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Agosto-Settembre/2010 - Articoli e Inchieste
Terzo Congresso Silp per la Cgil
Relazione del Segretario generale Claudio Giardullo
di

Il contesto attuale e le strategie
per il futuro. I diritti degli operatori, il modello
di sicurezza. Silp per la Cgil

Il contesto
Noi celebriamo questo 3° Congresso del Silp per la Cgil mentre il Paese subisce gli effetti della maggiore crisi economica internazionale dagli anni della Grande Depressione. Una crisi che ha già avuto pesanti ripercussioni sull’occupazione e sul sistema delle imprese, e che in Italia produrrà, inevitabilmente, ricadute significative anche sul versante sociale e della tutela dei diritti dei cittadini, specie se verrà fronteggiata guardando soltanto al versante finanziario, e non si terranno nel debito conto gli aspetti strutturali della vita del Paese, come l’economia reale, il welfare e l’efficienza dello Stato.
La società italiana all’epoca della crisi è definita “testardamente replicante” dal Censis nel suo ultimo rapporto, cioè immutabile nel suo modello di sviluppo, anche di fronte alle nuove sfide che la crisi ci impone. Un’immutabilità che ha i suoi aspetti positivi, come quello che è considerato il motivo di fondo del ridotto impatto della crisi sul nostro sistema bancario, e cioè l’alta propensione al risparmio e la bassa propensione all’indebitamento al consumo degli italiani, un fattore, quindi, strutturale del Paese e non un modello finanziario virtuoso. E ha i suoi aspetti negativi, questa immutabilità, che riguardano soprattutto il Mezzogiorno, per la maggiore esposizione della fascia più debole della popolazione e dei giovani ad un ulteriore impoverimento, e all’assenza di un’accettabile prospettiva di vita futura. Ma anche la sicurezza, poiché nel Mezzogiorno le aziende a bassa capitalizzazione, e, quindi, più esposte alla crisi, sono oggetto di specifico interesse della criminalità mafiosa, che si sta inserendo nella loro grave situazione di carenza di credito con l’obiettivo della progressiva sostituzione di aziende legali con imprese mafiose, attraverso racket e usura, realizzando, contemporaneamente, un rafforzamento delle sue possibilità di gestione dell’immigrazione clandestina, come la vicenda di Rosarno dimostra.
Ma la domanda ineludibile sulla situazione socioeconomica dell’Italia, in questa fase, è quella posta dall’Istat nel suo ultimo rapporto annuale, e cioè se il nostro Paese sia dotato, o si stia dotando delle risorse materiali e immateriali necessarie per garantire la sostenibilità del cosiddetto “sistema Italia”, se si stia dotando, quindi, di quelle risorse economiche, sociali e ambientali che ogni generazione trasferisce a quelle successive, e che condizionano le possibilità future di godere di un livello di benessere analogo o superiore a quello attuale.
Le risposte che riguardano più da vicino i temi di questo Congresso sono quelle connesse alla sicurezza e alla legalità, cioè a due delle maggiori infrastrutture immateriali del Paese, strategicamente determinanti per puntare ad uno sviluppo economicamente efficace e socialmente equo e, purtroppo, non sono risposte rassicuranti.
La Sicurezza, nonostante il propagandato impegno del governo su questo versante, ha avuto nel 2008 una spesa pari al 4% della spesa complessiva del Paese, a fronte del 6,4 della Germania e del 7,3 del Regno Unito, cioè a fronte di Paesi che non hanno il maggior esercito di mafiosi in servizio permanente effettivo del mondo occidentale, e l’organizzazione criminale, la ’ndrangheta oggi considerata al vertice del crimine internazionale. Mentre è il governatore Draghi, nelle considerazioni finali al rapporto annuale della Banca d’Italia, a ricordarci che stretta è la connessione tra la densità della criminalità organizzata e lo sviluppo, e che nelle tre regioni del Mezzogiorno in cui si concentra il 75% del crimine organizzato il valore aggiunto pro capite del settore privato è pari al 45% di quello del Centro Nord.
La legalità ha subito una duplice riduzione delle risorse, quelle che riguardano le Forze di polizia e quelle destinate all’Amministrazione giudiziaria. Ma a differenza della Sicurezza, sulla quale alta è stata l’attenzione dell’opinione pubblica anche a causa dell’insistenza con la quale il governo ha legato questo tema a quello dell’immigrazione, la legalità ha conosciuto negli ultimi anni un affievolimento del suo ruolo di valore centrale per la convivenza civile e l’esistenza stessa dello stato di diritto.
La corruzione può essere considerata il paradigma di questo processo involutivo: già altissima agli inizi degli anni Novanta, tanto da costituire l’innesco per il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, è considerata oggi un fenomeno sistemico, diffuso a qualunque livello delle Amministrazioni nazionali e locali, e non limitato al solo mondo politico. É un freno allo sviluppo, ha detto ancora il governatore Draghi, mentre le ultime graduatorie internazionali sulla corruzione percepita fanno scivolare l’Italia dal 40° al 63° posto.
