Quanto contano le intercettazioni nella lotta
alla criminalità. Quanto è a rischio la nostra
privacy. Sullo sfondo il rischio della
disinformazione. Faccia a faccia
con Antonio Ingroia
Ci sono strade nella vita che mai avresti pensato di percorrere, passaggi che d’un tratto si trasformano nella via maestra. E’ forse il caso di Antonio Ingroia, Procuratore aggiunto di Palermo, allievo di Falcone e Borsellino, un tempo studente universitario col pallino del cinema. A lui, noto pubblico ministero antimafia, abbiamo domandato della legge sulle intercettazioni e delle ricadute su processi e libertà di stampa nonché di sé, della strada che l’ha condotto alla Procura di Palermo passando per importanti vicende di cui si è occupato, come il caso Contrada e i processi sui rapporti tra la mafia e il mondo della politica e dell’economia.
La sua contrarietà al Ddl sulle intercettazioni è stata da subito netta e immediata.
Fin da quando è stato presentato questo disegno di legge di riforma della normativa, ho manifestato la mia preoccupazione da magistrato impegnato da anni in indagini antimafia perché è soprattutto nelle indagini contro la criminalità organizzata che le intercettazioni telefoniche e quelle ambientali si sono rivelate preziosissime mentre la nuova disciplina rischia di danneggiare in modo grave l'efficacia delle indagini antimafia. Per questo ho anche scritto un libro durante la gestazione del disegno di legge, criticandone alcuni passaggi e sperando che questo potesse stimolare un dibattito volto a rettificare il testo di legge.
Parliamo di “C'era una volta l'intercettazione”.
Un libro che vuole essere un contributo all'informazione degli italiani che non hanno magari ben presente di quanto le intercettazioni siano state importanti nelle indagini di mafia: dal Maxiprocesso fino alle indagini sulle stragi palermitane del '92 e sulla corruzione politico-amministrativa e come, se passasse questa legge, probabilmente nessuna di queste indagini sarebbe potuta andare in porto. Tante di queste intercettazioni non sarebbero state possibili e quindi si sarebbero perdute prove rivelatesi decisive.
Ha parlato di italiani poco consapevoli ma si sta facendo abbastanza per rendere noto cosa comporti il Ddl intercettazioni?
Credo purtroppo il contrario. Si sta facendo molto perché la gente non si renda conto di quello che sta accadendo nel senso che prevalgono la disinformazione, l'informazione sbagliata, quella deformata e i luoghi comuni. C'è una vera e propria campagna di stampa che ha come obiettivo quello di far credere ai cittadini che le intercettazioni non siano una risorsa ma un pericolo. Invece la verità è che le intercettazioni sono forse un pericolo per i delinquenti ma per gli onesti sono una risorsa e uno strumento per difendersi dalla criminalità.
Le intercettazioni che importanza hanno avuto nei processi antimafia degli ultimi anni?
Straordinaria e ne hanno sempre di più. Abbiamo pochi collaboratori di giustizia, pochi pentiti e in tale contesto le intercettazioni sono ancor più preziose. I procedimenti che hanno evitato attentati, che hanno consentito di sequestrare montagne di armi e stupefacenti e affrontare il rapporto mafia politica si sono basati spesso su intercettazioni telefoniche e ambientali.
E sulla libertà di informazione, quali le ricadute del Ddl?
Questo disegno di legge presenta aspetti di vera e propria incostituzionalità sotto il profilo delle limitazioni al diritto di cronaca, libertà di stampa, al diritto di essere informati su come vengono amministrati i pubblici poteri ma anche al diritto d'informazione su come è amministrata la giustizia perché in fondo la stampa non ha solo il ruolo di far conoscere eventuali condotte illecite degli indagati, specie se sono pubblicamente noti e quindi rivestono cariche pubbliche, ma anche un'attività di controllo su come è amministrata la giustizia. Siamo di fronte a un Ddl che rischia di danneggiare quel poco di informazione pluralistica che abbiamo in Italia. Le forti sanzioni pecuniarie in cui incorrerebbero le testate non rischiano di colpire le grandi testate ma finiscono con lo strangolare le piccole.
Allontanato lo spettro del carcere per i cronisti che pubblicano intercettazioni, le pene pecuniarie le sembrano adeguate all’eventuale reato?
