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Agosto-Settembre/2010 - Articoli e Inchieste
Parliamone con...
L’illegalità più dell’insicurezza
di a cura di Donatella D’Acapito

Vera Lamonica racconta come insicurezza
percepita e paura da immigrazione, diventino
manovre per distogliere l’attenzione
dal problema che più di tutti affligge il Paese


E’ stata la prima donna a prendere la parola in questo terzo congresso del Silp. Per lei, come accaduto per il segretario generale Claudio Giardullo, la platea si è alzata in piedi. Non tutti hanno avuto lo stesso trattamento. Nelle sue parole ci sono accuse e allarmi inequivocabili, mai scomposti o sopra le righe. Vera Lamonica, segretario confederale Ccgil, fotografa la realtà che il nostro Paese sta vivendo da qualche mese. È per questo che decido di incontrarla. Niente sentieri predefiniti: il suo intervento lascia suggestioni da cui prende avvio non un’intervista, ma l’opportunità di andare a scavare nelle sue affermazioni.


Vera, nel tuo intervento hai detto: “Vogliono ridisegnare alcuni cardini di questo Paese”. Ti chiederei di partire da qui.
C’è un attacco esplicito ad alcuni valori costituzionali fondanti per l’Italia. Un attacco ai diritti di cittadinanza, in generale, e ai diritti del lavoro, in particolare. E c’è un’idea di affermazione di territorio e sicurezza che non possiamo condividere. Questo governo – da quando è in carica – non fa che alimentare divisioni e guerre fra poveri, agitando un concetto di sicurezza che fa leva sulle incertezze e sulle paure delle persone. Si è partiti dall’immigrazione per continuare con un concetto di territorio come luogo chiuso, dove ognuno deve difendere quel poco che ha e deve trovare il nemico da espellere. Questo è un pericolo per il Paese.

C’è una distanza fra insicurezza reale e quella percepita?
Molto. C’è una distanza, in parte fisiologica ed in parte provocata, fra insicurezza reale e insicurezza percepita. In merito all’insicurezza reale, non c’è un aumento significativo dei reati che turbano la vita delle persone; ne’ l’Italia ha reati maggiori rispetto a Paesi europei vicino a noi come la Germania, la Francia o la Spagna. È ovvio che anche questi reati vadano affrontati, ma la percezione dell’insicurezza che c’è, è maggiore dell’incidenza della microcriminalità o di forme di delinquenza cittadina. Stiamo attraversando un periodo di grande insicurezza sociale, soprattutto in ambito lavorativo: si perde il lavoro, non ci sono prospettive future, il reddito cala significativamente. A questo punto il governo fa leva sulle debolezze del Paese per innalzare la percezione della necessità di sicurezza di cui si ha bisogno.

Ciò significa affidarsi totalmente al governo, che appare l' unico baluardo per la sicurezza…
Ed in questo senso diventa un problema per la democrazia. Perché la democrazia ha bisogno di società aperte e solidali; ha bisogno che i problemi vengano discussi e affrontati per quello che sono. In caso contrario, si sfavorisce la partecipazione dei cittadini e si svuotano le Istituzioni locali. Si crea così un meccanismo in cui ognuno si chiude in se stesso, aprendo la via a soluzioni politiche semplificatrici. Si arriva alle parole d’ordine più facili e mediatiche; si arriva a discutere non di fatti reali, ma di quelli virtuali con il risultato di rendere il potere incontrollabile. E non si affronta mai il problema delle politiche sociali, presupposto per la sicurezza nelle città.

A proposito di città, il Capo della Polizia Antonio Manganelli ha fatto riferimento alla sicurezza urbana, di competenza dei sindaci. È stato detto che si definisce sicurezza urbana quella che ha a che fare con degrado e disagio sociale. Ma degrado e disagio sociale, come possono essere definiti? Cosa significa affidare al sindaco la strategia sulla sicurezza urbana, rinunciando ad una politica unitaria in materia?
Sulla questione dei sindaci – e delle ordinanze in particolare – si è fatta solo propaganda. La modifica costituzionale parla di un sistema unitario di sicurezza e di sindaci che devono prevenire situazioni che creino microcriminalità e reati di altro genere. A questo si aggiunge l’impegno nel definire una qualità di vita urbana che non crei disagio o enclave di esclusi, né crei quartieri senza servizio o senza la presenza dello Stato. Quindi bisogna recuperare un’idea di città, dove la sicurezza non è solo figlia di repressione, ma della prevenzione. E bisogna invertire la rotta su quello che sta avvenendo per la spesa pubblica. Abbiamo una realtà in cui i tagli sul welfare, quelli per le politiche cittadine di prevenzione e di contrasto al disagio sociale, si ampliano sempre più. E si cela dietro la questione della sicurezza e delle ordinanze, il fatto che non si spende più per qualità e quantità sulle politiche sociali.