E, tuttavia, governo e maggioranza non sembrano particolarmente preoccupati per questa crescita, se con la manovra Finanziaria del 2008 è stato persino abolito il Commissario Anticorruzione, e le sue funzioni sono state attribuite al Ministro della Funzione Pubblica, che oggi cumula in se i ruoli di controllore e controllato; e se il disegno di legge sulla corruzione fatica, in questi mesi, a uscire dalle secche dove sembra essere confinato, mentre quello sulle intercettazioni, che riguarda uno strumento fondamentale di lotta alla corruzione, sta conoscendo una velocità di spinta a dir poco singolare.
Ma anche altri, oltre alla corruzione, sono gli indicatori di questo processo involutivo in materia di rispetto delle regole, come le truffe, che in campo sanitario e assicurativo coinvolgono a volte migliaia di autori; le frodi finanziarie e societarie più facili dopo la depenalizzazione del falso in bilancio; e poi la violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro che provocano ancora un inaccettabile numero di incidenti mortali; e gli illeciti in campo edilizio, e quelli commessi in violazione dei vincoli a tutela dell’assetto idrogeologico del territorio, che troppe recenti tragedie hanno portato alla luce.
Dunque, la violazione o l’elusione delle norme sembra essere la cultura che, in modo inquietante, si sta diffondendo nel mondo produttivo e finanziario, nelle professioni, nei settori pubblici nazionali e locali, nella vita quotidiana di un Paese che ha urgenza di rafforzare l’intero sistema dei controlli.
È un’Italia delle regole e dei diritti, allora, l’idea a cui noi dobbiamo mirare, se vogliamo custodire e riaffermare il senso della res publica e consegnare alle generazioni future le risorse sociali ed economiche necessarie per impedire paurosi passi indietro, sul terreno del livello di civiltà e di convivenza, e delle condizioni materiali di vita.

Le risorse
Ma non sempre questa idea sembra essere il punto di riferimento delle scelte strategico-finanziarie nell’azione di governo. Le due ultime manovre, infatti, hanno mirato al rigore nei conti pubblici intervenendo in modo indiscriminato e non selettivo sulla spesa dei Ministeri interessati alla sicurezza e alla legalità, con il risultato sì di fare cassa, ma di ridurre significativamente anche settori produttivi di questo versante della Pubblica amministrazione. Mentre la flessibilità nell’attuazione della manovra in ogni Ministero, tanto enfatizzata dal Ministro dell’Economia, non è stata in grado, di fronte a percentuali di tagli a due cifre, di impedire questo effetto distruttivo.
Inevitabile, dunque, che un taglio lineare del 20% ai fondi delle Forze di polizia nel 2008, pari a circa un miliardo di euro, più un altro taglio lineare del 10% nella manovra di quest’anno, pari a circa seicento milioni di euro, abbiano colpito e colpiranno alcuni sprechi, ma è certo che hanno colpito e colpiranno anche molte attività operative. Tagli che oltre a produrre un’immediata contrazione della conoscenza e della velocità di intervento, renderanno necessario un cambio di modello nella presenza delle Forze di polizia, se non si invertirà la tendenza alla riduzione di fatto degli organici.
È l’entità e la qualità dei tagli che stanno determinando, quindi, la chiusura di uffici territoriali e il ridimensionamento delle Volanti in servizio di controllo del territorio, come a Palermo dove è stata prevista la soppressione delle Volanti dei turni notturni.
Ma anche la compressione delle attività investigative, a causa di un preoccupante ridimensionamento delle ore di straordinario e degli strumenti tecnici a disposizione, che costringe all’utilizzo sempre più frequente e dispendioso delle ditte esterne, come l’emblematico caso delle intercettazioni dimostra.
E la chiusura di molte Scuole di Polizia per mancanza di allievi, segno evidente di un intervento finanziario che appare indifferente alle esigenze di investimento nella più importante risorsa della funzione Polizia, cioè la risorsa umana.
Le manovre degli ultimi tre anni, dunque, hanno ridotto del 30% le risorse per le Forze di polizia, e meno risorse vuol dire meno attività di sicurezza e di lotta alla mafia. Da questa equazione non si sfugge, a meno di dare irresponsabilmente al Paese l’illusione che legalità e sicurezza si possano garantire a prescindere da un chiaro e adeguato impegno finanziario. O tacendo sul fatto che la crisi sta incidendo pesantemente sulle imprese del Mezzogiorno, e che senza efficaci anticorpi sul piano della prevenzione e del contrasto alle mafie una parte dei sacrifici che oggi vengono chiesti al Paese saranno, inevitabilmente, persi a vantaggio delle organizzazioni criminali.
