Basta uno sciopero dei trasporti o l’eruzione
di un vulcano per mandare in tilt il nostro
sistema sociale: cibo, comunicazioni, trasporto
e cure mediche. E in una situazione di crisi
le reazioni collettive e individuali
diventano incontrollate e pericolose
Il livello di sviluppo sociale cui siamo pervenuti in occidente, la nostra “qualità della vita”, viene da tutti dato per scontato per cui ad esempio l’accesso al cibo, alle comunicazioni, ai trasporti, alle cure mediche ed all’informazione viene effettuato in modo semplice, naturale, automatico. Così come diamo per scontato che, in caso di necessità o di incidente, basta chiamare ed arrivano i soccorsi. Riteniamo quindi che sia la nostra “routine” che l’emergenza sia sempre e comunque garantita.
Ma cosa succederebbe se la corrente elettrica non ci fosse più? Cosa succederebbe se avessimo un incidente e nessuno venisse a soccorrerci? O se non ci fosse più benzina in alcun distributore della città in cui viviamo? Riteniamo che sia una possibilità talmente remota da rispondere: “è impossibile”; “è la trama di un film?”. Eppure potrebbe accadere, come alcuni esempi in parte già lo dimostrano, e come è nelle intenzioni di alcuni gruppi terroristici internazionali.
I moderni Paesi occidentali hanno realizzato nel corso degli anni un modello di società che è caratterizzato da una elevata “qualità della vita”, intendendo con ciò la possibilità di accedere ad un insieme di servizi e di opportunità “di base” che vengono messe a disposizione di ogni singolo cittadino affinché egli possa esprimere al meglio le proprie attitudini e soddisfare i propri bisogni. Fanno parte della “qualità della vita” i servizi di fornitura dell’energia, la tutela della salute, il sistema dei trasporti, il sistema bancario. La fruibilità di questi “servizi” di base è ormai data per scontata, tanto è vero che, nel caso non fossero più disponibili, non sapremmo più come comportarci. Valga l’esempio dell’erogazione dell’energia che, se venisse a mancare, metterebbe in seria difficoltà ognuno di noi in quanto non sapremmo più come riscaldare le nostre case, come alimentare le nostre autovetture, come far funzionare le nostre aziende. Questa situazione è profondamente diversa da quella presente nel nostro Paese, per esempio, all’inizio del ’900, quando ogni famiglia riscaldava la propria casa con la legna raccolta dai componenti della famiglia stessa e aveva mezzi di locomozione “autonomi” (cavalli, muli, ecc.), e quando una delle preoccupazioni di un imprenditore era quella di dotare la propria azienda di un generatore di energia “autonomo”, come, ad esempio, le turbine alimentate dall’energia dei corsi d’acqua locali. In base a questo tipo di considerazioni, negli ultimi anni si è venuta ad affermare l’esigenza di meglio comprendere la reale dipendenza della nostra società da quelle infrastrutture dei servizi che, se venissero a mancare, comprometterebbero a livelli inaccettabili la nostra qualità della vita. Queste infrastrutture sono state chiamate “critiche”, e la necessità di proteggere la loro esistenza e corretta funzionalità è sinonimo di necessità di salvaguardare la nostra qualità della vita. Affrontando questi temi in modo “scientifico” ed organico, ci si accorge dell’estrema complessità, vulnerabilità e fragilità dell’organizzazione della nostra società e, quindi, della criticità delle varie infrastrutture.
A titolo d’esempio analizziamo due eventi, uno internazionale e uno nazionale, in cui, in modo concreto, si è potuto toccare con mano la complessità e l’importanza vitale di questo tema. Il primo esempio riguarda la nube di polveri generata a partire dal 14 aprile 2010 dal risveglio del vulcano Eyjafjallajokull in Islanda che ha provocato quella che molti hanno definito la più grande crisi del sistema dei trasporti aerei in tutta Europa. Il vulcano si è risvegliato dopo un sonno durato circa 190 anni. Già dal 15 aprile 2010 le polveri si sono diffuse rapidamente nei cieli prima della Scozia, poi della Norvegia e, successivamente, in tutta l’Europa del nord, provocando la cancellazione della maggior parte dei voli aerei a causa del rischio elevato di possibili incidenti. Il 16 aprile si contavano 34.600 voli cancellati in soli due giorni, decine di aeroporti praticamente chiusi, treni presi d'assalto in tutta Europa. Anche l’Italia chiudeva lo spazio aereo e la Protezione civile convocava il Comitato operativo per gestire l’emergenza che nel frattempo aveva messo in ginocchio anche il trasporto ferroviario e quello su strada (mezzi a noleggio e taxi) per eccesso di domanda. Il 17 aprile venivano raccolti i primi dati aggregati della crisi indotta dal vulcano islandese. Risultavano coinvolti gravemente 20 Paesi europei coi seguenti dati di impatto: 200 milioni di euro al giorno di perdita totale per le compagnie aeree; 7 milioni di passeggeri bloccati in tutta Europa; treni e trasporti su strada in crisi per picco di carico; assenza di manpower per importanti attività; assenza di beni in trasporto Cargo con gravi perdite nel settore delle derrate alimentari che sono andate in deperimento (pesce, carne, formaggi, ecc); servizi sanitari in grande difficoltà; servizi di emergenza attivati per il ricovero notturno in aeroporto e nelle stazioni ferroviarie.
