Come realizzare un modello di Polizia
civile che sia centro nevralgico
della democrazia
Premessa
Sicurezza è soprattutto prevenzione. È attraverso un’azione nuova di prevenzione che si costruisce un contesto sociale più accogliente e disposto all’integrazione, che salvaguarda le culture ed i beni, che protegge e promuove le potenzialità individuali, attraverso il rispetto delle regole.
È necessario approntare una politica e una cultura della sicurezza che sappiano reagire con equilibrio e ponderazione alle crescenti dinamiche sociali relative alla sicurezza e al riconoscimento dei diritti civili ed umani fondamentali, che sappiano resistere alle tentazioni di soluzioni demagogiche e temporanee, dettate spesso dall’emotività popolare, per trovare la forza di studiare e proporre soluzioni durature, tese a rafforzare l’incisività dello Stato e favorire il dialogo e l’integrazione tra i cambiamenti sociali e le istanze della sicurezza.
Si sta vivendo, infatti, la mancanza di risorse adeguate per l’acquisizione di uomini, mezzi e strumenti necessari per un’adeguata ed efficace politica della sicurezza, che tenga conto anche degli scenari internazionali.
A tutto ciò si aggiunge, spesso, una difficoltà da parte della politica e dell’Amministrazione, di concepire un modello di Polizia civile quale centro nevralgico di una democrazia sempre più complessa e articolata.
Sarà nostra ambizione e impegno di tutti, a partire da questo Congresso, contribuire a crearlo, offrendo le necessarie risorse di pensiero e di azione, forti della grande capacità di essere autonomi dai governi e dalle forze politiche, caratteristica indispensabile per un’organizzazione sindacale che vuole essere forte, autorevole credibile e riconoscibile nei propri convincimenti e proposte, in qualsiasi stagione politica.
In continuità con la precedente conferenza di organizzazione, è necessario porre al centro dei nostri lavori congressuali le seguenti priorità:
• l’evoluzione del sistema sicurezza in una società che cambia;
• il ruolo del sindacato confederale nel Comparto Sicurezza;
• il modello organizzativo per tutelare e armonizzare i diritti degli operatori di Polizia, all’interno dei valori della democrazia e della solidarietà.
Siamo chiamati a proporre idee innovative ma anche fattive, che ci permettano di ridisegnare progetti organici e integrati sulle politiche della sicurezza, non più lasciate alla contingenza e all’emergenza del momento.
Legalità e democrazia
Negli ultimi anni, il tema della sicurezza dei cittadini e le varie strategie di prevenzione, hanno consentito di sviluppare una produzione scientifica alquanto ampia soprattutto nel campo sociologico ed in quello criminologico; per alcuni aspetti, questi studi hanno assunto un’importanza tale da condizionare, in alcuni casi, anche la convivenza civile. Conscio di ciò, il Silp per la Cgil ritiene che il diritto alla sicurezza vada inquadrato nell’ambito più organico e complessivo dei diritti fondamentali di ognuno di noi; così come il diritto alla salute, il diritto alla formazione, alla libertà personale ecc., è un pilastro fondamentale sul quale si basa qualsiasi sistema a “democrazia matura”. Sicurezza è soprattutto prevenzione.
È attraverso un’azione nuova di prevenzione, infatti, che si costruisce un contesto sociale accogliente, disposto all’integrazione, che protegge le persone, che è attento alle esigenze delle famiglie, che salvaguarda le culture ed i beni, un contesto insomma, che preserva e allo stesso tempo è in grado di stimolare le potenzialità individuali. Un sistema-sicurezza, insomma, che vada oltre la semplice correlazione dell’incisività dell’azione di “Polizia”, oltre il dato numerico degli addetti alla sicurezza o il dato statistico dei reati, aspetti che pure sono fondamentali, ma che sappia coniugare la sintesi di tutti gli elementi anzidetti con le nuove istanze e problematiche del sociale, che chiamano in causa con urgenza un nuovo modello di sicurezza condivisa, partecipata, considerando il ruolo della famiglia, il disagio giovanile, la precarietà dei “nuovi lavori”, la “in-certezza” della pena, l’integrazione degli immigrati, il ruolo dei mass-media, il ruolo degli amministratori locali e delle parti sociali.
Vi è urgente bisogno di ripristinare e rinvigorire nel Paese la cultura della legalità; cultura gravemente compromessa sia dalla produzione normativa che il governo ha promosso, sia da un più generale disinteresse sui grandi temi della lotta alla criminalità organizzata e non.
Sul primo versante è sotto gli occhi di tutti come il continuo ricorso a leggi che, di fatto, rallentano gli iter processuali, accelerano le prescrizioni, rendono più difficile l'applicazione della legge anche in campo europeo, determinano vere e proprie sacche di impunità, che hanno sostanzialmente abbassato la soglia della legalità ingenerando un complessivo clima di sfiducia in ordine alle questioni connesse all'amministrazione della giustizia ed alla applicazione della pena. Né possono giovare le continue aggressioni, alla credibilità e alla indipendenza dell'Ordine Giudiziario, aggressioni che, in più di una circostanza, hanno assunto toni intimidatori non degni di uno Stato di diritto.