No, è chiaro che c'è una evidente sproporzione che rivela l’intento punitivo che ha ispirato questa legge nei confronti di due mondi ritenuti un po' disubbidienti: la magistratura e la stampa. Entrambe realtà che si vogliono colpire, ridimensionare, omologare.
Ci sono similitudini con l’estero?
Uno tra i luoghi comuni è che la legislazione italiana sia poco garantista e che lo sia più quella di altri Paesi. A me non pare. In Italia tutte le intercettazioni devono essere autorizzate da un giudice che non partecipa alle indagini. Così non è negli altri Paesi. In Francia dispone il giudice istruttore che è lo stesso che indaga, in Spagna ugualmente, in Inghilterra ci sono molti organi di Polizia, organi amministrativi che possono direttamente effettuare intercettazioni senza autorizzazione dell'Autorità giudiziaria, quindi è evidente che siamo abbastanza lontani dal poter dire che la legislazione italiana è meno garantista. Io credo che sia esattamente il contrario.
Parlando del Ddl sulle intercettazioni c’è chi lo propugna a difesa della privacy.
Gli italiani non sono violati nella loro privacy e i numeri parlano chiaro. Ogni anno in Italia sono intercettati appena 10mila italiani. Un piccolo sacrificio alla privacy che nel nostro Paese è molto tutelata.
Lei ha sempre parlato di lotta alla mafia come sforzo collettivo.
La lotta alla mafia la devono fare tutti, non soltanto gli addetti ai lavori: i magistrati, i poliziotti, i giornalisti. Peppino Impastato non era niente di tutto questo, eppure ci ha lasciato un grande insegnamento. Era un giovane impegnato che coi suoi mezzi, con gli amici, attraverso una radio sfidò il potere mafioso di cosa nostra dall’interno di una famiglia profondamente condizionata dalla mafia.
Cosa rimane di quell'atto di coraggio?
Il suo modello, il suo testamento, rimane anche quell'impegno che tanti giovani, in situazioni meno isolate di quelle in cui però Impastato, oggi possono portare avanti. Mi riferisco ai ragazzi di “Addio pizzo” a Palermo, di Locri, di “E adesso ammazzateci tutti”, ai giovani delle “Agende Rosse di Salvatore Borsellino”.
Chi è il migliore alleato della mafia?
Il più forte alleato dei poteri mafiosi non è solo l'italiano mafioso, quello colluso, ma l'italiano indifferente e rassegnato. La rassegnazione, l'indifferenza e l'omologazione sono quel cemento che rafforza la criminalità sul territorio. Ed è questo che bisogna sgretolare, bisogna convincere gli indifferenti che stare dalla parte della legalità conviene.
Lavori come “Gomorra” quanto possono rappresentare la realtà dei poteri criminali?
Molto. Credo che sia l'opera narrativa di Saviano sia la sua trasposizione cinematografica siano un pugno nello stomaco, una secchiata di acqua gelida che consentono di risvegliarci dal torpore nel quale spesso ci ritroviamo e ci rende consapevoli che c'è questa realtà che non è un inferno ma è l'inferno fra di noi e che può essere cambiato senza però voltarsi dall'altra parte, senza nasconderlo, senza far credere che la mafia sia sconfitta, che sia in ginocchio.
Sono stati realizzati anche importanti risultati, importanti successi, ma bisogna andare avanti e colpire i livelli delle grandi complicità, il livello della mafia finanziaria, degli affari.
A tal proposito lei ha proposto un testo unico antiriciclaggio che ottimizzi il lavoro di magistratura e Forze dell'ordine. Ossia?
Oggi abbiamo una legislazione un po' arretrata, inadeguata sul piano del contrasto alla mafia, anche finanziaria, la normativa in materia di antiriciclaggio è inadeguata e quindi occorre rimboccarsi le maniche e mettersi attorno a un tavolo con esperti e addetti ai lavori per adeguare la normativa fornendo ai magistrati gli strumenti, creando i presupposti affinché si possano fare delle indagini anche a livello transnazionale.
Pensa che il nostro Paese sia irredimibile?
Non credo, penso piuttosto che abbiamo il problema di uno zoccolo duro della nostra classe dirigente che ha una sua irredimibilità nel senso che ha una certa abitudine a mantenere il potere anche attraverso comportamenti illeciti, abituata com’è a non rispondere dei propri comportamenti, in sostanza a farla franca. E questo non è in linea con una classe dirigente di un Paese evoluto come l’Italia vorrebbe essere.
