Molte le iniziative culturali per ricordare
i centocinquant’anni dell’Unità
di Italia. Alle Scuderie del Quirinale di Roma
l’esposizione “1861. I pittori del Risorgimento”,
a novembre in uscita il discusso film
di Mario Martone “Noi credevamo”
con un Mazzini in chiave brigatista
Sono molte le iniziative culturali messe in campo per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia: mostre, film, incontri, concerti. Su tutta la penisola, da Torino a Milano, questo sarà l’anno del Risorgimento. Noi abbiamo scelto una mostra, “1861. I pittori del Risorgimento” che apre il 6 ottobre alle Scuderie del Quirinale (dalla domenica al giovedì dalle 10 alle 20, venerdì, sabato dalle 10 alle 22.30; altre info su www.scuderiequirinale.it) e il discusso film di Mario Martone “Noi credevamo”, liberamente ispirato al libro omonimo di Anna Banti, che uscirà a novembre nelle sale di tutt’Italia.
La mostra
“1861. I pittori del Risorgimento” ha come tema il confronto tra la pittura italiana e gli eventi che tra il 1859-1860 (anni in cui si svolsero la Seconda Guerra d’Indipendenza e la spedizione dei Mille) e il 1861 (anno della proclamazione del Regno d'Italia), hanno determinato la conquista della libertà, dell’indipendenza e dell’unità nazionale.
Accanto ai grandi dipinti dei pittori protagonisti del Risorgimento, opere di dimensioni monumentali che rappresentano l’epopea bellica nelle sue tappe fondamentali, vengono accostate opere di dimensioni più contenute, che documentano la partecipazione popolare e collettiva all’ideale risorgimentale.
Il cuore della mostra è rappresentato dalla pittura di battaglie ad opera dei cosiddetti “pittori soldati”, lombardi, toscani e napoletani, quali Gerolamo Induno, Eleuterio Pagliano, Federico Faruffini, Michele Cammarano; tutti convinti patrioti, che presero parte in prima persona a molte di quelle battaglie, e ne resero testimonianza attraverso una pittura esatta e fedele agli eventi, mai retorica e sempre attenta ai tanti risvolti umani, naturalmente e tristemente legati alla guerra. L’altro grande protagonista della pittura di quegli anni, il livornese Giovanni Fattori, capofila dei Macchiaioli, pur non essendo partito come volontario, fu comunque ideologicamente partecipe alle lotte risorgimentali, e si recò spesso sui luoghi degli scontri, per dare alle sue opere il senso drammatico della verità dei fatti.
Del tutto nuova rispetto alla tradizione accademica, questa giovane arte italiana fu rivoluzionaria anche nella forma. Prive di accenti celebrativi, per quanto di committenza pubblica e addirittura reale, destinate a residenze ufficiali quali il Palazzo Reale di Milano, queste opere rappresentano non tanto lo spiegamento di forze, le grandi manovre tattiche, gli alti ranghi, quanto il “dopo”, il “dietro le quinte”, le retrovie: i semplici soldati, i feriti curati grazie alle prime forme di assistenza (la nascita della Croce Rossa sarà frutto di quelle drammatiche giornate), gli stessi nemici caduti, accomunati all’esercito piemontese nella tragedia della morte, come si può vedere in due monumentali capolavori quali Assalto a Madonna della Scoperta o Episodio della battaglia di San Martino 1864-1868 di Giovanni Fattori, o La battaglia della Cernaja, opera del 1857 di Gerolamo Induno.
Il percorso espositivo
Come sorta di “anticipazione” alla pittura del 1859-1860, nella prima sala espositiva si trovano alcune opere emblematiche, introduttive ai temi della mostra. Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria di Francesco Hayez, del 1826-1829, in cui l’artista rievoca l’abbandono della patria da parte degli abitanti della cittadina greca, durante la lotta di indipendenza dalla dominazione ottomana, una vicenda in cui intellettuali e patrioti italiani videro come uno specchio della storia del loro Paese sottomesso all’Impero austriaco e, per la prima volta nel genere della pittura storica, un’opera in cui gli umili divengono protagonisti ed eroi. Non a caso, Giuseppe Mazzini, attento al significato e al messaggio insito nell’arte, lo giudicò un quadro-manifesto che avrebbe aperto la strada ad una nuova arte nazionale.