Sull'altro versante è urgente riportare la lotta alla criminalità organizzata e mafiosa al centro dell'agenda politica. Innegabile è, infatti, come vi sia stato, nel contrasto alla criminalità mafiosa, nonostante gli eccellenti risultati conseguiti da Forze dell’ordine e magistratura, un abbassamento della guardia che, di certo, non giova neanche alla credibilità internazionale del nostro Paese. Bisogna che lo Stato riaffermi con forza la volontà di sconfiggere le mafie e che a tale scopo destini ogni risorsa possibile. Ma l'affermazione di un più generale principio di legalità non può risultare vincente se non facendo ricorso a tutte le energie sane del Paese, promuovendo al suo interno un circolo virtuoso che coinvolga innanzitutto le giovani generazioni.
A tale proposito sarebbe utile ed importante che anche all'interno delle scuole venisse istituzionalizzata la promozione e la diffusione della cultura della legalità. Ai giovani deve essere trasmesso con forza e chiarezza il messaggio che l'illegalità non paga, anche attraverso una rivitalizzazione dell'etica della responsabilità individuale e sociale. Allo stesso modo bisogna che alle forze produttrici del Paese risulti del tutto evidente come la stessa libertà d'impresa si affievolisca in presenza di attività criminali che ne imbrigliano la crescita, rallentando, di fatto, lo sviluppo economico e sociale della collettività.
Appare, infatti, del tutto ovvio come la crescita complessiva di un Paese sia direttamente proporzionale al livello di sicurezza che lo Stato garantisce ai suoi cittadini; sicurezza che per il suo alto valore dovrebbe, a pieno titolo, essere considerata un diritto costituzionalmente riconosciuto.
Quale modello di sicurezza
Il sistema sicurezza va considerato in un’ottica completamente nuova, che veda coinvolti, non solo gli “addetti ai lavori” (Autorità di Pubblica sicurezza, Forze di polizia, magistratura ecc.), ma anche le varie componenti sociali nella sfida, non solo culturale, di perseguire una sicurezza che si coniughi con la solidarietà e le libertà.
Solo sulla base di tali aspetti possiamo impostare una visione di comunità partecipata incentrata su una cultura della solidarietà ed orientata verso il progresso civile. La sicurezza si configura, così, sia come una dinamica integrata di prevenzione e di repressione del fenomeno criminoso, sia come una forza di riconoscimento e di promozione dello sviluppo e della coesione sociale e individuale.
Tale esigenza è supportata dal vaglio di importanti studi e ricerche dei maggiori istituti di rilevazione statistica nazionale, dove si conferma ancora una volta che i cittadini italiani, soprattutto in alcune parti del Paese, si sentono sempre più insicuri.
Infatti, si tratta di un’epoca nuova in cui il disorientamento, lo stress da perdita di ruolo, nel lavoro come in famiglia, produce un’aggressività di tipo diverso, una litigiosità quasi quotidiana. Non esiste più la speranza di un percorso lavorativo inquadrato nell’ambito di una qualche “carriera” personale.
Infatti, pensando al lavoratore come ad un individuo che interagisce soprattutto sul posto di lavoro con pratiche di socializzazione, possiamo affermare che egli tende poi a riprodurre lo stesso modello lavorativo in famiglia, diventando a sua volta agente di socializzazione per i propri figli, ma nella situazione attuale il risultato che si ottiene appare veramente preoccupante.
Si avranno, infatti, individualità sempre più insicure, precarie e senza punti di riferimento, che interiorizzeranno valori e modelli sociali basati sull’incertezza, sulla precarietà e sulla paura, coinvolgendo soprattutto i giovani, i quali, sentendosi perennemente “precari e flessibili” sono preoccupati, demoralizzati ed impossibilitati di programmare il proprio futuro.
Il Silp per la Cgil ritiene quindi indispensabile inquadrare il tema della sicurezza in un’ottica che tenga conto anche delle politiche sociali e del lavoro, di come “pensare” un modello sociale che non sia già di per sé causa di malessere diffuso. Si tratta di integrare le politiche della sicurezza con un nuovo progetto di cittadinanza, dove la legalità, il lavoro e la famiglia tornino ad essere i termini chiave della convivenza civile.
L'affermazione di tale modello di sicurezza per rispondere alle esigenze reali del Paese non può prescindere dalla riaffermazione forte e convinta della centralità dell'Autorità di Pubblica sicurezza. Centralità che trova la sua massima espressione soprattutto attraverso la rivitalizzazione del potere ordinamentale, vincolante per tutte le Forze di polizia che operano nell'ambito della provincia, del questore inteso come massimo responsabile tecnico dell'ordine e della sicurezza in ambito provinciale. Questo, però, non vuol dire porre i questori in un isolamento istituzionale; al contrario è necessario che nel Paese si consolidi quel principio di sicurezza partecipata che garantisca, sia pure con competenze e responsabilità diversificate, una gestione più efficiente, democratica e trasparente delle attività di sicurezza.