Ma le due manovre finanziarie hanno prodotto anche iniqui tagli alle condizioni economiche e normative degli operatori del Comparto Sicurezza, con buona pace degli impegni assunti in campagna elettorale verso questi operatori, e dei rimbombanti programmi annunciati dal governo.
Anche qui non è in discussione la disponibilità a fare sacrifici per risanare il bilancio dello Stato, è in discussione un’iniqua e inaccettabile visione del governo secondo la quale conta fare cassa esclusivamente a spese dei lavoratori, senza alcuna capacità di distinguere tra spese improduttive e investimenti, tra rendite di posizione e giusta remunerazione per il disagio e la professionalità, tra lavoro generico e indistinto e specificità.
È sulla base di questa visione che il governo voleva tagliare i cento milioni di euro per la specificità del Comparto Sicurezza, inseriti nella Finanziaria di quest’anno dopo la grande manifestazione di ottobre, confermando che, nelle intenzioni dell’esecutivo, la legge approvata su questo tema è una scatola vuota. Ma ha fatto marcia indietro dopo il confronto sulla manovra che si è avuto a Palazzo Chigi l’8 giugno. Un risultato che stiamo difendendo anche in questi giorni con le nostre manifestazioni, mentre il disegno di legge sta andando, come era prevedibile, verso il voto di fiducia al Senato.
La stessa visione che ha ispirato la previsione di un tetto al trattamento economico pari a quello dell’anno precedente, determinando così un obbligo a fare lavoro straordinario in caso di necessità, ma cancellando il diritto, di rango costituzionale, alla remunerazione per quel lavoro se in eccedenza rispetto a quel limite, e ingessando in modo incomprensibile l’attività delle Forze di polizia persino di fronte alle emergenze.
E che ha determinato i tagli ai cosiddetti automatismi, ma che in realtà sono spesso una modalità ragionevole di remunerazione, per una funzione fondata soprattutto sulla prevenzione, che non consente la misurazione delle performance individuali come previsto dal decreto legislativo 150 dello scorso anno, il cosiddetto decreto Brunetta, provvedimento che, per sua espressa previsione, non si applica al Comparto Sicurezza.
E ha fatto escludere, nel testo originario, il pagamento delle missioni all’estero per le Forze di polizia, impedendo di fatto lo svolgimento delle attività di sicurezza in campo internazionale, e persino l’accompagnamento delle persone espulse perché presenti irregolarmente sul nostro territorio.
E ha fatto prevedere, illegittimamente, il blocco del maggiore trattamento economico in caso di promozione di un operatore. Che non è bloccare un automatismo, ma è semplicemente sfruttare un operatore di Polizia che è tenuto alle nuove responsabilità ma è pagato come se non le avesse. Esattamente quello che la Costituzione vuole evitare con l’articolo 36, quando dice che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. Probabilmente l’articolo della Costituzione più “datato” per il governo, il che non lo esime dal rispettarlo fin quando sarà in vigore.
Una specie di allergia, questa di alcuni settori della maggioranza verso il rispetto dei diritti dei lavoratori costituzionalmente garantiti, vista la recente proposta di tagliare anche le tredicesime, poi frettolosamente ritirata dopo la mobilitazione sindacale e la consapevolezza che non avrebbe resistito al primo vaglio di legittimità.
Ed è la stessa visione ragionieristica che fa intervenire la manovra su Istituti di natura previdenziale delle Forze di polizia, come se fossero automatismi economici, dimenticando che la previdenza nel Comparto Sicurezza e Difesa è disciplinata da normativa speciale e non di carattere generale, proprio in ragione della specificità delle funzioni. E gli fa fissare il termine per i passaggio al Tfr senza alcuna previsione circa l’avvio della previdenza complementare nel nostro Comparto.
E che pretende, infine, di sottrarre le risorse già stanziate per il riordino delle carriere, aggiungendo così l’ennesimo voltafaccia ad una lunga lista di impegni non mantenuti verso gli operatori di questo Comparto.
E, tuttavia, quello del riordino non è un tema che riguarda solo il personale, è soprattutto una riforma necessaria, anche dal punto di vista della spesa, perché riordinare le responsabilità e le professionalità vuol dire razionalizzare l’impiego del personale e, quindi, rendere più efficiente e produttivo il sistema. Per questo continueremo a batterci perché non si tocchino i soldi già accantonati, e si prevedano le necessarie risorse strutturali e non quelle una tantum, con le quali non si possono fare riforme che rispondano, soprattutto, alle esigenze di maggiore funzionalità del sistema e di crescita professionale degli operatori.

Strategie e strumenti
Ma per puntare a un’Italia dei diritti e delle regole oltre agli investimenti serve anche un progetto, del quale nell’azione di governo non troviamo, francamente, traccia.
