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Ottobre/2010 - Interviste
Criminalità e imprenditoria
Lo Bello: “Questo è il tempo in cui la mafia può essere davvero sconfitta”
di a cura di Giorgio Bongiovanni

Giorgio Bongiovanni, direttore di “Antimafia”,
ha intervistato il presidente di Confindustria Sicilia, Ivan
Lo Bello. Insieme hanno ripercorso la storia
imprenditoriale dell’isola, imprigionata dall’egemonia
mafiosa, ma soprattutto hanno focalizzato le inedite
possibilità di riscatto innescate nel settore economico
e produttivo proprio dalla politica innovativa voluta
fortemente e con grande coraggio dal Presidente
e da una parte dei membri dell’associazione di categoria
che vogliono voltare pagina e liberare la Sicilia
dalla piaga della criminalità


Presidente Lo Bello, prima di cominciare la nostra intervista, vorrei ringraziare, a nome della redazione di Antimafia Duemila, gli organizzatori del Festival internazionale del giornalismo di inchiesta, un appuntamento importantissimo e quanto mai attuale data la difficile situazione che vive la libertà di stampa nel nostro Paese. E non posso non cominciare questo dialogo con lei prima di aver ricordato la figura di Libero Grassi, per il quale chiedo a voi tutti un applauso.
Veniamo a noi, Presidente. Vorrei partire da una sua dichiarazione, a mio avviso, molto coraggiosa ripresa dall’intervento che lei ha tenuto all’iniziativa organizzata dall’Associazione nazionale Magistrati di Palermo in occasione della commemorazione dell’omicidio Falcone. Cito testualmente: “Nelle grandi città c’è ancora un mercato protetto, controllato dalla mafia e dai potentati, nell’edilizia privata, nella grande distribuzione e nei trasporti”, intanto lei si riconosce in questa dichiarazione, la conferma?
Sì sì, totalmente, sono parole mie.

Io vorrei sapere, se lei è in grado di dircelo, chi sono i potentati collegati con la mafia, cioè se possiamo identificarli, perché potentato è una parola con una connotazione troppo generica. Cosa e chi dobbiamo intendere con questo termine: potentati?
Parto da una considerazione generale e poi arriviamo alla risposta.
Intanto dobbiamo metterci in testa una cosa sulla quale credo occorra fare chiarezza: la mafia in Sicilia non è certo quella restituita dalla cartolina del mafioso con la lupara e la coppola storta.
La storia della mafia è fatta di una sostanziale subalternità della mafia militare a una mafia borghese imprenditoriale e politica, cioè la storia di Cosa nostra dall’800 a oggi è una storia di subalternità a pezzi della classe dirigente.

O contiguità, anche?
Sì sì, subalternità, contiguità, collusione, forse solo i corleonesi nella stagione della loro egemonia, hanno cercato di ribaltare questi rapporti di forza, però, nella sostanza, se analizziamo la questione a lungo termine e poi osserviamo la situazione attuale, possiamo dire che finita la follia corleonese, ci ritroviamo a dover affrontare un problema di stretta alleanza tra mafia cosiddetta “militare” e pezzi della classe dirigente, borghesia. Questo è il quadro di partenza.
Non mi sento un pericoloso estremista, sono il presidente degli industriali, sostengo queste affermazioni perché sono frutto di un’evidenza empirica che chi sta in questo territorio non può ignorare e sa che la mafia è ben altro, chi invece non lo capisce, pur vivendo su questo territorio, probabilmente ha altri motivi per non capirlo. Questa è la premessa generale da cui vorrei partire, poi non c’è dubbio che ci sono tantissime indagini a sottolineare che in alcuni settori economici la mafia ha ruoli importanti. Intanto bisogna dire che l’attività principale della mafia è la regolazione dei mercati.