Su questo versante, importante diventa il ruolo che possono e devono svolgere gli Enti locali che, con la loro capacità di coinvolgimento dei cittadini, possono contribuire validamente alla realizzazione di articolati progetti istituzionali, anche in ordine alla lotta alle eco-mafie, da realizzarsi a medio e a lungo termine. Bisogna, quindi, che vengano rafforzati i patti di legalità ed i protocolli di intesa stipulati sul territorio; strumenti attraverso i quali è possibile scongiurare sia le sempre presenti tentazioni di militarizzazione delle città, sia l'altrettanto dannoso ricorso alla privatizzazione della sicurezza.
L'istituzione di nuovi Commissariati in grado di garantire una più capillare presenza sul territorio è certamente una prima risposta ferma e decisa dello Stato al fenomeno della privatizzazione e della sicurezza sussidiaria. Di fronte ad una presenza sempre più dilagante del terrorismo internazionale occorre procedere, abbandonando inutili arroccamenti, alla stipula di accordi internazionali che mettano le Forze di polizia dei singoli Paesi nelle condizioni di operare in stretta sinergia, al fine di migliorare l’attività di contrasto, allo stato poco foriera di risultati.
In tale ottica diviene fondamentale e necessario procedere, in tempi brevi, ad un ammodernamento delle tecnologie informatiche, ad una condivisione delle banche dati, indispensabili per meglio fronteggiare il fenomeno del terrorismo e della criminalità organizzata.
Il modello di una buona politica della sicurezza implica, quindi, l’inclusione fattiva di alcuni livelli di analisi:
• la cultura della legalità;
• le politiche del welfare - precarietà e lavoro;
• l’integrazione sociale;
• le dinamiche di conformazione sociale;
• il ruolo di fattori strutturali socio-culturali nello sviluppo di comportamenti criminosi;
• la nuova prevenzione;
• il ruolo delle vittime;
• i conflitti internazionali e globalizzazione;
• il ruolo dei mass-media.
All’interno della progettazione di un modello efficace e incisivo di sicurezza, una certa attenzione deve essere rivolta al ruolo delle politiche locali della sicurezza.
La problematica delle politiche locali di sicurezza si è imposta in Italia a partire dai primi anni ’90 a seguito di una crescente domanda sociale di sicurezza da parte dei cittadini che, pur continuando a riguardare le Forze di polizia, si è indirizzata sempre più direttamente verso gli amministratori locali e soprattutto verso i sindaci. Questo processo di posizionamento del bene pubblico a livello di governo locale, può essere ricollegato a vari fattori essenziali e per molti versi interconnessi, di ordine socio-culturale, giuridico e politico.
Dal punto di vista normativo, in particolare, secondo le linee guida – Costituzione, T.U.L.P.S., legge 121/81 – spetta all’Autorità nazionale di Pubblica sicurezza, infatti, (Ministro dell’Interno – legge 121/1981) assicurare l’unità e la funzionalità del sistema di sicurezza nel suo insieme.
Spetta, al Ministro dell’Interno per la natura stessa delle funzioni cui è preposto, garantire la sicurezza pubblica e la difesa civile, il soccorso pubblico e il supporto alle autonomie locali.
Tuttavia, all’interno di questa cornice normativa generale, si inserisce una normativa secondaria detta appunto di politiche integrate di sicurezza che passa per alcune tappe importanti, dai protocolli d’intesa per la sicurezza tra Comuni e Prefetture, al patto per la sicurezza tra il Ministero dell’Interno e l’Anci, fino ai patti per la sicurezza con le Regioni.
Queste considerazioni cercano di rimarcare la centralità delle Forze di polizia all’interno della definizione delle politiche della sicurezza, evitando l’esasperazione di localismi che rischiano di degenerare in particolarismi. La Polizia di Stato è espressione, insieme alle altre Forze di polizia, della volontà dello Stato di tutelare e promuovere veri “beni comuni” come la sicurezza e la legalità, che non possono essere garantiti in modo parcellizzato e dislocato o ancor peggio di parte.
Nelle brevi riflessioni riportate, abbiamo avuto modo di comprendere che ad una evoluzione così veloce del contesto sociale, non sta corrispondendo un’altrettanto efficace politica della sicurezza. Il sentimento sociale di disagio, di impotenza dei cittadini, se non capito e governato, può comportare dei rischi veramente preoccupanti e tra questi:
• aumento delle disuguaglianze sociali;
• ricerca di sicurezza individuale “fai da te”;
• “sfilacciamento” del tessuto sociale;
• diffidenza o paura del diverso, “razzismo”;
• proposte di creazione di nuove Polizie regionali con compiti repressivi;
• inasprimento delle pene e ulteriore repressione;
• strumentalizzazione politica;
• accettazione di soluzioni repressive che violano di fatto i principi fondamentali delle libertà personali, come nel caso della privacy (impronte per tutti, telecamere ovunque ecc.).