In una società dove i cittadini hanno una percezione di insicurezza più elevata di quella che realmente è, come si può ancora scommettere sulla valenza delle politiche sociali in termini di prevenzione e quindi anche di integrazione?
La crisi nasce non solo dalla speculazione internazionale, ma anche dalle diseguaglianze sociali. Negli ultimi trent’anni di ubriacatura iperliberista, ed in particolare negli ultimi 15, si è sacrificata la spesa sociale, riducendo la capacità dello Stato e dei poteri pubblici di intervenire nelle condizioni concrete della collettività. Se l’Italia si illude – e questo governo si illude – di poter continuare così, allora siamo in un vicolo cieco.

Questo ha a che fare con quello che nel tuo intervento hai definito welfare residenziale…
Perché sta passando in molte città, soprattutto del centro-nord, per effetto della politica della Lega, un’idea che il welfare vada fatto solo per i residenti. Ciò mette in discussione l’idea di cittadinanza e tocca il tema dell’immigrazione. Non serve inventare il reato di clandestinità, servirebbe un’idea di cittadinanza che provi ad integrare gli immigrati, riconoscendo loro diritti, stimolandoli ad avere dei doveri ed una percezione della collettività che li porti ad accettare regole, valori: accettare, cioè, un meccanismo di convivenza. Invece si va in direzione diametralmente opposta. Poi abbiamo bisogno di spostare l’asse perché l’Italia ha un grande problema di legalità, non di sicurezza: in questo più degli altri Paesi europei. Ecco l’assurdo. Percepiamo un’insicurezza maggiore rispetto alla Francia o alla Germania, quando invece abbiamo una quantità di reati e di microreati che sono simili agli altri; abbiamo un problema di legalità che è di molto più grande degli altri Paesi europei ed invece viene percepito di meno. C’è un’operazione di pilotaggio politico. Il più grande problema che l’Italia ha, è quello di una illegalità diffusa, delle mafie organizzate e della corruzione nel pubblico. Su questo bisognerebbe alzare il tiro.

Partendo dall’illegalità diffusa, arriviamo alla cosiddetta legge bavaglio e al problema delle intercettazioni. Manganelli, nel suo intervento, ha parlato di singoli strumenti investigativi come equivalenti fra di loro. Come è possibile che il Capo della Polizia equipari o sottovaluti il ruolo delle intercettazioni, dicendo che quel che conta è rivedere lo strumento investigativo a 360°?
Che gli strumenti investigativi vadano rivisti a 360°, nella loro integrazione, è vero. Però è altrettanto vero che dentro i 360° una parte molto importante è svolta dalla possibilità di intercettare. Per scovare e reprimere la criminalità economica e da corruzione mafiosa che abbiamo nel Paese, dobbiamo poter contare su: tracciabilità dei movimenti economici, ricostruzione delle indagini con contesti ambientali, individuazione dei reati spia che portino ad altro. In questo le intercettazioni hanno un ruolo fondamentale. E credo che sulle intercettazioni, ci sia un intento punitivo del governo. Punitivo nei confronti della stampa, che viene così imbavagliata, e punitivo verso la magistratura, che si trova con le armi spuntate. Probabilmente si teme che emerga un substrato cresciuto in questi anni, fatto di collusione – quando non di identificazione – fra pezzi di politica e pezzi di mafia, pezzi di grandi affari, di sistema economico. Per questo tolgono forze all’organo giurisdizionale e annacquano un principio costituzionale fondamentale della nostra Costituzione, che esige trasparenza per i meccanismi decisionali del potere. Qui si vuole buttare una coperta sul potere, affinché nessuno possa vedere e sentire.

La storia della Seconda Repubblica sembra costellata da episodi di memoria tardiva. È successo nel caso del patto fra mafia e Stato con l’ex ministro Pisanu e con l’ex presidente della Camera Violante. Perché di certe cose si è scelto di parlarne adesso?
Non saprei dire. Quello che so è che in quegli anni è accaduto qualcosa di importante in Italia. Chi viveva nel Mezzogiorno, dove il potere mafioso è più presente, opprimente, visibile, in qualche modo lo ha sempre avvertito. In quegli anni c’è stato un passaggio importante nelle organizzazioni mafiose e dopo di allora è cambiato molto. Non abbiamo tutta la verità su quel periodo e non credo che la verità stia nel ricordo dei singoli. Credo si debba consentire alla magistratura di andare fino in fondo; bisognerebbe ci fosse una volontà politica per chiarire alcuni passaggi importanti della storia della repubblica, senza semplificazioni eccessive. Perché, paradossalmente, le semplificazioni eccessive portano poi a non credere più a niente.
Ricordo che quando furono ammazzati i giudici Falcone e Borsellino, era difficile capire cosa stava accadendo, ma le persone comuni hanno avuto il bisogno di manifestare, di dire no. Falcone e Borsellino: coloro che hanno costruito la lotta alla mafia e che ne hanno individuato gli strumenti adatti, gli stessi che oggi vengono messi continuamente in discussione. Aspettiamo il giudizio della storia su questi fatti. Speriamo che prima arrivi quello giudiziario. Speriamo, soprattutto, che la politica abbia voglia di arrivare alla verità.