Un progetto che guardi in modo unitario ai temi della sicurezza, della giustizia e del carcere, perché controllo del territorio, investigazioni, processo ed esecuzione della pena hanno connessioni che non possono essere più ignorate. E perché una visione frammentata e scoordinata di questi versanti sta alimentando un senso di sfiducia dei cittadini circa la capacità, e qualche volta persino la volontà, dello Stato di fronteggiare i problemi del Paese sui versanti della sicurezza e della legalità.
Un progetto, dunque, che faccia voltare pagina rispetto all’attuale desolante pendolarismo tra le risposte emergenziali, come quelle legate al sovraffollamento carcerario, e quelle ideologiche e di facciata, frequenti in materia di immigrazione e sicurezza urbana. E sappia affrontare con coerenza alcuni snodi cruciali di una moderna politica di sicurezza e legalità in Italia, come quello della pericolosità sociale, del rapporto tra effettività della pena e diversificazione dei trattamenti carcerari, e dell’utilità di strumenti come il reato di ingresso clandestino, da una parte, e delle intercettazioni, dall’altra.
Il tema di un maggiore utilizzo della pericolosità sociale del reo, come criterio guida di una più efficace politica criminale, ci rimanda all’esigenza di invertire una propagandistica e dispendiosa tendenza a inasprire la sanzione penale nei confronti di figure che appartengono alla marginalità sociale, lavavetri in testa, e non hanno mai occupato, dalla metà del Novecento in poi, il vertice reale della scala di pericolosità. E, contemporaneamente, all’esigenza di invertire l’opposta tendenza che ha portato alla depenalizzazione del falso in bilancio, cioè a una scelta strategica che non ha certamente favorito la diffusione di comportamenti etici in capo economico e finanziario. Aspetto questo che qualche ulteriore preoccupazione la provoca, di fronte all’intenzione del governo di consentire l’avvio di attività imprenditoriali senza autorizzazioni, attribuendo quindi la buona fede a chi autocertifica l’esistenza delle condizioni richieste, e rinviando a successivi, eventuali controlli la verifica del rispetto della legge.
Ed è assolutamente aperta la questione del bilanciamento tra l’idea di effettività della pena e di sicurezza da una parte, e l’aggiornamento della sanzione dall’altro. Una questione che in passato vedeva cittadini, studiosi e operatori di ispirazione più conservatrice privilegiare gli aspetti della effettività della pena e della sicurezza, e quelli di ispirazione progressista propendere per la diversificazione delle sanzioni e la tutela dei diritti. Una questione che oggi non può più essere posta in termini di rigida contrapposizione ideologica di due fronti perché è ormai chiaro che effettività della pena e sicurezza hanno molto a che fare con i diritti dei cittadini, e che la diversificazione delle sanzioni ha a che fare con la possibilità di concentrare risorse sulla maggiore pericolosità criminale, da una parte, e sulle attività di rieducazione dall’altra.
Sul versante dell’utilità degli strumenti a disposizione, fallimentare va considerata la scelta di introdurre nel nostro ordinamento la figura di reato di ingresso clandestino. Al di là delle considerazioni circa il passo indietro sul versante della cultura giuridica che questa scelta ha determinato, resta, infatti, incomprensibile l’utilità di un maggiore impegno organizzativo e, dunque, finanziario del circuito giudiziario e delle Forze di polizia nella gestione di un processo penale che ha il solo scopo di giungere allo stesso provvedimento, cioè l’espulsione della persona condannata, che già si otteneva prima dell’introduzione di quel reato con semplice provvedimento amministrativo e, quindi, con costi sensibilmente inferiori. Uno strumento, dunque, che ha reso più lento e complesso il lavoro di poliziotti e magistrati e non ha determinato alcun significativo miglioramento dei livelli di irregolarità nella presenza nel nostro Paese.
In realtà questa scelta strategica è l’emblema di una politica della gestione dei flussi migratori ancora fortemente legata all’equazione immigrazione uguale criminalità, cioè una concezione tutta ideologica che mira ad alimentare la paura su questo versante e dividere l’opinione pubblica, anziché affrontare pragmaticamente il tema dell’immigrazione, sulla base delle direttrici dei diritti e della legalità.
Una concezione, quella del governo, che non sembra in grado di cogliere il duplice allarme emerso dalla vicenda di Rosarno, dove la grave situazione di sfruttamento di immigrati clandestini - per decenni tollerati perché consentivano l’utilizzo di manodopera a basso costo e quindi rendevano la produzione di agrumi della piana di Gioia Tauro più “competitiva” rispetto ad altri paesi, ed improvvisamente non più tollerati a causa del crollo dei prezzi e dei relativi guadagni - ha messo in evidenza il pericolo concreto di un rafforzamento, attraverso il caporalato, della capacità di gestione dell’immigrazione clandestina, e, quindi, del controllo del territorio da parte delle organizzazioni mafiose, ma anche il pericolo che fenomeni di rottura sociale, sulla falsariga di quanto accaduto nelle banlieu parigine, possano realizzarsi anche nel nostro Paese in assenza di lungimiranti politiche di welfare.