Sempre più spesso, a causa della fortissima richiesta di sicurezza da parte dei cittadini e della risposta non sempre soddisfacente che ricevono, gli stessi si rivolgono ad Istituti di vigilanza privata, non solo per esigenze personali, ma anche collettive, fino a crearsi in certe zone, dei veri e propri surrogati delle Forze di polizia, spinti anche dal martellante messaggio governativo che sembra voler scardinare tutto ciò che è “pubblico” (Istruzione, Sanità ecc.) in favore del “privato”.
Un risultato questo, veramente pericoloso: le persone più deboli e povere sono sempre più insicure e indifese con la conseguenza di un aumento delle disuguaglianze e dell’emarginazione sociale.
Il rischio maggiore, quindi, è che mentre cresce l’allarme sociale, anche a causa della strumentalizzazione politica, anche per l’aumento della criminalità predatoria, non sembra che da parte degli organi preposti corrisponda un’adeguata reazione verso questi fenomeni. Anzi, dai confronti politici emerge una gara a proporre soluzioni e modelli che accrescono la confusione fra i cittadini, alimentandone inevitabilmente l’insicurezza.
La riforma
degli apparati di sicurezza
La legalità è il grande principio dentro il quale trovano collocazione senza mai essere in competizione: il rispetto della democrazia, la giustizia sociale, la solidarietà, la non violenza, insieme a tanti altri principi morali. Negli ultimi anni di vita sociale la legalità è stata spesso ferita, ed il senso delle istituzioni è apparso via via sempre più debole; la coscienza civile e quella morale sembrano aver avuto delle battute di arresto.
Numerosi sono stati gli interventi della magistratura tesi a far luce su tanti casi di corruzione; numerose sono state le proposte (che spesso poi hanno trovano attuazione) di sanatoria di illeciti amministrativi che denotano l’impotenza dello Stato nell’accertamento e nella repressione delle violazioni. Questa tendenza politica fa correre il rischio di diseducare i cittadini al rispetto delle regole, contribuisce all’allontanamento degli stessi dalle Istituzioni, alimenta la diffidenza verso tutto ciò che è “pubblico”. E mentre cresce il distacco dalle Istituzioni, diminuisce il “senso civico”.
In alcune zone del nostro Paese, la ricaduta economica negativa delle estorsioni, determina una mancata crescita in termini di sviluppo sociale e di senso civico, poiché l’applicazione del “pizzo” alle categorie produttive, prima ancora di imposizione di dazione di denaro, rappresenta l’imposizione di una condizione di sudditanza psicologica dell’imprenditore e del commerciante. Ciò incide direttamente sulle libertà degli individui, libertà di pensiero, di espressione di autodeterminazione.
Le società democratiche necessitano di un nuovo cammino di riconoscimento proprio del “bene comune” della sicurezza e della legalità, che non può fondarsi su azioni contrarie al rispetto della libera espressione della persona, della famiglia, della cultura.
Una riforma degli apparati preposti alla sicurezza deve tenere conto di un tale contesto, per individuarne le criticità e approntare progetti di riforma e interconnessione che non siano avulsi dalla realtà concreta che vive la società.
Prospettare riforme che provocano confusione e, talvolta, scollamento tra chi è preposto alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e alla difesa del bene comune, ed il cittadino, ha sempre effetti collaterali a medio e lungo termine non positivi.
Non è più procrastinabile procedere ad una seria e chiara ripartizione di compiti tra le due Forze di polizia a competenza generale. Sembra, infatti, di potere affermare che duplicazioni di compiti e di funzioni non serva a realizzare più accettabili standard di sicurezza. Bisogna avere il coraggio di affermare che nel nostro Paese le numerose Forze di polizia presenti non si integrano, proprio perché le rispettive competenze sono confuse e non delineate con chiarezza; in altri termini continue e quotidiane sono le sovrapposizioni che si registrano a tutto discapito dell'ottimizzazione delle risorse di uomini e mezzi disponibili.
È urgente, quindi, che si metta mano ad una riforma strutturale che liberi energie e renda più efficiente l'attività di contrasto alla criminalità determinando specializzazioni in sintonia con quanto accade negli altri settori della Pubblica amministrazione. In tale direzione non può non andare l'auspicata riforma della Guardia di Finanza che dovrebbe essere connotata come Forza in grado di contrastare in via esclusiva e professionalmente elevata la criminalità economico-finanziaria. Specializzazione, però, non significa non operare in stretta sinergia. Le Forze di sicurezza del Paese, al contrario, devono essere messe nelle condizioni di lavorare con crescente cooperazione favorendone lo scambio di informazioni anche mediante l'accesso alle singole banche dati; tutto ciò sarà possibile solo se si procederà alla realizzazione di un efficace e concreto coordinamento la cui responsabilità faccia capo sotto il profilo politico al Ministro dell'Interno e sotto quello tecnico operativo al Capo della Polizia.