Nella stessa sala, a inizio del percorso espositivo, sempre dal popolo vengono altri eroi del passato, visti, in anni “caldi” come quelli intorno al rivoluzionario biennio 1848-1849, come esempi di riscatto e desiderio di libertà: Spartaco, lo schiavo capace di sfidare la stessa Roma, nell’opera del 1848-1850 del patriota Vincenzo Vela, e Masaniello che chiama il popolo alla rivolta, il pescatore napoletano che a metà Seicento osò guidare il popolo napoletano contro il vicereame spagnolo, nel marmo del veronese Alessandro Puttinati, del 1846.
Mentre il primo piano è dedicato ai dipinti monumentali che illustrano l’epopea nazionale, dalla guerra di Crimea al 1870, con il coronamento del processo di unificazione e del sogno mazziniano e garibaldino rappresentato, il 20 settembre 1870, dall’entrata in Roma dell’esercito regolare italiano attraverso la breccia di Porta Pia (di forte impatto scenografico il grande dipinto di Michele Cammarano dedicato a I bersaglieri alla presa di Porta Pia), salendo al secondo piano delle Scuderie del Quirinale, si incontrano altre tappe fondamentali del percorso risorgimentale, e si entra attraverso una serie di dipinti di formato più ridotto, all’interno delle coscienze di quanti aderirono al Risorgimento non dal fronte degli scontri ma dagli interni domestici, popolari o borghesi, nelle strade, nelle osterie, nelle famiglie.
Alcune opere ricordano gli episodi salienti delle rivoluzioni del 1848-‘49 e i fatti di Roma, Milano, Venezia: da un dipinto dalla forte carica allusiva quale La Meditazione di Francesco Hayez (inedita e drammatica rappresentazione dell’Italia, che tiene in mano la croce su cui sono impresse in rosso le date delle cinque giornate di Milano), al ritrovato capolavoro di Gerolamo Induno, che fu a Roma con Garibaldi nel 1849, La trasteverina uccisa da una bomba, omaggio al popolo anonimo che muore per un ideale.
Come era già avvenuto per i fatti di Roma, Milano e Venezia tra il 1848 e il 1849, anche l’epopea dei Mille godette di un grande favore nell’opinione pubblica mondiale, e fu seguita dalla stampa internazionale, celebrata dagli intellettuali, sostenuta, anche in prima persona, da uomini di cultura e artisti. Tra questi ritroviamo quei pittori che, “in diretta” o poco dopo, ricordarono gli avvenimenti ed i loro protagonisti, e si concentrarono sulla fase della preparazione e sulle aspettative create nel popolo dall’impresa di Garibaldi, aspettative a volte deluse e ugualmente documentate. Gerolamo Induno nel grande quadro dedicato a La discesa d’Aspromonte, rende un resoconto esatto e grave dello scontro fratricida di Aspromonte, tra l’esercito di Garibaldi e i soldati italiani.
Nell’ultima parte della mostra, capolavori tardi di Giovanni Fattori, riuniti insieme per la prima volta, come Lo staffato e Lo scoppio del cassone, denunciano, a ormai molti anni di distanza dall’Unità d’Italia, gli orrori della guerra e il sacrificio di tanti, quasi a monito di un nuovo impegno civile e morale: quello di essere, dopo tante sofferenze, finalmente italiani. Queste rappresentazioni forti, tragiche, si alternano ad un gusto elegiaco e crepuscolare, come nei dipinti del siciliano Giuseppe Sciuti o del toscano Odoardo Borrani che sottolineano, con scene che ricordano la partecipazione delle famiglie, delle donne, della gente comune, agli ideali di unità e libertà, che la nascita della nazione Italia è stata veramente la realizzazione dei sogni e delle speranze di un intero popolo.
Noi credevamo
Molti hanno definito il film di Martone, “Noi credevamo” che ha partecipato al Festival del Cinema di Venezia, come il critico del Corriere della Sera, Paolo Mereghetti. “come un tentativo di usare il presente per spiegare il passato piuttosto che viceversa”. Alcuni poi hanno visto in Mazzini una sorta di Curcio ante litteram.
Queste le parole del regista: «Dopo l’11 settembre, riflettendo sul rapporto fisiologico tra terrorismo e lotta per l’identità nazionale, mi chiedevo: com’è possibile che il nostro Paese, che ha così a lungo combattuto per la sua indipendenza, non abbia conosciuto niente del genere? Noi credevamo è nato nel tentativo di dare risposte a questa domanda iniziale: poi è cominciato il viaggio dentro la storia italiana dell’Ottocento, alla ricerca di quelle tracce che una certa rappresentazione retorica del nostro Risorgimento ha finito per seppellire, privandoci di una prospettiva sul nostro passato evidentemente problematica, ma proprio per questo molto più viva e appassionante».