E se di fallimento è lecito parlare rispetto al reato di ingresso clandestino, di rischio bancarotta è, invece, necessario parlare rispetto quanto sta succedendo sul versante delle intercettazioni, cioè di uno dei più importanti strumenti investigativi a disposizione della Polizia giudiziaria.
Nonostante le modifiche subite nel corso dell’esame al Senato, è concreto il rischio che il testo del Ddl Alfano, trasmesso alla Camera, finisca per svuotare di contenuto uno strumento che si è rivelato determinante nella cattura di grandi latitanti. Ma anche nella individuazione di reati gravissimi, come le estorsioni e l’usura, e dei loro autori, che con le nuove norme non potrebbero essere intercettati se l’indagine non viene avviata come indagine di mafia. E tutto questo proprio nel Paese in cui, secondo un recentissimo rapporto del Ministero dell’Interno presentato in Commissione Antimafia, la mafia s.p.a. è la prima azienda con un fatturato di 135 miliardi di euro e un utile netto di 78 miliardi. Controlla il territorio economico con un giro d’affari del credito illegale di 13 miliardi di euro, ha usurato nel 2009 duecentomila commercianti, ha estorto denaro a centosessantamila imprenditori. Ha imposto il pizzo all’80% dei commercianti di Palermo e Catania, al 50% di quelli di Napoli, di Bari e di Foggia. Mentre le istanze presentate al Comitato di solidarietà delle vittime sono state solo 151 per le estorsioni e 127 per l’usura.
Diversi sono gli aspetti del testo che annullerebbero ogni utilità di questo strumento investigativo, utilità che risiede, soprattutto, nella possibilità di impostare correttamente l’attività investigativa, sin dal suo avvio. Ma il maggiore effetto stravolgente lo avrebbero lo spostamento della competenza dal gip al Tribunale del capoluogo di distretto, che deciderà in composizione collegiale sulla richiesta di autorizzazione. Che oltre ad essere una singolare deviazione del sistema, visto che nel nostro ordinamento persino provvedimenti limitativi della libertà personale vengono assunti dal giudice monocratico, è, soprattutto, un grave fattore di rallentamento delle indagini e perdita di efficacia delle intercettazioni, perché il sistema giudiziario non è ancora sufficientemente informatizzato e si assisterebbe ad un lento andirivieni di documenti tra Uffici giudiziari, e perché la composizione collegiale comporterebbe tempi organizzativi inevitabilmente più lunghi.
Ancora, l’aver fissato una durata massima per le intercettazioni contraddice, di per se, la dichiarata volontà del governo di combattere la criminalità organizzata, che ha, rispetto allo Stato, piena libertà di scelta dei tempi per svolgere le sue attività, tempi che solo chi ha una concezione astratta della lotta al crimine può immaginare necessariamente coincidenti con quelli riservati agli organi inquirenti. Sui limiti di sessanta giorni complessivi, più una proroga di quindici prevista dagli emendamenti presentati ad aprile di quest’anno, più la possibilità di proroghe di tre giorni in tre giorni in caso di nuovi elementi, va detto che il lavoro degli investigatori passerebbe da difficile e improbo. Poiché, come gli operatori che eseguono intercettazioni sanno, spesso servono diverse settimane di ascolto, a volte per problemi di lingua o dialetti, solo per capire i ruoli delle persone ascoltate, la natura degli affari effettivamente trattati, o le modalità operative del gruppo criminoso. Per reati gravi come la corruzione, dunque, altissimo sarebbe il rischio di non poter raccogliere elementi di prova sufficienti per limiti di tempo inadeguati. Mentre l’efficacia del regime differenziato della durata delle intercettazioni per i reati di stampo mafioso, il cosiddetto doppio binario, è, nella fase iniziale delle indagini, più apparente che reale, perché l’esperienza ha dimostrato che in quella fase la natura mafiosa o comune del reato spesso non è rilevabile, e che solo indagando sui cosiddetti reati satelliti, come truffe, estorsioni, usura o reati in materia di appalti si arriva al crimine mafioso. Le proroghe di tre giorni in tre giorni poi, lungi dal costituire una soluzione costringerebbero gli operatori di Polizia ad un incessante corsa contro il tempo per consegnare le istanze e ricevere le autorizzazioni, che non si concilierebbe, evidentemente, con l’esigenza di dedicare il massimo sforzo nelle attività di indagine.