Senza un progetto complessivo ed un concreto auspicabile coordinamento delle Forze di polizia, qualsiasi proposta sarebbe inadeguata alle esigenze di sicurezza perché non garantirebbe, ad esempio, risposte flessibili in grado di adeguarsi velocemente alle emergenze e alle aggressioni criminali.
In altri termini il Silp per la Cgil ritiene che l'attuale organizzazione strutturale degli apparati di sicurezza, anche alla luce della crescente riduzione di risorse, non risponda a quei criteri di modernizzazione (snellimento dei lacci burocratici, maggiore flessibilità organizzativa, riduzione della catena di comando) indispensabili per capitalizzare le risorse soprattutto in considerazione dell'evoluzione tecnologica, cui fanno ricorso le grandi consorterie criminali nella gestione del malaffare.
Sicurezza e giustizia
È ormai sufficientemente chiaro come sicurezza e giustizia costituiscano due facce della stessa medaglia. Un Paese poco sicuro è anche un Paese poco giusto e viceversa. Anche su questo terreno non può non essere negativa la valutazione sull'operato del governo. La riforma della Giustizia, infatti, così come è stata pensata dalla maggioranza di governo non risolve nessuno dei problemi che pure sono presenti. Non viene risolta la questione connessa alla lungaggine dei processi, né viene dato nuovo impulso al ricorso ai cosiddetti riti alternativi. Allo stesso modo non si è proceduto ad alcuna riforma del Codice penale, che possa determinare una seria depenalizzazione dei reati minori. Né sembra rispondere all'esigenza di una giustizia rapida ed efficiente l'istituzione del Giudice di Pace soprattutto in considerazione della scarsità di risorse ad esso destinate. Di contro sarebbero auspicabili provvedimenti strutturali che realizzino quei basilari principi della effettività e della certezza della pena, senza i quali difficile diventa affermare il carattere deterrente della sanzione penale.
A tale proposito andrebbe promosso un sereno e serio dibattito in merito ad un’eventuale applicazione della pena dopo il secondo grado di giudizio ripristinando quel ruolo di Giudice di Legittimità e non di Merito disegnato per la Suprema Corte di Cassazione. Bisogna, inoltre, determinare una nuova e più puntuale attenzione per i cittadini vittime dei reati sempre più spesso abbandonati a se stessi. Parimenti, il Ddl sulle intercettazioni comporta una diminuzione della capacità investigativa a causa della limitazione dei casi consentiti, della restrizione delle autorizzazioni e della loro durata, determinando, di conseguenza, una maggiore impunità. In questo modo, si va a ridimensionare il ruolo degli organi ai quali la Costituzione affida la salvaguardia della legalità, consegnando agli investigatori armi sostanzialmente spuntate per la lotta al crimine.
Anche gli scudi fiscali sono diretti, in definitiva, a risolvere problematiche economico-finanziare, piuttosto che educare alla legalità e fare in modo che i proventi siano realmente investiti in sviluppo e sostegno sociale. Parallelamente, sul piano delle risorse investigative, non corrisponde un progetto di potenziamento di mezzi per la lotta alla criminalità economica e similare (bancarotta, falso in bilancio, riciclaggio). Questo mette in evidenza la mancanza di volontà politica per permettere agli organi preposti di disporre di strumenti per effettuare controlli come ad esempio, la tracciabilità dei capitali in rientro. D’altronde, politiche che hanno come messaggio implicito un “condonismo giudiziario” come soluzione finale a fenomeni endemici, non possono fare altro che acuire il senso di illegalità e di sottocultura.
A questo si riferisce la preoccupazione per l’adozione di provvedimenti che comporteranno inevitabilmente l’abbassamento del livello di legalità, insieme ad una serie di effetti reali, come - nel caso del Ddl sul processo breve - l’estinzione di un numero considerevole di processi in corso, oppure - nel caso della piaga della corruzione anche in tristi circostanze come la ricostruzione post-terremoto dell’Aquila - il rafforzamento del fenomeno della corruzione e del controllo del territorio da parte delle organizzazioni mafiose.
Tale clima di sfiducia è spesso corroborato dalla continua delegittimazione dell’Ordine Giudiziario, a tutti i livelli, spesso perché in contrasto con interessi individualistici e lobbistici. Come si evince dalla politica penitenziaria dell’attuale governo, dove, per risolvere il problema del sovraffollamento e della esiguità dell’edilizia carceraria, si è pensato bene di attenuare il sistema sanzionatorio per chi deve scontare un breve residuo di pena, facendo gravare sulle Forze dell’ordine un ulteriore appesantimento del sistema di controllo, cui non corrisponde un rafforzamento delle stesse Forze di polizia, prospettando, così, un vero e proprio indulto mascherato.