Per intenderci sulle dimensioni del fenomeno, Falcone già nei primi anni Novanta sosteneva che la mafia era entrata in borsa.
La mafia si muove su due binari distinti e paralleli. Ha una dimensione territoriale strettamente legata ai settori produttivi più tradizionali e un’altra che si è ingigantita grazie all’utilizzo dei nuovi strumenti della tecnologia di cui la mafia si è appropriata tramite i colletti bianchi, i riciclatori, gli esperti consiglieri che l’hanno proiettata nella grande finanza internazionale. Quindi è allo stesso tempo arcaica e supermoderna.
Da una parte dipende totalmente dalla legittimazione sociale che le deriva dal radicamento sul territorio, pensiamo al cuore e al cervello della ’ndrangheta rinchiuso a San Luca o a Provenzano nascosto nella masseria tra ricotta e cicoria. La mafia ha bisogno di consenso e l’iconografia del mafioso sobrio, spartano, attaccato alla propria terra è un meccanismo necessario ad alimentare alcune subculture locali. Deve apparire allo stesso tempo rassicurante e tradizionale sul territorio, ma anche padrona dei traffici internazionali, capace di sfruttare tutte le più importanti innovazioni finanziario-tecnologiche, appoggiata a una mafia tecnocratica, borghese, finanziaria, imprenditoriale.

Però lei ha parlato nello specifico di potentati, chi sono?
Parliamo subito della Sicilia, mi riferico a tre mercati, se ne potrebbero citare tanti altri. Il primo: la grande distribuzione. Proprio in questa provincia [Trapani, n.d.r.] ci sono indagini in corso e vi è stato il sequestro clamoroso della catena Despar, che fa riferimento a Giuseppe Grigoli, ritenuto dagli investigatori prestanome di Matteo Messina Denaro, esponente ibrido della mafia locale, perché allo stesso tempo mafia militare e mafia borghese.

Forse il capo attuale di Cosa nostra.
Ci sono realtà, come questa trapanese, in cui c’è una vera e propria ibridazione, nel senso che in alcuni contesti non esiste una separazione tra mafia militare e mafia borghese, all’interno della quale infatti si possano individuare ruoli, gerarchie sociali, egemonie.
Dicevo quindi la grande distribuzione: Trapani è un esempio clamoroso, ma vi sono stati tanti sequestri avvenuti anche a Palermo che hanno coinvolto tanti marchi importanti.

Perché questo settore scatena così tanto gli appetiti mafiosi?
Non è solo una mera operazione di riciclaggio. Ovviamente le attività economiche in generale in cui circolano grandi quantità di contante si prestano a questa finalità ma non è l’unica motivazione.
La grande distribuzione è un sistema potentissimo di consenso e di potere sociale per la mafia perché le consente di selezionare i fornitori, elargire posti di lavoro e condizionare, a monte della catena, anche gli imprenditori. Insomma oltre a “fare piccioli” i mafiosi attuano un’attività di intermediazione che regola e altera intere fette di mercato.

L’edilizia è il settore storicamente più permeato dagli interessi mafiosi.
Sì ed è ancora fortemente inquinato. In alcuni comparti del ciclo dell’edilizia il potere della mafia è rilevantissimo, penso dalla fornitura degli inerti delle cave, ai piccoli impianti di calcestruzzo, al movimento terra, ma basta andare in giro e guardare cosa succede in qualunque grande opera realizzata in Sicilia per capire cosa si muove in questo territorio.
Qui vicino ad Agrigento stanno realizzando una importante autostrada che collegherà Porto Empedocle a Caltanissetta, le interdittive antimafia fioccano a decine e se sono così numerose è la dimostrazione di come ci sia un sistema, legato a questo mondo, profondamente intaccato in alcune sue filiere. Così gli autotrasporti... una vicenda recentissima ci parla di un collegamento inedito tra mafia, ’ndrangheta e camorra, che vede protagonista una famiglia storica della mafia catanese come gli Ercolano.

In passato legati a Nitto Santapaola.
Sì il clan è proprio Santapaola-Ercolano, cioè nel senso che sono più che legati. Il soggetto recentemente arrestato nell’ambito di questa indagine, Vincenzo Ercolano, è lo stesso che era stato intervistato telefonicamente dalla trasmissione tv Report. E non sarà certo sfuggito, a chi l’ha vista, come quel signore non avesse alcuna inflessione dialettale, sembrava un ordinario imprenditore borghese di qualunque parte d’Italia.
Questo per dire come anche la mafia tradizionalmente militare oggi tende a una mimetizzazione, ad un salto di qualità per trasformarsi direttamente in mafia imprenditrice e mafia borghese che cerca una sua legittimazione sociale, anche attraverso meccanismi di promozione sociale. Quindi è infinitamente più pericolosa della tradizionale e prevedibile mafia militare.