Se manca la benzina
Come secondo esempio a livello nazionale, analizziamo quanto avvenuto in Italia in occasione dello sciopero degli autotrasportatori del dicembre 2007. Sono bastati tre giorni di sciopero per mettere in crisi vari sistemi quali la distribuzione dei carburanti, l’approvvigionamento di cibo, il servizio sanitario d’emergenza, i sistemi produttivi che si basano sul movimento delle persone, il sistema di approvvigionamento dei farmaci nelle grandi città. In particolare, proprio concentrando l’analisi sull’assenza di carburante nelle pompe di benzina tutti ricordiamo le code interminabili ai pochi distributori ancora provvisti di carburante nel disperato tentativo di accaparrarsi un pieno di benzina per assicurarsi la possibilità del movimento in caso di prolungamento della crisi. Tutto questo non faceva altro che accelerare e ampliare ulteriormente l’effetto a catena su altri settori che, a loro volta, entravano in crisi o ampliavano ulteriormente la crisi già in atto. Sempre per approfondire questo secondo esempio, nel caso delle farmacie, l’aspetto più sorprendente è stato il poco tempo sufficiente per “metterle in ginocchio”.
Questo effetto è dovuto al particolare sistema di approvvigionamento dei farmaci che si è realizzato nel corso degli ultimi anni in base ad esigenze di tipo economico: tutte le farmacie di una città si approvvigionano da un insieme molto limitato di cooperative che, quindi, diventano il vero collo di bottiglia per l’approvvigionamento dei farmaci di un intero territorio. La logistica di tali cooperative è caratterizzata da un numero molto limitato di magazzini di stoccaggio, normalmente posizionati lontano dalle città e in vicinanza delle grandi arterie di comunicazione. E’ evidente che questa organizzazione logistica è molto più vulnerabile nei confronti di uno sciopero degli autotrasportatori rispetto alla “vecchia” organizzazione, in cui ogni farmacia era una realtà isolata e provvedeva in proprio a “fare magazzino” di farmaci, acquistando farmaci sufficienti a soddisfare la propria clientela abituale per un periodo di tempo relativamente lungo. In quest’ultimo scenario, a fronte di uno sciopero degli autotrasportatori, la crisi si sarebbe manifestata in tempi più lunghi, contando anche sul fatto che ogni farmacia avrebbe svolto anche il ruolo di “riserva” rispetto alle farmacie limitrofe che avessero terminato la propria scorta di un particolare farmaco.
Ragionamenti analoghi si potrebbero fare anche in altri ambiti entrati in crisi a causa dello sciopero, dalla produzione industriale alla Pubblica amministrazione, dal commercio al servizio sanitario nazionale e alla catena alimentare.
Infine, occorre considerare che la sempre più incombente minaccia terroristica rende ipotizzabili scenari ben più complessi e drammatici, in cui il collasso a catena, normalmente indicato come effetto domino, potrebbe interessare, in conseguenza ad una mirata strategia terroristica, un numero ancora più cospicuo di infrastrutture.
Il collasso a catena
Detto questo, poniamoci alcune domande legate agli avvenimenti descritti. Se l’eruzione vulcanica fosse stata più intensa o più prolungata, oppure se lo sciopero degli autotrasportatori fosse durato più tempo, cosa sarebbe successo all’organizzazione e allo stile di vita del nostro Paese e dell’intera Europa? Avremmo “scoperto” altre dipendenze inattese?