Le politiche sull’immigrazione
Un altro dei problemi che merita considerazione e crea confusione ed insicurezza è sicuramente la strumentalizzazione che si registra intorno alla questione dell’immigrazione. Troppe sono state le battaglie politiche e i dibattiti televisivi che hanno “approcciato” ai fatti legati all’immigrazione con carattere di emergenza, prospettandoci situazioni in cui bisognava a tutti costi difendersi da un’ipotetica invasione. La popolazione è diventata sempre più diffidente nei confronti di un problema che andrebbe invece inquadrato in una più giusta ed ampia dimensione. Il rispetto dovuto all’immigrato in quanto tale, si interseca, infatti, nel nostro Paese con il ruolo significativo degli immigrati nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo.
Recenti indagini demografiche, infatti, fotografano un aumento degli immigrati regolari dal 2008 (4,3 milioni) al 2009 (4,8 milioni) e una diminuzione degli irregolari. Mentre crescono le assunzioni a favore degli immigrati (+ 222mila nel 2009). Questo significa che gli immigrati regolari e integrati lavorativamente contribuiscono attivamente alla ricchezza del Paese, in termini di Pil. Gli immigrati, insomma, se non demonizzati e strumentalizzati, costituiscono una risorsa reale per il nostro tessuto socio-economico; solo politiche discriminatrici e recriminatrici, unite ad artifici mass-mediatici, generano conflitti sociali talvolta eclatanti come quelli di Rosarno e di Milano, segno manifesto di fallimenti sia delle politiche nazionali dell’immigrazione e dell’integrazione, sia di quelle locali dell’accoglienza e dell’inserimento sociale e culturale. Paradossalmente, perciò, alcune zone significative della società italiana, comprese quelle che dipendono dal lavoro degli immigrati, vivono a volte un atteggiamento di rifiuto e di diffidenza, che sfiora e sfocia anche in atti di razzismo e di violenza anche urbana, che nascondono dure realtà di schiavitù e nuovo caporalato.
Al riguardo, vale la pena sottolineare che sull’intera questione dell’immigrazione svolge un ruolo determinante l’azione dei mass-media, la quale contribuisce anche involontariamente a creare confusione fra immigrazione e criminalità, fra extracomunitario e clandestino, fra marginalità sociale e comportamenti devianti.
Bisognerebbe allora mettere in risalto che, una chiara e corretta informazione, un’incisiva e visibile lotta alla criminalità, agganciata ad una politica dell’accoglienza e dell’integrazione, ridurrebbe di fatto le chiusure culturali e la richiesta di politiche difensive, oltre che gli atteggiamenti xenofobi.
Il Silp per la Cgil ritiene che l’integrazione sia sicuramente una delle direttrici per consolidare la convivenza di diverse etnie nel nostro Paese che, abbinata ad un pieno rispetto delle regole, restringerebbe, di fatto, la strumentalizzazione della clandestinità a possibile serbatoio per le organizzazioni criminali, oltre a ridurre le possibilità per queste ultime, di minacciare la sicurezza di tutti.
In concreto, quello dell’immigrazione appare un problema che andrebbe meglio governato e che non può essere risolto in maniera sbrigativa e soltanto ope legis, né tantomeno solo sul versante repressivo o nel breve termine.
Dal punto di vista delle attuali politiche sull’immigrazione, si vede l’incontrovertibile fallimento delle politiche sull'immigrazione promosse dal governo. Esse, infatti, considerando il fenomeno migratorio come portatore di criminalità e sottolineando l'indimostrabile equazione “immigrazione uguale delinquenza”, non hanno determinato alcuna condizione in grado di favorire l'integrazione dei cittadini extracomunitari lasciandoli, di fatto, in balia delle organizzazioni criminali che gestiscono quello che è diventato un vero e proprio traffico umano. Non è stata garantita alcuna accettabile condizione umana a quanti, nel rispetto delle leggi, raggiungono il nostro Paese solo nella speranza di migliorare il loro livello di vita. Al contrario la macchinosità della legge spinge sempre più verso l'emarginazione gli immigrati, determinando condizioni all'interno delle quali diviene facile ed agevole attingere da parte della criminalità nazionale ovvero internazionale. Viceversa, l'affermazione di un principio di legalità dovrebbe favorire fenomeni di integrazione e ridurre le discriminazioni a tutto vantaggio della pacifica convivenza tra genti diverse.
Certo è che qualsiasi integrazione non può realizzarsi se non nel pieno rispetto delle leggi. Soltanto la violazione della legge dovrebbe determinare, sia pure nel pieno rispetto della dignità della persona, una corretta politica delle espulsioni. Espulsioni, tra l'altro, che proprio la legge Bossi-Fini ha reso più complicate per i cittadini immigrati che hanno commesso reati. Proprio per il rispetto di una cultura giuridica e sociale va ribadito il no all'introduzione nel nostro ordinamento del reato di ingresso clandestino. La clandestinità si combatte anche attraverso idonei strumenti di cooperazione internazionale, stringendo protocolli con i Paesi maggiormente interessati al fenomeno migratorio e non introducendo sanzioni penali per contrastarla. Si prende atto, anche, del fallimento in materia di esecuzione delle espulsioni, a causa della creazione di nuove fattispecie delittuose, sostituendo, di fatto, l’espulsione con la carcerazione. Questo sistema di punizione non farà altro che costare risorse all’Amministrazione della Giustizia e dell’Interno, portando al sovraffollamento carcerario, alla difficoltà pratica di eseguire i decreti di espulsione.
