempio, per il mobbing, un fenomeno vessatorio che ancora non ha, giuridicamente parlando, una collocazione precisa.
Quando si parla di uxoricidi, si parla spesso anche di raptus. Eppure, questi atti “inconsulti” hanno spesso tutta l’aria di essere gesti premeditati.
Il problema è che l’informazione relativa a questo tipo di omicidi è spesso frammentaria e approssimativa. Il raptus, inteso come molla improvvisa che scatena la furia omicida, non esiste. O meglio, non può cogliere una persona sana ed equilibrata e trasformarla in un mostro sanguinario. Dietro l’etichetta di raptus si celano storie e contesti ignorati, malattie mentali non curate, in molti casi incentivate dall’uso di sostanze stupefacenti. Il raptus è un’invenzione mediatica. Non esiste un’esplosione di violenza improvvisa e insensata. Esiste una decisione presa lucidamente dopo anni di sofferenza psichica.
C’è un film molto bello di Ferzan Ozpetek, Un giorno perfetto, in cui si racconta di Emma, una donna che, dopo aver chiesto il divorzio, subisce la persecuzione del marito. C’è una scena molto significativa, in cui il lui chiede alla ex moglie la possibilità di parlare, di mostrarle quanto sia cambiato. Dice di fare psicoterapia, di aver finalmente capito quali sono stati i suoi sbagli. Sembra sereno, anche se non convince fino in fondo, perché la sera prima era sotto casa della moglie a farle un appostamento. Emma, infatti, non cede, non lo rivuole con sé, dice che da quando si sono lasciati lei ha cominciato a vivere. E’ in quel momento che assistiamo al lento accendersi della gelosia possessiva del marito, dei suoi sospetti, dell’ossessione del tradimento, dell’idea della moglie, una sua cosa, nelle mani di altri. Quella normalità che aveva ostentato fino a quel momento, quella che agli occhi di tutti lo rendeva una brava persona, si sgretola pian piano, fino al finale delirio di follia.
Nonostante lo stereotipo dell’uomo geloso e possessivo sia tipico del Meridione, molti mariti che uccidono le proprie mogli sono del nord Italia. Sembra che per gli uomini di tutta la Penisola il problema sia lo stesso: affrontare il rifiuto, accettarlo. Perché?
Perché c’è una mala educazione rispetto alla concezione della donna. Sul retaggio culturale tradizionale, quello che, fino al femminismo, relegava le donne esclusivamente alla procreazione e alla gestione della vita domestica, si inseriscono oggi i messaggi sbagliati della televisione e della pubblicità. Le donne sono oggetti del desiderio maschile, non esseri con i quali interagire su un piano di parità. Sono figure ancillari, accessori dell’uomo, e come tali devono comportarsi. Il fatto che oggi lo stalking costituisca un reato può e deve dare lo spunto per pensare e scrivere diversamente sul delitto “passionale”: non più sfogo violento di un sentimento di gelosia, ma sintomo della destabilizzazione di uomini brutalmente insicuri che tentano di affermare in modo animalesco una superiorità che sentono ormai di aver perduto.
«Tenta di ucciderla, lei lo rivuole con sé». E’ il titolo di un articolo del 26 agosto scorso, che racconta di una donna che, dopo aver subito il tentato omicidio del marito, fa di tutto per riaverlo con sé. Non sono poche le donne che accettano la violenza, che giustificano i mariti e che sono convinte di poterli cambiare. Come si spiega?
A volte le donne che subiscono violenza non riescono a sottrarsene perché con quella violenza ci sono cresciute. Ci sono storie di figlie abusate e picchiate, che dell’amore conoscono solo quel lato brutale, che non hanno interiorizzato il giusto valore di sé e della vita umana. In parte sono vittime di quella stessa mala educazione che subiscono gli uomini e che le porta ad accettare il loro status di oggetti, di accessori. Altre, invece, hanno paura del giudizio della collettività. L’impressione, in ogni caso, è quella di un isolamento che impedisce loro di parlare e chiedere un aiuto esterno. E’ questo, talvolta, a rendere poco efficace l’intervento delle istituzioni.
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