Perché in alcuni casi si registra una collusione, dalla quale è difficile uscire, fra criminalità organizzata e politica?
Storicamente la mafia è diversa dalle altre organizzazioni criminali. La mafia italiana, la ’ndrangheta e la camorra, seppur con modalità diverse, si caratterizzano fin dall’origine per il rapporto con la politica. Le mafie nascono, si affermano e si sviluppano così. Il controllo del territorio che esercitano è tale che hanno bisogno o di una politica a servizio, o di una politica tollerante che finge di non vedere. Poi abbiamo anche quei pezzi di Paese, come accade ad Isola Capo Rizzuto, ai più sconosciuto e con una forte presenza ’ndranghetista, dove il sindaco ha il coraggio di denunciare, ma precisa che continuerà a farlo, fin quando i cittadini saranno con lei. Il che significa, tristemente, che non è certa dell’unità di intenti della cittadinanza. Perché le mafie non sono solo una organizzazione criminale tradizionale, ma si fanno sostituto dello Stato, anche in termini economici ed occupazionali. E mentre fingono di dare lavoro e sviluppo, ammazzano l’economia. È per questo che la lotta alla mafia è strategica: non è solo per liberarci di chi spara, lotta alla mafia significa costruire un’economia competitiva.
È una guerra che si combatte, una guerra che stanno combattendo solo i poliziotti ed i magistrati, questo è la difficoltà. La stanno combattendo con coraggio e determinazione, infatti hanno tanti risultati. E mentre poliziotti e magistrati combattono questa guerra, c’è qualcuno che si preoccupa di toglier loro le armi per lottare. Questo è inaccettabile e fa indignare.

C’è un effettivo problema di tenuta democratica nel nostro Paese?
Per fortuna nel Paese ci sono forze che hanno a cuore la democrazia. Ho l’orgoglio di dire che la Cgil è una di queste: lo dimostra l’esistenza di sindacati come il Silp e di altri sindacati di Polizia. Nei momenti più critici della storia della Repubblica, c’è sempre stata un’Italia capace di difendere la democrazia. Ricordo la P2, il ’60 con Tambroni, i colpi di Stato, la stessa morte di Falcone e Borsellino. Ritengo che anche in questo passaggio ci sono forze sufficienti per difendere la democrazia italiana e noi siamo fra questi.

Però il tentativo di attaccarla è reale, la vigilanza deve essere alta. Difesa della democrazia adesso significa difesa dei valori e dei principi costituzionali. Ogni tentativo di sovvertire la carta costituzionale, evidenzia la volontà di togliere strumenti alla democrazia per consegnarli a poteri oscuri.
Questo è il problema che noi abbiamo, ma rispetto a ciò siamo in campo e siamo dunque sicuri che il lavoro, ancora una volta, riuscirà ad essere baluardo di questo. E del resto stiamo vedendo in questi giorni che la mobilitazione della stampa, della cultura, della gente comune, ci sta dicendo che c’è una sensibilità democratica nel Paese che tiene. L’attacco è forte e necessitiamo di risposte altrettanto forti. Il crinale è questo: senza fare equazioni di appartenenza politica. È evidente che anche nel centrodestra ci sono forze che hanno a cuore la democrazia - e sono convinta che questo prevalga, ma è anche vero che ci sono pezzi di mondo imprenditoriale, finanziario e politico che sono strutturalmente legati ad una idea di politica come costruzione di affari e quindi determinano corruzione e collusione, pericoli per la legalità e la democrazia, perché rischiamo che occupino le Istituzioni. Per questo la lotta per la legalità è un punto di grande valore, perché attiene alla democrazia e al futuro del Paese.


Il congresso si è chiuso da due settimane. Il ddl sulle intercettazioni è stato modificato: più responsabilità ai pm, cade la possibilità di mettere cimici solo in presenza di reato, cade la responsabilità giuridica degli editori. In piazza si continua a protestare per i tagli alla sicurezza. Questo numero uscirà dopo l’estate: se le circostanze dell’intervista potranno risultare superate, non lo sono i temi. Manca una politica per l’integrazione e cresce diffidenza fra le persone a tal proposito. Che la legalità incida più della criminalità sul presente e sul futuro socioeconomico del Paese, è chiaro. Che sia più comodo far credere altro, pure.


FOTO: Vera Lamonica, Segretario Confederale Cgil

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