Particolare attenzione va posta ai Centri di permanenza temporanea, ai quali bisognerebbe fare ricorso solo come estrema ratio trasformandoli radicalmente in centri vivibili, all'interno dei quali distinguere l'assistenza dalla vigilanza. La cosiddetta detenzione amministrativa, prevista per un massimo di 180 giorni, si espierà in strutture del tutto inidonee ad una permanenza dignitosa, aprendo la strada a situazioni-limite. In vista dell’applicazione della direttiva europea 215/2008, il Parlamento italiano dovrà riformulare profondamente il sistema delle espulsioni previsto dalla legge Bossi-Fini.
Infine non si può non sottolineare come l'enorme mole di lavoro che grava sugli Uffici Immigrazione delle questure determini da un lato pessime condizioni di vita e di lavoro per i poliziotti e dall'altro esasperi il cittadino immigrato costretto a code lunghissime, spesso in condizioni in cui non è minimamente salvaguardata la sua dignità. Sarebbe, quindi, opportuno delegare ai Comuni la raccolta della documentazione mirante ad ottenere il permesso o il rinnovo del soggiorno, così come bisognerebbe favorire la presenza agli sportelli degli Uffici Immigrazione delle questure di associazioni di volontariato che possano cooperare con gli operatori di polizia, liberando, così, energie che potrebbero essere utilizzate per costituire apposite sezioni di Polizia giudiziaria in grado di investigare sui reati che vedano i cittadini immigrati come vittime o artefici degli stessi.
Ruolo della rappresentanza
sindacale nello sviluppo
di un nuovo modello di sicurezza:
verso una nuova cittadinanza
Per ridare fiducia alla gente, appare evidente che bisogna mettere in campo innovate strategie di intervento basate principalmente su un concetto di sicurezza di “prossimità”. Sarebbe auspicabile rendere tutte le città più sicure, più vivibili. Per città sicure, ovviamente non si intende la città presidiata o blindata. La città sicura è quella controllata ma vissuta, pattugliata ma non soffocata, partecipata e non degradata, solidale e accogliente. Una moderna strategia di sicurezza dovrebbe infatti, essere un incrocio di politiche sociali e istituzionali. Un insieme di iniziative con cui tutti i soggetti pubblici e privati, che hanno possibilità d'intervento a fianco dell’apparato sicurezza in senso proprio, contribuiscono a garantire al cittadino la fruizione dei suoi diritti.
Con queste premesse si profilano alcune istanze irrinunciabili:
- una consapevole condivisione delle linee di intervento dell'Amministrazione dell'Interno da parte di tutti i soggetti che concorrono a garantire libertà, giustizia e sicurezza;
- una determinante partecipazione dei cittadini, perché si possa non solo operare col conforto della loro fiducia, ma anche valorizzare al meglio le risorse delle autonomie locali, della stessa società civile e dell'iniziativa privata;
- un moderno ed efficiente modello di sicurezza, che deve riaffermare con chiarezza il ruolo centrale dell'Autorità civile di Pubblica sicurezza, attraverso i rafforzamento del potere ordinamentale del questore, affinché sia effettivamente vincolante per tutte le Forze di polizia. In tale ottica la legge 121/81 dovrebbe essere rivista, acciocché sia chiaro il ruolo centrale dell’Autorità provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, cui devono essere forniti strumenti efficaci con i quali coordinare a livello provinciale tutte le FF. di PP.;
- trovare e praticare un punto d’equilibrio in grado di utilizzare al meglio le conoscenze e le professionalità acquisite dai diversi Corpi di Polizia in un’ottica di sinergia che eviti qualsiasi pericoloso tentativo di “sconfinamento” rispetto alle politiche sulla sicurezza pubblica che continuando a fare capo al Ministro dell’Interno devono avere valenza nazionale.
Nell’ottica di questo ragionamento, bisogna determinare una nuova e più aggiornata dinamica delle relazioni istituzionali, nella quale gli Enti locali e le Regioni divengono parte attiva nel processo di realizzazione del “prodotto sicurezza”, anche facendo leva sulla partecipazione di associazioni che rappresentano specifiche esigenze della società civile. Quindi, le politiche di sicurezza non possono che partire dalla prevenzione, ma da una nuova tipologia di prevenzione, che possa essere direttrice principale per contrastare l’insicurezza.
Occorre allora saper integrare pienamente prevenzione e repressione con un’azione totalmente nuova per ritrovare la giustizia ed il diritto alla sicurezza. È necessario condividere l’esigenza di considerare il territorio, e le sue variabili sociali, in una unica dimensione in base alla quale definire avanzati programmi anticrimine, coinvolgendo chi del territorio ne è la prima e piena espressione democratica, cioè i sindaci, nonché le parti sociali. Attraverso questi nuovi strumenti, i protocolli di legalità e quelli di intesa sulla sicurezza tra Prefetture e Comuni si possono innescare dei meccanismi positivi atti a rendere più trasparente e chiaro il lavoro di controllo del territorio. Prevenzione e politiche integrate di sicurezza sono, quindi, alcune soluzioni proposte per arginare il senso di insicurezza sempre più dilagante nei cittadini.