Incomprensibile, poi, è la scelta di applicare all’acquisizione dei tabulati la stessa disciplina delle intercettazioni, anche a fronte di una oggettiva diversità del grado di intrusione nelle comunicazioni, e di un’altissima utilità dei tabulati nella prima fase delle indagini, quando a ridosso di alcuni eventi criminosi è necessario incrociare con urgenza i dati per avere i primi elementi su cui impostare gli sviluppi investigativi. Le restrizioni procedurali previste su questo versante sarebbero, dunque, un altro fattore di rallentamento delle indagini, proprio nella fase in cui i tempi sono determinanti per formare un attendibile quadro indiziario.
Sul versante delle intercettazioni ambientali, a differenza di quanto accade oggi, l’ascolto sarebbe possibile nei luoghi privati solo se vi è motivo di ritenere che lì si stia compiendo un’attività criminosa. È evidente che se il testo della norma resterà questo, sarà pressoché inutile fare questo tipo di intercettazioni, che sono, invece, risolutive in contesti criminali dove chi delinque evita di parlare di certi argomenti al telefono, preferendo trattarli di persona. Né il regime differenziato delle intercettazioni ambientali previsto per i reati di maggiore allarme sociale come la tratta di persone, il traffico di stupefacenti e di armi, l’associazione mafiosa e il terrorismo, è di per se risolutivo, poiché è noto che all’individuazione di reati come l’associazione mafiosa si giunga spessissimo solo attraverso l’individuazione di reati comuni.
Presentato come uno strumento di tutela della privacy del cittadino, il disegno di legge sulle intercettazioni dà sensazione, in realtà, di essere la via per uno scientifico smantellamento di un pezzo importante dell’armamentario investigativo previsto nel nostro ordinamento, ma anche di una compressione ingiustificata del diritto di cronaca, e tutto questo nonostante il puntuale intervento preventivo del Capo dello Stato, a tutela dei diritti garantiti nella Costituzione.
Basti ricordare, su quest’ultimo versante, che il testo del Senato, fa addirittura un passo indietro rispetto al disegno di legge licenziato dalla Camera, a causa del divieto di pubblicazione di tutti gli atti di indagine fino all’udienza preliminare. Un divieto che si aggiunge a quello di pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni se non per riassunto, e alle sanzioni previste per editori e giornalisti. Divieti e sanzioni che sembrano voler contenere l’interesse dei cittadini sulle illegalità commesse da chi gestisce la cosa pubblica, e ridimensionare il ruolo dell’informazione nel nostro Paese sui temi che hanno rilevanza sociale e politica, più che garantire la segretezza delle indagini e la privacy del cittadino.
Il vero effetto del disegno di legge sulle intercettazioni sarà, dunque, meno legalità e meno diritto all’informazione, cioè meno democrazia. Ma anche un pericoloso messaggio di smobilitazione verso chi ogni giorno fa il proprio dovere, nonostante la riduzione delle risorse e lo svuotamento degli strumenti di contrasto. Per questo continueremo nella nostra iniziativa a difesa del controllo di legalità, a tutela dei cittadini e dei lavoratori di Polizia che credono nel loro lavoro e nei valori affermati dalla nostra Costituzione.

Il modello di sicurezza
Ma per rafforzare il sistema di sicurezza, avendo presente l’esigenza di rigore nei conti pubblici, decisivo è ancora il tema del coordinamento delle Forze di polizia. Un tema, tuttavia, rispetto al quale occorre fare chiarezza rispetto a tre versanti: quello del rapporto tra sicurezza e difesa, quello del modello di coordinamento, e quello dell’impiego delle Polizie locali.
Sotto il primo profilo va registrato che la manovra Finanziaria ha reiterato l’impiego dei militari nelle pattuglie miste di vigilanza nel territorio. Un impiego che noi abbiamo già stigmatizzato, perché a fronte di costi significativi non ha determinato risultati apprezzabili, per motivi ovviamente strutturali, e che non lascerà sul territorio, quando le risorse saranno esaurite, alcun presidio permanente di prevenzione e contrasto. Un impiego, tuttavia, che ha fornito l’occasione per rilanciare l’idea della intercambiabilità, in prospettiva, non tra le funzioni della Difesa e della Sicurezza, che qualche ostacolo anche di carattere costituzionale lo impedirebbe, ma più prosaicamente tra chi assolve alle funzioni di difesa e chi assolve a quelle della sicurezza.
Noi pensiamo che questa idea dell’intercambiabilità sia infondata, fuori linea rispetto al modello di coordinamento fissato dalla legge 121, e foriera di sviluppi indesiderati.