Abbiamo bisogno di rinnovamento della nostra classe dirigente. La vera anomalia del Paese non sono i poteri criminali ma l’esistenza di questa classe dirigente che fa affari con essi. Solo la repressione può sciogliere questo legame.
In tutto ciò, ravvisa margini di miglioramento?
Chiari e scuri. Margini di miglioramento nella società, sì, nel senso che si è estesa la consapevolezza; non vedo però grandi evoluzioni nella classe dirigente rispetto al principio della responsabilità.
Come ha scelto questa carriera?
Un po’ per caso, un po’ per scelta. Figuratevi che durante gli studi stavo per lasciare Giurisprudenza e dedicarmi alla grande passione per il cinema. Volevo frequentare il Centro sperimentale di cinematografia e fare il regista.
Un filone, una corrente che ama?
Il cinema visionario. Tra gli italiani amavo Fellini e all’estero Stanley Kubrick, Luis Bunuel. Mi piace il cinema di Quentin Tarantino, di Scorsese.
Nel nostro Paese abbiamo attraversato anni cinematograficamente bui soprattutto sui temi politicamente e socialmente più significativi, cosa che ci ha fatto rimpiangere gli anni di denuncia di Rosi, Giuliani. Purtroppo, a oggi, il miglior film sulla mafia resta ‘Il bandito Giuliano’, un film di cinquant’anni fa.
Oggi apprezzo Sorrentino – mi è piaciuto ‘Il Divo’, contrariamente a qualche collega della Procura di Palermo che ha guardato il film con l’occhio del processo – è un film che ha saputo raccontare con stile grottesco i rapporti tra potere politico e criminale usando Andreotti come strumento di narrazione. Naturalmente, tra i film belli, anche ‘I cento passi’ dell’amico Marco Tullio Giordana.
Lei che film farebbe?
Mi cimenterei in un film sulla mafia. E’ un sogno nel cassetto e quindi non dico di più. L’obiettivo è raccontare la mafia fuori dai cliché, la mafia invisibile. Cosa non semplice in un film ma bisogna provare. Insomma, toccherei gli aspetti meno appariscenti, meno folcloristici; in sostanza, il contrario delle fiction in materia che sono pessime.
Torniamo all’amore universitario per il cinema.
In quell’amore per il cinema rientra la figura di Peppino Impastato. Entrai nel Centro studi a lui dedicato proprio per la mia passione tant’è che ero il responsabile della sezione cinema e non di quella giuridica.
E’ in quegli anni che invece di abbandonare Giurisprudenza ho deciso di proseguire e intrapreso il percorso che mi ha portato qui. Entrò in vigore la legge Pio La Torre, cominciai a studiare il 416/bis e ci feci la tesi. Pian piano il cinema più che un possibile sbocco professionale divenne un hobby e una passione. Senza scartare però l’ipotesi di fare un film prima o poi… Insomma, Antonio Ingroia studente non pensava di fare il giudice e tanto meno il giudice antimafia.
Chi l’avrebbe mai immaginato di diventare Procuratore aggiunto, lo stesso incarico che avevano Falcone prima e Borsellino poi.
Lei, giovanissimo, ha lavorato al loro fianco.
Ho iniziato facendo un breve tirocinio con Falcone. Proprio lui, lo ricordo bene, mi chiese se un giorno mi sarebbe potuto piacere di occuparmi di procedimenti per mafia, cosa alla quale non avevo mai pensato, e mi colpì che fosse lui a propormela, segno di alta considerazione nei miei confronti. Poi, quando dovetti scegliere la sede per iniziare come pubblico ministero optai per la Procura di Marsala dove il capo dell’ufficio era Borsellino. Immaginavo si sarebbe trattato di una breve esperienza professionale ma l’incontro con lui fu travolgente e iniziai a occuparmi di mafia.
Di lì le prime minacce, la prima scorta, poi la strage di via D’Amelio e ritenni, come tanti altri miei colleghi, di proseguire lungo quella strada. Da allora non ho mai rimpianto le scelte fatte ed ho sempre continuato ad amare il mio lavoro.
FOTO: Antonio Ingroia durante il suo intervento
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