Di sicuro avremmo scoperto quali reazioni si sarebbero prodotte nella popolazione civile, come avrebbero reagito le persone di fronte al blocco dei trasporti, degli approvvigionamenti di cibo, delle comunicazioni, del sistema sanitario e dei soccorsi, nonché quali problematiche di tipo criminologico emergerebbero in tale situazione. Si sarebbe creata su scala nazionale la stessa situazione che si osserva nelle popolazioni colpite da una calamità naturale: avremmo avuto oltre 50 milioni di vittime e nessun soccorritore. E’ solo una ipotesi di studio, poiché sarebbe veramente drammatico disegnare gli scenari sociali possibili, anche di tipo criminale, che verrebbero a prodursi in queste circostanze ed organizzare dei soccorsi sanitari e degli interventi di Polizia adeguati.
La confusione sociale
Iniziamo quindi ad ipotizzare il comportamento messo in atto dalle vittime. In scenari di questo tipo le osservazioni e gli studi effettuati evidenziano che le vittime mettono in atto comportamenti, individuali o di gruppo, che aumentano la confusione e la disorganizzazione sociale, aggravando gli effetti diretti della crisi e che costringono gli eventuali volontari soccorritori a impegnare inutilmente tempo ed energie, ritardando il ripristino del controllo della situazione.
Prendiamo spunto dalle conoscenze sulle reazioni umane in situazioni di crisi che si sono sviluppate negli ultimi trent’anni nell’ambito delle discipline multidisciplinari caratterizzanti la psicologia dell’emergenza. Discipline quali la psicoanalisi, la psicologia individuale, la psicologia sociale, ambientale, quella di comunità, hanno permesso di maturare un approccio multivariato nel trattamento delle vittime e dei loro problemi connessi allo stato di crisi. Il filo conduttore alla luce del quale si può rileggere l’evoluzione di questi studi è proprio il passaggio dell’attenzione dalla reazione individuale psicopatologica alla reazione collettiva all’emergenza con cui si dovrebbe riorganizzare un normale tessuto sociale.
Freud è stato il primo a parlare di “nevrosi traumatica”, per definire quella reazione emotiva che ha la caratteristica di essere determinata dallo shock emozionale, derivato dalla situazione in cui il soggetto ha sentito di trovarsi davanti ad un pericolo in grado di mettere a rischio la sua sopravvivenza e quella dei suoi cari. Essa provoca una riorganizzazione nevrotica regressiva che induce l’individuo a vivere ripetutamente flash mentali dell’evento ritenuto psico-traumatico ad a ricercare nell’ambiente circostante una protezione alla sua angoscia: la paura invade la sua mente, non riesce a pensare ad altro e cerca ogni possibile soluzione. La reazione psichica può manifestarsi con stati di agitazione, di stupore o di confusione mentale, mentre la sua possibile evoluzione può essere compresa fra due diversi esiti: il trauma psichico correlato alla crisi è l’occasione che rivela una struttura nevrotica preesistente, per cui smette di funzionare in modo adeguato e razionale ed iniziano a manifestarsi condotte patogene ed irrazionali. Il trauma svolge un ruolo centrale nel contenuto del sintomo da stress, che consiste in un tentativo comportamentale di reagire e superare il trauma stesso. Solo negli anni Settanta si inizia a rivolgere l’interesse verso le reazioni sia individuali che collettive alle situazioni critiche e a distinguere tra reazioni psicopatologiche individuali e quelle che oggi vengono dette “sindromi da disastro”.
Le sindromi da disastro
Nel definire i contesti di emergenza è emerso come centrale il ruolo giocato dagli aspetti psicologici ed emotivi nei momenti successivi al manifestarsi della crisi in relazione alla loro capacità di determinare la reazione emotiva dell’individuo a quell’evento stesso e quindi di descriverne l’impatto individuale e sociale. Il tema delle emozioni appare dunque strettamente connesso a quello dell’analisi delle situazioni di emergenza. Classicamente vi è emergenza solo di fronte ad eventi imprevisti, sorprendenti, distruttivi, cioè riconoscibili come aggressivi, lesivi, omicidi. La crisi delle infrastrutture è un evento imprevisto, tuttavia il manifestarsi progressivo degli effetti a tipo domino delle varie infrastrutture rende la situazione non sorprendente, lasciando margini di intervento preventivo ed informativo sulla popolazione. Questo dovrebbe permettere l’allertamento preventivo di tutte le organizzazioni sociali di difesa e sicurezza, dalla Protezione civile alle Forze di polizia.