Presidente, vorrei provare adesso ad indossare i panni dell’uomo della strada, il cittadino siciliano che ha l’onore di incontrare il Presidente di Confindustria regionale e può porgli una domanda semplice, immediata, ma esemplare: “Presidente, l’autostrada Messina-Palermo è stata a quanto sembra recentemente finita, per realizzarla ci sono voluti trentasette anni e lo Stato ha inviato nel corso di tutto questo tempo centinaia di miliardi, talmente tanti che se ne è perso il conto. Come è potuto succedere e soprattutto dove sono finiti tutti questi soldi?
Cerco di contestualizzare la risposta all’interno di un ragionamento, vale a dire: anche nelle questioni che riguardano i rapporti tra spesa pubblica e mafia bisogna sempre cercare di fare un’analisi ampia.

Mi scusi se la interrompo. Perché voglio rivolgere a lei questa domanda? Semplicemente perché la maggior parte delle ditte, delle aziende che hanno costruito l’autostrada è privata, altrimenti l’avrei posta al Ministro.
Non ci siamo parlati prima di questa intervista, abbiamo deciso di farla totalmente al buio, quindi io non conosco le domande che mi sta rivolgendo il direttore Bongiovanni, però c’è oggettivamente uno spunto di riflessione comune, perché su questi temi si è molto discusso e per questo vorrei proprio dilungarmi qualche minuto in più.
Il nodo della spesa pubblica e dei grandi investimenti va ben oltre la dimensione dello spreco e dell’inefficienza. E’ stato uno strumento con cui, in Sicilia, si è costruito un vero e proprio blocco sociale.
Dagli anni ’50 in poi, nel resto del nostro Paese, la crescita economica è avvenuta attraverso un’espansione del sistema industriale; sono state le tante imprese manifatturiere che hanno avuto una grande propensione verso l’internazionalizzazione e hanno costruito una borghesia imprenditoriale, con qualche difetto, ma comunque aperta al mercato, che ha creato benessere. Qui da noi, invece, la dinamica di sviluppo economico, dagli anni ’50 ad oggi, è stata totalmente diversa e si è basata su due questioni principali.
La prima legata ai grandi flussi della spesa pubblica che però non sono serviti a creare un ambiente competitivo nel quale potessero prosperare le aziende capaci di muoversi sul mercato, ma sono stati distratti per alimentare una borghesia parassitaria e un’imprenditoria mafiosa che ha purtroppo costruito la storia degli ultimi quarant’anni di Sicilia. Il settore dei grandi lavori pubblici in Sicilia, almeno fino alla fine degli anni ’80, quando molte grandi aziende sono state travolte dalle indagini giudiziarie e dalla crisi economica, è stato sostanzialmente gestito da un sistema che, insieme a pezzi della politica e alla mafia, ha governato questi processi e quindi le opere pubbliche sono state utilizzate unicamente come luogo della spesa, non luogo di una strategia per la crescita del territorio.
L’altro grande elemento che ha contribuito a formare questo blocco sociale sono i processi di urbanizzazione. Esiste un’imprenditoria, dominante fino all’inizio degli anni ’90, che si è arricchita e ha accumulato fortune grazie a mercati regolati e protetti dalle mafie nati all’ombra di regole urbanistiche inesistenti a causa della complicità della politica. Il Sacco di Palermo ne è l’emblema.

Insomma chi si è indebitamente appropriato di questo denaro?
Questi soldi sono serviti a foraggiare, a costruire, nel tempo, un blocco di interessi, chiamiamolo coalizione sociale, economica, che si è alimentata, è cresciuta, ha trovato consenso, anche politico, attraverso questi due fenomeni basati, ripeto, su un denominatore comune: lo spreco parassitario delle risorse e l’abuso del territorio.
Tutto ciò ha avuto quindi l’effetto di distruggere risorse e ricchezze che potevano essere impiegati per rendere più competitivo il nostro ambiente economico, dall’altro lato l’urbanizzazione selvaggia ha distrutto il paesaggio, le risorse naturali... pensiamo a cosa ha rappresentato l’abusivismo in Sicilia anche come modello culturale. Ed è stato in quel momento che in Sicilia si è formato un blocco sociale che ancora oggi è largamente egemone, ma che ha subito un primo elemento di rottura negli anni ’90.