E allora qual è la sicurezza di cui tutti parlano? È appena il caso di chiarire in via definitiva che le politiche sulla sicurezza fin qui licenziate dal governo non rispondono affatto all’esigenza di determinare condizioni di legalità, esse, infatti, sembrano esclusivamente rivolte a garantire “l’ordine”. Il governo in primo luogo, in qualche modo, si chiama fuori trasferendo su altri soggetti la responsabilità delle proprie politiche fallimentari.
Il Silp per la Cgil deve rivendicare sul territorio e tra la gente, attraverso la propria idealità e progettualità, il proprio insostituibile ruolo nella elaborazione e nell’attuazione delle politiche integrate di sicurezza, proponendo, tra l’altro, la costituzione di tavoli permanenti tra le istituzioni che si occupano di sicurezza, gli enti locali e le parti sociali, che affrontino in primo luogo ed in maniera costante il tema della sicurezza.
Un nuovo modello di sicurezza chiama in causa una nuova cittadinanza, che significa un nuovo senso di appartenenza e di convivenza civile, in modo da:
1) creare strumenti permanenti di studio di analisi e di monitoraggio sui fenomeni di illegalità, allargati agli organismi di rappresentanza della società civile;
2) rivitalizzare i patti territoriali sottoscritti tra le Istituzioni presenti sul territorio (Comune – Provincia - Ufficio Territoriale di governo) e Forze dell’ordine;
3) promuovere un tavolo per la realizzazione di un progetto integrato sulla sicurezza urbana, con la partecipazione delle associazioni di categoria e delle rappresentanze circoscrizionali dei cittadini, che elabori un modello di città più partecipata e più vissuta;
4) procedere all’individuazione di strumenti che possano offrire un valido ed immediato aiuto alle vittime dei reati soprattutto se appartenenti alle fasce più deboli della cittadinanza;
5) favorire l’affermazione di una cultura della legalità ipotizzando un percorso formativo che coinvolga, in un’ottica di cooperazione istituzionale, le scuole della città;
6) assumere ogni possibile iniziativa (in un quadro di compatibilità normative) che possa alleviare i disagi cui vanno incontro i cittadini non comunitari interessati alla regolarizzazione ovvero alla concessione (e rinnovo) dei permessi di soggiorno.
I mezzi di attuazione di tali istanze, si possono individuare in queste iniziative:
- riprendere le iniziative in grado di affermare il principio di “polizia di prossimità” che non può avere come unico risultato la figura del “poliziotto di quartiere”;
- impegnarsi sul terreno della riforma strutturale degli apparati preposti alla sicurezza individuando specifiche competenze di ogni singola istituzione (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza) in modo da evitare sprechi di risorse e duplicazioni di funzioni;
- invocare con forza la realizzazione di forme di reale coordinamento tra le Forze di polizia, ponendosi come primo, minimo, obiettivo la realizzazione di sale operative comuni;
- assumere ogni iniziativa che eviti la riduzione d’organico e favorisca lo svecchiamento della polizia ripristinando le pratiche concorsuali in grado di garantire un accettabile turn-over;
- chiedere l’istituzione di nuovi commissariati di zona in modo da garantire un’effettiva presenza degli operatori sul territorio.
Ma nessuna sicurezza potrà essere garantita se non viene con urgenza ripristinato il valore della legalità, nessuna azione preventiva o repressiva che sia, sortirà benefici effetti se non si riafferma con forza il valore etico connesso al rispetto delle regole, di tutte le regole che costituiscono l’ossatura portante di uno Stato di diritto. Se, al contrario, si continuerà a garantire impunità, se saranno ulteriormente svuotati di contenuti i principi della certezza, dell’immediatezza e dell’effettività della pena, se si continueranno a licenziare leggi che non garantiscono l’effettuazione dei processi, se si continua a mettere in discussione il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, se la scure della giustizia continuerà a colpire quasi esclusivamente i cosiddetti reati da strada, mostrandosi incapace di agire nei confronti delle potenti organizzazioni criminali, se non cesserà l’opera di delegittimazione dell’Ordine Giudiziario, se, in altri termini, non si determineranno nel Paese le condizioni di legalità, qualsiasi riferimento ad un’astratta sicurezza diventa un vuoto esercizio dialettico privo di sostanziali effetti. È su questo terreno che il Silp per la Cgil proporrà le politiche sulla sicurezza, proprio perché fortemente convinto che solo l’affermazione forte del principio di legalità potrà contribuire a garantire la sicurezza dei cittadini in un contesto di ordinata e pacifica convivenza civile.
FOTO: Salvatore Ingrosso
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