Se due Corpi di Polizia sono veramente intercambiabili vuol dire che non hanno un apprezzabile livello di specializzazione, mentre proprio questo dovrebbe essere il futuro dei Corpi a competenza generale nel nostro Paese. Lo richiede la crescente complessità della questione sicurezza, che può essere governata solo attraverso livelli di eccellenza e non semplice genericità professionale. Lo richiede l’opinione pubblica, che non capirebbe perché se due Corpi sono così intercambiabili non se ne forma allora uno solo, con conseguente risparmio in termini organizzativi e finanziari.
E poi va detto che intercambiabilità è un concetto estraneo al modello di coordinamento previsto dalla legge 121, che distingue con molta nettezza i compiti e le responsabilità delle Autorità di Pubblica sicurezza ai diversi livelli, da quelli delle Forze di polizia, che restano organi esecutivi degli indirizzi fissati in sede politica, poi attuati a livello politico-amministrativo e tecnico operativo.
Secondo e terzo profilo sono evidentemente connessi, impiego delle Polizie locali e pieno rispetto delle norme che reggono il nostro sistema di coordinamento sono due aspetti di un unico tema, peraltro di grande attualità dopo alcune recenti prese di posizione della politica e le preoccupate riflessioni dei Prefetti, cioè il tema del ruolo che possono e debbono avere gli Enti locali su versante della sicurezza, ma senza determinare pasticci nell’ordinamento.
Noi dedicheremo a questo tema un’iniziativa di studio e confronto, dopo la pausa estiva, quindi oggi mi limito a rilevare che sarebbe miope sottovalutare l’esigenza di un moderno impiego delle Polizie locali a tutela della legalità diffusa. Ma sarebbe altrettanto miope tentare di stravolgere nei fatti l’assetto del sistema di sicurezza voluto dal riformato Titolo V della Costituzione.
L’obiettivo, dunque, è favorire un raccordo costante tra gli organi dello Stato che si occupano di sicurezza e quelli territoriali che hanno il compito di amministrare. Un raccordo da realizzare, tuttavia, nel rispetto di un principio fondamentale in materia di sicurezza pubblica, e cioè l’attribuzione all’Autorità di Ps, senza alcuna ambiguità, dei poteri e delle relative responsabilità, soprattutto delle responsabilità perché, in questa materia, nulla è più dannoso per il cittadino e la collettività della mancanza di chiarezza su chi ricada l’onere di decidere e la responsabilità delle scelte assunte.
Se si segue con rigore e duttilità questa impostazione, è difficile immaginare, in materia di controllo del rispetto della legge, una netta separazione tra il segmento statale e quello locale. Ma è altrettanto difficile immaginare un capovolgimento delle responsabilità da statali a regionali o locali, perché questo oltre che contrario alla legge lo sarebbe anche rispetto al buon senso, in un’epoca in cui persino quella nazionale è una dimensione insufficiente per affrontare con efficacia i fenomeni criminali, e dove agli organi di sicurezza si chiede capacità di agire localmente ma pensare globalmente, specie sui versanti delle maggiori minacce alla sicurezza dei cittadini, cioè la criminalità mafiosa e il terrorismo.

I diritti degli operatori
Un progetto di rafforzamento del sistema sicurezza non può prescindere, tuttavia, dal rafforzamento concreto dei diritti e delle tutele degli operatori del settore. Un’affermazione questa che non può e non deve essere considerata dissonante rispetto all’esigenza generale di superamento della crisi e al miglioramento dei livelli di efficienza ed efficacia degli apparati dello Stato.
Diritti e produttività non sono in contraddizione. Diritti ed efficienza non sono alternativi. Inadeguata e discriminatoria è semmai l’idea che è alla base di quella norma del decreto Brunetta che esclude a priori, cioè senza alcuna valutazione di merito, il 25% dei lavoratori pubblici dal premio di produttività, perché considerati fannulloni per partito preso. Inadeguata e autoritaria e l’idea che pervade l’attuale manovra Finanziaria, secondo la quale il rigore dei conti pubblici si possa raggiungere restringendo i diritti dei lavoratori, tagliando unilateralmente stipendi e tredicesime degli operatori di Polizia, e non, come sarebbe sensato, colpendo gli sprechi e reinvestendo i risparmi.
Esercizio dei diritti e allargamento delle tutele continuerà ad essere la nostra direttrice di marcia, anche se siamo in periodo di crisi e proprio perché siamo in periodo di crisi.
Il nuovo Accordo Nazionale Quadro è l’emblema di questa nostra battaglia. Abbiamo puntato contemporaneamente a migliorare le condizioni di lavoro del personale, fornendo all’Amministrazione nuove opportunità per difendere e migliorare gli attuali livelli di efficienza. Il risultato è un testo dai contenuti avanzati, ancora da perfezionare, ma che ha in se gli strumenti per migliorare l’impianto complessivo e l’applicazione delle singole norme.