Presidente, vorrei affrontare un argomento delicato per cui è necessaria una piccola premessa. Riconosco e riconosciamo tutti la grande svolta all’insegna della trasparenza che lei ha attuato all’interno di Confindustria con risultati, soprattutto ultimamente, impensabili fino a pochi anni fa. Tuttavia è evidente che il lavoro da farsi proprio per debellare questa potentissima imprenditoria mafiosa è ancora molto. A suo avviso quello che una volta era stato definito il “sistema del tavolino”, al quale sedevano Cosa nostra, impresa e politica, è ancora vigente? Sono stati sostituiti i vari Siino oppure oggi siamo di fronte ad un fenomeno sporadico, casuale?
No no. Le rispondo subito, il tavolino di cui lei ha parlato rientra nella riflessione precedente, cioè il tavolino era la sublimazione del blocco sociale che vedeva tutti insieme a decidere le sorti economiche dell’isola.
Attualmente io non credo che ci sia un tavolino regionale, perché al tempo si basava su un fattore fondamentale: la presenza anche di grossi gruppi imprenditoriali.
Pensiamo ai Cavalieri del Lavoro di Catania, ai grandi gruppi agrigentini, che erano poi centrali in questa dinamica, alle grandi imprese palermitane di notevoli dimensioni che oggi non ci sono più.

C’erano anche imprese esterne alla Sicilia.
Certo, ne potremo citare tantissime. Il tavolino non era un meccanismo solo siciliano, ma governava i lavori pubblici in Sicilia.
Io sono convinto, e abbiamo qualche prova in questo senso, che oggi ci siano tanti piccoli tavolini disseminati nelle varie realtà provinciali, perché la mafia si è parcellizzata.
Anzi se posso dire una cosa: sa cosa il mondo imprenditoriale può verificare forse ancor prima delle Forze dell’ordine e della magistratura? Chi ha un ruolo come il mio, che lo porta a girare per la Sicilia e quindi osservare alcune situazioni, può anche fotografare nuove geografie o nuove alleanze.
Io ho la sensazione che oggi il sistema di Cosa nostra si stia riaggregando attorno a nuovi equilibri. Per esempio si sta strutturando un rapporto molto più forte, anche inedito, tra mafia catanese, agrigentina e trapanese rispetto alla tradizionale egemonia palermitana e lo notiamo attraverso i movimenti di aziende, ritenute collegate a gruppi mafiosi, che cominciano a spostarsi nelle varie provincie.

Questo secondo lei è un indice di maggiore o minore gravità?
La gravità è la stessa perché è la dimostrazione di come una cultura legata allo sperpero sistematico e all’utilizzo di risorse pubbliche per fini privati rimane forte nel nostro territorio, cioè il fatto che siano sistemi sparpagliati, non grandi aziende, ma tante aziende che partecipano a singoli tavolini provinciali non migliora certo la situazione.
E’ il sintomo di un continuo e crescente degrado morale, ed è un tema sul quale vorrei invitare tutti a riflettere.
Oggi siamo in una fase in cui si aprono prospettive inedite: i due elementi che hanno in qualche modo costruito questo potere mafioso, cioè i grandi flussi di spesa pubblica e la crescita disordinata, lo scempio delle grandi città, stanno progressivamente venendo meno. La nostra regione da tempo ha flussi di spesa sempre minori e quindi vi è una seria difficoltà ad alimentare questo sistema, il grande business dell’urbanizzazione non ha più le proporzioni che ha avuto in passato, sul quale veramente si è costruita una classe dirigente mafiosa. Quindi mai come adesso ritengo che l’impegno e la rivolta della società siano fondamentali. Oggi quel blocco sociale comincia ad accusare qualche crepa; la forte azione repressiva da parte di magistrati e Forze dell’ordine, più significativa che in passato, ha dato coraggio a pezzi della società che hanno intrapreso un rivoluzionario cammino di opposizione che, seppur minoritaria , è forte, capace di far ascoltare la sua voce anche ai cittadini. Oggi c’è davvero la possibilità di raccogliere successi veri e strategici e non solo congiunturali o di breve periodo.