In ogni caso il clima che si respira sul campo è ricco di ansia, paura, smarrimento, rabbia e tristezza e la capacità di riflettere su quest’aspetto rimanda alla consapevolezza di saper rintracciare il ruolo chiave che svolge la componente emotiva nell’apprezzamento della realtà. Saper intervenire sugli aspetti relazionali interpersonali nei momenti di crisi significa saper gestire le emozioni, proprie ed altrui. La complessità del sistema delle emozioni è conosciuta ai ricercatori che hanno concordato nel definire le emozioni dei processi psichici complessi. Processi perché si tratta di eventi che si snodano nel tempo: insorgono rapidamente, si sviluppano, decrescono e scompaiono coinvolgendo nel loro dispiegarsi temporale diverse componenti che mettono in evidenza come ogni emozione si definisca in relazione ad un cambiamento, ad una modificazione di stato. La forza emotigena di un evento non sta nell’accadimento in sé, ma nell’intreccio di molteplici fattori. È un insieme di atti percettivi e cognitivi che definiscono la connotazione di un accadimento e la possibilità che esso sia registrato dalla nostra mente.
La seconda componente fondamentale delle emozioni è dunque quella cognitiva. Si tratta di percepire l’evento, valutarne la pertinenza rispetto ai propri scopi, la pericolosità, la novità e la possibilità di farvi fronte con le risorse di cui si dispone. Infine, ultime due componenti delle emozioni sono la risposta motoria, intesa come tentativo che il soggetto attua per regolare le distanze dall’evento emotigeno, e la percezione interna, in quanto percezione che qualcosa attinente ad un processo emotivo è accaduto. Ogni evento emotivo comporta quindi: un evento elicitante che innesca l’emozione intesa come processo; un cambiamento fisiologico; una serie di operazioni di valutazione cognitiva; un comportamento manifesto. I soggetti in grado di mantenere la lucidità e la razionalità del pensiero, potrebbero valutare la situazione di crisi come una opportunità favorevole per i propri scopi, leciti o illeciti, ed agire di conseguenza, tenuto conto che con l’assenza dei soccorsi ci sarebbe anche l’assenza delle Forze di polizia e si possono quindi mettere in atto condotte criminali contro persone o beni, con la quasi certezza dell’impunità.
Crimini impuniti
Queste conoscenze dovrebbero orientare gli esperti della Protezione civile e delle Forze di polizia ad organizzare e predisporre, preventivamente ed autonomamente, non potendo contare su risorse o mezzi esterni, azioni in grado di contrastare le reazioni emozionali patogene, individuali e collettive, e le condotte criminali, individuando rischi e pericoli, creando scenari e previsioni, predisponendo risorse umane in loco.
Gli studi fatti insegnano che, nella maggior parte delle catastrofi, il 70% degli individui mantiene un comportamento apparentemente calmo, ma che in realtà corrisponde alla incapacità di provare emozioni e di avere iniziative di ogni tipo. Il 15% degli individui manifesta subito reazioni di disagio; il 15% degli individui mantiene sangue freddo e riesce a valutare la situazione in modo cinico ed opportunistico secondo i propri scopi criminali. Nella maggior parte delle persone è possibile osservare delle fughe irrazionali, crisi di agitazione psicomotoria, di aggressività, stati di immobilità ed altri comportamenti incongrui. Compaiono crisi di pianto, eccessi di aggressività e violenza interpersonale anche per futili motivi, comportamenti isterici, ansia e angoscia. Si osservano anche nelle persone che in apparenza sembrano calme, ma che in realtà la crisi in atto ha reso incapaci di provare sensazioni. Le loro azioni sono compiute meccanicamente. Le vittime che già prima dell'evento erano soggetti psicologicamente fragili o sofferenti psichici, possono mettere in atto reazioni spettacolari, quali tentativo di suicidio, improvvise fughe ingiustificate, false paralisi, falsa cecità, allucinazioni, paura di rivivere eventi drammatici, reazioni che si protraggono nel tempo in assenza di un adeguato intervento medico.
Tra le reazioni individuali vengono individuate le reazioni iperemotive brevi (immediatamente dopo l’impatto con la situazione critica, esse vanno dall’agitazione psicomotoria e psicofisiologica, aggressioni e tentativi di suicidio, a crisi di pianto, reazioni incontrollate d’ira e disturbi del sonno), i disturbi nevrotici (stati ansiosi, fobici, depressivi, isterici, nevrosi traumatiche) ed i disturbi psicotici (reazioni confusionali, crisi delirante acuta, crisi psicotiche maniacali o depressive).