Determinante, tuttavia, è lo spirito con cui la dirigenza delle strutture territoriali dell’Amministrazione affronterà i prossimi appuntamenti su questo versante. Determinante sarà la volontà di utilizzare le norme a disposizione con lo stesso spirito che ha guidato le trattative per la definizione di questo Accordo, e cioè l’idea, appunto, che diritto ed efficienza non sono separabili e che senza l’uno non vi può essere neanche l’altro.
Noi abbiamo apprezzato la direttiva in tal senso che il Capo della Polizia ha inviato ai dirigenti territoriali dell’Amministrazione, ma ancora troppi sono stati gli episodi nella recente contrattazione decentrata nei quali ha prevalso da parte di singoli dirigenti la voglia di rivalsa sul sindacato, il tentativo di dividere il fronte della rappresentanza del personale, il bisogno di affermare un ruolo anche quando le proposte di merito che venivano fatte erano lontane dal testo e dallo spirito della norma.
Per questo insistiamo sull’esigenza di un indirizzo generale, costante e vincolante, dal centro al territorio, sulle materie oggetto di Accordo Quadro, e su tutte le materie che attengono ai diritti e alle condizioni di lavoro del personale. E insistiamo sull’esigenza di considerare costantemente la formazione come la risorsa strategica dell’Istituzione Polizia anche e proprio in periodo di crisi economica.
Noi abbiamo accolto positivamente la costituzione di una Scuola per l’Ordine Pubblico, noi che in una difficile riunione tra Amministrazione e tutte le organizzazioni sindacali, all’indomani dell’uccisione dell’ispettore Raciti, presentammo un documento specifico sulla formazione, con il quale argomentavamo l’esigenza di avere comuni e più avanzate tecniche di intervento in questo fondamentale settore del nostro lavoro, anche a tutela degli operatori.
E, tuttavia, pensiamo che questa positiva esperienza, per avere effetti duraturi, debba essere estesa al maggior numero possibile di operatori ad ogni livello di responsabilità. E che lo stesso obiettivo, cioè quello della massima diffusione della conoscenza, debba riguardare tutti i settori strategici della nostra funzione, perché per un lavoro che si fonda soprattutto sulla risorsa umana la formazione resta il maggiore fattore di efficienza e efficacia dell’Amministrazione, e di tutela e crescita professionale per gli operatori.

Il Silp per la Cgil
Quest’anno ricorre il decennale della costituzione del Silp per la Cgil. In questi anni abbiamo cercato di dare senso alla mission che ci siamo dati all’inizio del nostro cammino, quella del sindacato dei diritti e dei valori.
Abbiamo cercato di interpretare la voglia di cambiamento espressa dagli operatori di Polizia. Lo abbiamo fatto secondo i principi della cultura confederale della Cgil, e cioè tenendo i piedi ben piantati a terra per tutte le iniziative a tutela dei diritti degli operatori, e lo sguardo puntato sull’interesse generale della collettività e il suo bisogno di sicurezza. Abbiamo difeso l’istituzione e il lavoro dei suoi appartenenti, senza corporativismi e chiusure culturali, ma con un orizzonte largo, l’unico in grado di farci cogliere i mutamenti di una società che, soprattutto sul versante della legalità, sta rischiando un vero e proprio cambiamento di modello.
I risultati fin qui ottenuti sono per noi incoraggianti. Cresce la domanda di interlocuzione verso il nostro sindacato anche su temi che vanno al di là della sicurezza in senso stretto, e questo vuol dire che sta crescendo il nostro ruolo di soggetto politico. Cresce anche il nostro consenso nella categoria, quest’anno abbiamo raggiunto il punto più alto della nostra consistenza associativa, in un panorama di sindacati di Polizia spesso in affanno sul versante dei livelli di rappresentatività. Siamo ormai presenti in tutte le province, e lo spaccato dei nostri iscritti ci dice che significativa è la componente giovanile, e che le donne rappresentano oltre il 15% della nostra consistenza associativa, con una chiara tendenza alla crescita.
Proseguiremo, dunque, lungo la strada intrapresa per rafforzare la nostra capacità di stare in campo, sul piano organizzativo e dei contenuti della nostra proposta, garantendo un profilo alto alla nostra azione.
Consapevoli di poter contare su due risorse eccezionali: il sostegno della Cgil, cioè del più grande soggetto sociale del nostro Paese, e lo straordinario patrimonio etico, umano e professionale costituito dall’insieme dei militanti e dirigenti del Silp.
E metteremo questa risorsa al servizio di una nuova stagione di lotte per la tutela delle condizioni di vita e di lavoro degli operatori di Polizia, e per la sicurezza e la legalità nel nostro Paese. Cioè di una battaglia per i diritti dei cittadini e il rispetto dei valori costituzionali, che oggi più che mai è battaglia per la democrazia e per la libertà.

FOTO: Claudio Giardullo durante il suo intervento

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