Senta, in questo momento la Regione Sicilia pare stia cercando di portare a compimento alcune riforme ma la Giunta Lombardo è al centro di uno scandalo politico-mafioso di cui è molto difficile distinguere i contorni. Qual è la posizione di Confindustria, o meglio cosa si aspetta dal governo regionale?
Parliamoci chiaro, intanto voglio esprimere un concetto di carattere generale, ma che attiene alla sua domanda. Oggi in Sicilia c’è un problema di democrazia, nel senso è ancora prevalente un’idea della politica e di ricerca del consenso che passa attraverso la logica dello scambio, cioè purtroppo sta ulteriormente peggiorando l’idea che l’unica possibilità di consenso oggi sia lo scambio generalizzato.
Questo sta determinando un profondo degrado morale, che annulla totalmente nel cittadino la percezione dei propri diritti.

Ma questa è una premessa o si riferisce in particolare al governo Lombardo?
No, faccio questa premessa perché molto spesso i fenomeni sono legati più a dati sistemici che non alle singole persone, quindi ci muoviamo intanto in un meccanismo in cui, ripeto, il voto di scambio è prassi comune in molti contesti e questa è un’emergenza democratica.
Allora, quello che noi chiediamo alla politica oggi è di ripristinare le regole nobili, di cercare e trovare consenso per le proposte e le prospettive che sa offrire ai cittadini. Questa è la prima grande questione. Oggi mi sembra che questa politica sia minoritaria nel panorama regionale.

Quali sono le vostre proposte?
Non basterebbe un’auto per portare tutta la rassegna stampa che raccoglie le idee che abbiamo proposto. Noi abbiamo detto al governo regionale, innanzitutto, di demolire quel mostro burocratico che è rappresentato dalla Regione siciliana. Al suo interno abbiamo sprechi, inefficienze, una terribile cultura dell’intermediazione fatta di opacità e poca trasparenza nelle procedure autorizzative. Questi sono meccanismi che distruggono ricchezza perché allontanano gli investitori. E’ il modo più paradossale per selezionare i peggiori.
Con questi metodi l’imprenditore che avrà successo è colui che si approfitta delle opacità non quello che pensa di essere bravo e di competere sul mercato. Quindi è un sistema che, sostanzialmente, premia i comportamenti peggiori e non le virtù imprenditoriali. E’ un nodo importante, cruciale che va affrontato.

Ci faccia un esempio.
Pensiamo ad un settore con un grande potenziale come quello delle energie rinnovabili.
In Germania è un elemento di traino nell’economia tedesca, lo stesso è avvenuto in Spagna.
Si sono creati grandi gruppi, trasparenti, perfettamente efficienti. Da noi, al contrario, un settore che rappresenta il futuro è diventato un luogo di incontro tra mafia e burocrazia, cioè siamo in grado di distruggere il potenziale che viene dai settori che rappresentano il futuro nel nostro sistema. E questo da cosa dipende? Dal fatto che non ci sono imprenditori bravi?
Niente affato.
E’ il risultato di quanto dicevo prima: i peggiori si avvantaggiano della burocratizzazione del sistema e oggi, con centomila autorizzazioni, l’eolico e anche il fotovoltaico sono finiti nell’ambito degli interessi mafiosi.
Questo è il quadro. Volevo aggiungere l’ultima cosa. Abbiamo assistito di recente all’approvazione della Finanziaria regionale. Io ho letto sconcertato un’intervista dell’Assessore al Bilancio, il quale, oltre a confermare che l’anno scorso il Pil della Sicilia è calato molto più del Pil del resto del Paese, ha spiegato che il tasso di disoccupazione giovanile è arrivato al 40% e che c’è stato un progressivo crollo degli investimenti, dei consumi... Il panorama economico e sociale è terribile, i quartieri periferici delle grandi città gridano vendetta perché non esistono in nessun’altra parte civile di nessun altro Paese, sono al di fuori della sovranità.
In questa intervista l’Assessore diceva che il primo atto del governo sarà quello di stabilizzare i quaranta precari dei consorzi X, i cinquanta dell’altro, cioè il perpetuare della logica assistenziale e clientelare. Lei lo sa, e chiudo, cosa significa per la città di Palermo, che è la città che ha la dimensione pubblica più rilevante in Sicilia, ed è quella che ha più disoccupati fra i giovani, stabilizzare dei precari selezionati per amicizie politiche? Significa compromettere la possibilità di vita e di lavoro futuro a decine di migliaia di ragazzi. Il problema qual è? Che un gruppo organizzato diventa un gruppo di pressione politica, migliaia e migliaia di ragazzi che non sono soggetto collettivo non hanno nessuna capacità e forza contrattuale.
Le cito un dato emblematico che molti non conoscono: il Pil, per chi non ha dimestichezza con le terminologie economiche, è quanto noi produciamo in un anno, in Sicilia dipende per oltre il 40% da trasferimenti e dinamiche assistenziali della Pubblica amministrazione, il dato della Lombardia è del 13,5%. Noi abbiamo costruito un mostro pubblico che divora ricchezza e produce povertà. Per questo da dieci anni cresciamo molto meno del resto del Paese, siamo sostanzialmente una regione a crescita zero. La politica si deve occupare di questo, non di alchimie e di governi istituzionali, di governi tecnici, deve dare una risposta a queste domande.