Relativamente alle reazioni individuali vanno inoltre ricordate: la “sindrome da disastro”, che presenta un individuo stordito, apatico, in preda ad una fuga psicologica adottata per non affrontare l’esperienza traumatica e dolorosa che sta vivendo; la “sindrome da lutto”, che si manifesta nei familiari costretti a vivere insieme alla deprivazione affettiva dei loro cari in una situazione di precarietà materiale; la “sindrome del sopravvissuto”, in cui prevalgono sensi di colpa e depressione per aver avuto vantaggi, privilegi o soccorsi, mentre altri non sono stati risparmiati dagli effetti materiali ed affettivi della tragedia.
Le reazioni collettive
Per quanto riguarda invece le reazioni emotive collettive, se ne possono evidenziare tre di particolare importanza :
a. commozione-inibizione-stupore: è la reazione psicopatologica collettiva che più facilmente si verifica nelle zone d’impatto in cui è più forte l’effetto sociale dello stato di crisi e che corrisponde, nei disastri, alle persone direttamente colpite da gravi perdite sia materiali che umane. La sintomatologia si manifesta con perdita di iniziativa, incantamento e shock emozionale. Ha una durata limitata nel tempo che può essere ridotta attraverso la possibile attivazione sul luogo di un soccorso efficace con le risorse già a disposizione;
b. esodo di massa: prevalgono i sentimenti di paura, confusione e turbamento con comportamenti di imitazione che conducono a flussi di popolazioni in movimento ed abbandono del luogo di residenza per propria iniziativa;
c. panico: si tratta di una paura collettiva, che comporta una fuga isterica in massa caratterizzata da una regressione delle coscienze ad un livello di estrema impulsività, aggressività ed agitazione, con compromissione della propria ed altrui incolumità.
Attualmente gli studiosi valutano la reazione individuale in funzione oltre che del quadro sintomatologico che il soggetto presenta, anche in relazione a fattori concomitanti quali il sistema sociale in cui si è inseriti, il tipo di personalità, l’esistenza pregressa di traumi e l’isolamento. Nelle situazioni di crisi si osservano frequentemente le reazioni psicogene collettive, correlate a fenomeni di suggestione psicologica che si propagano da pochi individui a tutta la popolazione.
La fuga
La fuga collettiva è la reazione più diffusa. Consiste nell'abbandono della propria zona di residenza alla ricerca di un luogo considerato sicuro. Questa fuga causa un afflusso massiccio e incontrollato di superstiti, alla ricerca di aiuto, nelle zone intorno all'area di residenza. Non trovando risorse, né luoghi sicuri, né soccorsi, né informazioni, si scatena a questo punto una marcata paura collettiva di non trovare quanto richiesto ed atteso e la paura collettiva conduce a crisi collettive di panico.
La crisi collettiva di panico è la reazione più temuta e più pericolosa. Come detto, consiste in una fuga disperata accompagnata da atti violenti. Il panico collettivo si sviluppa all'improvviso per il sopraggiungere di un pericolo reale o di una minaccia reale o anche solo immaginaria e si propaga per imitazione. Causa morti e feriti perchè calpestati o schiacciati contro un ostacolo e si esaurisce spontaneamente, dopo alcuni minuti. La crisi collettiva di panico è seguita da una fase di calma dovuta allo scaricarsi della tensione. In genere nelle calamità naturali, quali i terremoti o le alluvioni, la situazione rientra nel controllo dei soccorritori molto prima dello sviluppo delle crisi patogene collettive.
Tuttavia nelle situazioni in precedenza ipotizzate i soccorritori continuano a mancare anche a distanza di ore o di giorni, e non si esauriscono quindi i fenomeni reattivi alla crisi che la presenza, rassicurante e tranquillizzante dei soccorritori e dei rappresentanti in divisa dello Stato, avrebbe ben presto prevenuto o disinnescato. In assenza di soccorritori e Forze di polizia, la responsabilità della gestione della situazione critica ricade quindi sulle persone che, normalmente presenti nei vari gruppi sociali, per la loro professione, preparazione e posizione sociale possono esercitare un ruolo importante nella organizzazione autonoma e spontanea dei soccorsi e influenzare positivamente la popolazione (come ad esempio gli amministratori pubblici, i medici, i ministri del culto, gli insegnanti, i rappresentanti delle Forze dell'ordine, ecc...). Queste persone divengono importanti risorse sia sul piano organizzativo che su quello della prevenzione delle reazioni psicologiche collettive e criminali causate dallo stato di crisi, per cui dovrebbero essere già in precedenza individuate, formate ed addestrate ad intervenire di propria iniziativa nelle emergenze collettive da crisi delle infrastrutture.
(www.marcocannavicci.it)
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