La storia
Davanti alle teste mozzate dei leggendari banditi Capozzoli, promotori di una rivolta repressa nel sangue dall’esercito borbonico, Domenico (Luigi Lo Cascio), Salvatore (Luigi Pisani) e Angelo (Valerio Binasco), poco più che adolescenti, giurano di consacrare la propria vita alla causa della libertà e dell’indipendenza dell’Italia. Qualche anno più tardi, abbandonato l’aspro natìo Cilento, i tre giovani amici si affiliano alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini (Toni Servillo), raggiungono Parigi, dove hanno modo di conoscere l’affascinante principessa Cristina di Belgiojoso (Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto), fervente patriota, ma anche paladina dei diritti delle donne e dell’istruzione del popolo, e infine partecipano al tentativo di assassinare Re Carlo Alberto e ai moti savoiardi del 1834.
Il fallimento di entrambe le missioni marca una profonda crisi nei tre giovani patrioti, acuendo le differenze di classe che già in partenza rendevano diversi Angelo e Domenico, di ceto nobiliare, da Salvatore, umile figlio del popolo. Mentre Domenico si rimbocca le maniche e riprende l’attività cospiratoria, Angelo, approdato a una visione demoniaca della rivoluzione come teatro di pura violenza, uccide Salvatore, accusato di essere diventato una spia.
Passano gli anni, passa il ‘48, cade la Repubblica romana. Domenico, caduto in un’imboscata borbonica, viene condannato a una lunga pena detentiva. In carcere, l’amicizia di alcuni compagni di pena, soprattutto quella del sensibile Duca Sigismondo di Castromediano, lo aiuta a sopravvivere al sadismo delle guardie e al rimpianto della perduta libertà. Ma più il tempo passa, più l’abisso che divide i repubblicani dai monarchici e gli aristocratici dai poveri si allarga: anche se condividono la pena, i patrioti sono sempre più divisi e lacerati fra fazioni contrapposte e appare sempre più chiaro a Domenico che l’unità, se e quando ci sarà, non sarà di tutti gli italiani, ma solo di pochi privilegiati. Finché a Domenico, da sempre repubblicano, non tocca di assistere in disparte, con amara rassegnazione, al brindisi con il quale tutti i patrioti reclusi giurano fedeltà alla causa monarchica.
Angelo, intanto, sempre più posseduto dall’ossessione della violenza e del gesto risolutore, si reca a Londra e, entrato in contatto con i circoli radicali ispirati dal francese Simon Bernard, uno dei tanti rivoluzionari in esilio, rompe con Mazzini e si lega a Felice Orsini.
Mazzini, dal canto suo, è in affanno sia perché il suo astro tra i rivoluzionari europei è fortemente decaduto, sia perché l’azione politica in Italia è ormai definitivamente passata alla monarchia piemontese ispirata da Cavour.
In questo clima di aspre incertezze matura il piano di Orsini per attentare alla vita di Napoleone III, a cui Angelo partecipa attivamente.
Il bersaglio è fallito, ma le bombe provocano una strage tra la folla: otto innocenti perdono la vita e centocinquanta sono i feriti. Catturato e processato, Angelo muore sul patibolo con Orsini. Fra la folla che assiste sgomenta all’esecuzione c’è Domenico, ormai uscito di prigione. Nemmeno la conseguita Unità riesce a placare l’animo inquieto di Domenico. Il Risorgimento si è risolto, per lui, in una conquista di pezzi d’Italia da parte dei Piemontesi, il cui atteggiamento oppressivo e colonialista nei confronti del sud amareggia i patrioti meridionali.
Nonostante la sua vecchia amica Cristina di Belgiojoso non cessi di raccomandargli moderazione, Domenico, ormai un maturo cinquantenne, ritorna nel suo sud sconvolto dalla guerra civile per seguire Garibaldi nel tentativo di conquistare militarmente Roma in contrasto con i voleri del neoparlamento italiano. Qui ha modo di conoscere un giovane che intende partecipare anch’egli alla spedizione, un cilentano come lui. Costui altri non è che Saverio, figlio di quel Salvatore che la mano spietata di Angelo aveva spento quasi trent’anni prima.
E con grande disperazione Domenico non potrà impedire, naufragata l’impresa sulle montagne dell’Aspromonte, che il giovane Saverio perda la vita per mano della brutale repressione piemontese. In un Parlamento di ombre, a Domenico non resterà che meditare sul perché sia nata così tragicamente la nostra Italia contemporanea.
FOTO: Gerolamo Induno - La partenza dei coscritti nel 1866 1878
Olio su tela 134,5x200 Milano, Museo del Risorgimento Copyright: Foto Saporetti, Milano
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