Presidente, adeso vorrei toccare un argomento che apparentemente non c’entra con il tema in questione, ma a mio avviso non è così. Mi riferisco alle stragi.
In tempi non sospetti, alcuni giornalisti, e anche noi nel nostro piccolo, avevano sostenuto il coinvolgimento dei Servizi segreti, che a mio avviso non possono definirsi deviati, in questi fatti. Un piano di infiltrazione all’interno di Cosa nostra che ha portato a quelle risultanze che sono ora al vaglio degli inquirenti. Questo tipo di operazioni sono avvenute anche all’interno della grande industria.
Oggi, a suo avviso, se lo sa, possono verificarsi condizionamenti di questo genere con il fine di spostare determinati affari e quindi poteri?
Sto seguendo con grande attenzione tutto quello che sta emergendo in questi mesi. Sulla stagione delle stragi oggettivamente si sta delineando uno scenario inquietante che dobbiamo osservare e ascoltare permettendo ai magistrati di poter fare il loro lavoro perché, in questo momento, ci sono Procure veramente molto esposte su questo tema. Credo che il miglior modo per sostenere queste indagini sia quello di supportarle e di evitare di parlarne troppo, soprattutto nei dettagli.
Io non so se situazioni di questo tipo esistano oggi nell’ambito industriale.
Io sono uno che parla chiaro, chi mi conosce, alcuni miei colleghi mi dicono che sono poco prudente, ma io credo che la prudenza non sia una virtù in Sicilia, sia un modo per non assumere poi una posizione civile vera sui grandi temi. Oggi la situazione imprenditoriale siciliana è quella che le prospettavo poc’anzi e non credo, proprio per i cambiamenti strutturali avvenuti, che si possano ripetere questi episodi del passato.

Ultima domanda. Oggi potrebbe esserci un caso Libero Grassi?
No è impensabile. Libero Grassi è stato ucciso per ciò che ebbe il coraggio di dire.
La mafia l’ha potuto uccidere perché era solo e isolato dal suo ambiente. Oggi la situazione si è completamente rovesciata.
I colleghi che hanno denunciato oggi sono tutti impegnatissimi nelle prime linee di Confindustria, per me sono un punto di riferimento. Non sono soli.
Ed è un modo anche per riparare a quella pagina vergognosa che ha visto Confindustria, nel ’91, credo toccare il fondo della sua credibilità e della sua forza morale, perché lasciare solo Libero Grassi, che sosteneva le stesse e identiche cose che diciamo noi oggi, è una macchia indelebile nella storia di Confindustria Sicilia e di Confindustria Palermo.

Presidente, la ringrazio e con le sue parole possiamo allora dire che almeno una battglia è stata certamente vinta e che il sacrificio di Libero Grassi non è stato inutile.
Era meglio dare solidarietà e vicinanza a Libero Grassi in quegli anni, però poi la storia passa anche attraverso il sacrificio di molti. Domani ricorre l’ennesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone. Le stragi sono state un momento buio della democrazia di questo Paese, della sua storia politica e sociale, però, proprio a partire da quel momento è poi nata una attività repressiva e una sensibilità della società civile che non c’era prima.
Quindi anche i momenti più duri, che altri Paesi non hanno vissuto e che purtropo per noi rappresentano una tragica normalità, alla fine servono a mettere in campo strumenti e momenti di cambiamento.


[Per gentile concessione
di AntimafiaDuemila N. 2/2010]

FOTO: Ivan Lo Bello

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