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Giugno-Luglio/2010 - Articoli e Inchieste
Carceri
Prigioni, detenuti e Polizia giudiziaria in Italia
di Lorenzo Baldarelli

Un viaggio nel mondo carcerario
italiano ed europeo alla ricerca
di soluzioni ma soprattutto riflessioni

Per un qualsiasi vocabolario la prigione, o il carcere, o il penitenziario è lo stabilimento in cui è rinchiuso chi è condannato alla privazione della libertà personale o è colpito da mandato di cattura in attesa di giudizio. Descritto così sembra un luogo quasi accettabile, un buon compromesso tra la legge dell’occhio per occhio e il caos totale della società, ma per chiunque ha mai messo piede in una cella le cose appaiono ben diverse. Il carcere è un universo parallelo, chi non c’è mai stato non potrà mai capirlo fino in fondo. È un luogo in cui si diventa cattivi, buoni, saggi, malati, produttivi o definitivamente e irrimediabilmente esclusi.
Per chiunque le ami usare, per lavoro o per piacere, le parole sono importanti. Hanno un loro specifico significato e una loro etimologia ben precisa. Per Wikipedia “Il termine prigione deriva dal latino prehensio, l'azione di catturare, mentre la parola carcere, bandita dal nuovo ordinamento penitenziario, deriverebbe dal latino carcer, che ha radice dal verbo coercio da cui il significato di luogo ove si restringe, si rinchiude ed anche si castiga e si punisce. Il termine latino carcer, il cui primo significato fu quello di recinto e, più propriamente al plurale, delle sbarre del circo, dalle quali erompevano i carri partecipanti alle corse; solo in un secondo tempo, assunse quello di prigione, intesa come costrizione o comunque luogo in cui rinchiudere soggetti privati della libertà personale. V’è, però, qualche voce discorde che vuole l’espressione carcere derivante dall’ebraico carcar (tumulare, sotterrare)”. Insomma io, come molti altri, sbaglio a usare il termine carcere, o forse no? In Italia, infatti, la condizione dei detenuti è così precaria e cronicamente sovraffollata da poter ricordare la condizione del bestiame nei vecchi recinti della Chicago anni Venti.

Tornando indietro nel tempo
Quando cominciarono a sorgere le prime città, cominciarono a sorgere anche le prime prigioni, strutture apposite per la custodia delle persone indesiderabili. Con la civiltà greca e romana, le notizie cominciano a farsi più chiare e sicure. Presso i romani le strutture carcerarie erano composte da ambienti in cui i prigionieri erano esclusi da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano la libertà di incontrare parenti e amici. In Italia, in tempi più vicini a noi, il “Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena” del 1931 non contemplava modalità di espiazione diverse dalla detenzione in carcere e la durata della pena era immodificabile, salvo l’ottenimento della liberazione condizionale o della grazia.
Con la Costituzione del 1948 viene introdotto il concetto di “rieducazione”. L’esecuzione della pena detentiva deve essere organizzata in modo tale da non rappresentare un castigo più grande di quello che già si realizza per effetto della privazione della libertà. Il detenuto deve avere la possibilità di usufruire di tutti quei trattamenti che appaiono più idonei al recupero sociale. Ma solo negli anni settanta si comincia a comprendere l’insufficienza delle norme, è la legge di “Riforma dell’Ordinamento Penitenziario” del 1975 (poi ripresa e ampliata dalla legge “Gozzini” del 1986) ha cominciare a tracciare i confini sull’idea di rieducazione. Lo fece racchiudendo principi come la discontinuità della pena, con permessi che permettono al detenuto di riallacciare periodicamente dei rapporti umani, e lo fece instaurando la flessibilità della pena, con la liberazione anticipata. Lo fece, soprattutto, prevedendo la modalità alternativa di esecuzione della pena, con l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà.
Nei decenni successivi, tuttavia, si assiste ad una sorta di tira e molla tra esigenze “permissivistiche” e restrittive. Le fasi di maggior rigore coincidono con periodi nei quali la “sicurezza pubblica” appare a rischio. Basti pensare alla seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, con “l’emergenza terrorismo”; oppure agli inizi degli anni Novanta, con “l’emergenza criminalità organizzata”; e in fine con la recentissima “emergenza micro-criminalità”. Per entrare nello specifico, ma solo per le leggi che riguardano gli ultimi anni, nel 2005 la legge n. 251, la cosiddetta “legge ex-Cirielli”, prevede limiti più severi per l’accesso alle misure alternative alla detenzione. La modifica al Codice penale, infatti, prevede per i condannati plurirecidivi tempi più lunghi per i permessi premio e per la semilibertà. Nel 2009, poi, la cosiddetta “legge Maroni” amplia la casistica dei reati per i quali è vietata o limitata la concessione delle misure alternative.

E oggi? Condizione
delle strutture carcerarie,
disagio, volontari e misteri
Oggi, ai sensi dell’articolo 59 della legge n. 354 del 26 luglio 1975, gli istituti penitenziari per maggiorenni si dividono in quattro categorie. Istituti di custodia cautelare, istituti per l'esecuzione delle pene, istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza e centri di osservazione. Ora, le condizioni di vita nelle prigioni italiane sono regolamentate da una legge del 1975, nota come Ordinamento Penitenziario, che recita nel suo primo articolo: “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose”. Da tutte le fonti che mi è capitato di trovare per scrivere questo pezzo, da qualsiasi parte politica provengano, non ho mai riscontrato l’applicazione pratica di tale norma. Il punto dolente è proprio nel primo periodo: “il rispetto della dignità umana”. E allora perché il sistema non collassa? Dove sono le rivolte? Dove sono gli scioperi ad oltranza del personale carcerario? Se avrete pazienza cercheremo di rispondere a tutte queste domande. Una cosa però è certa, nel 2009 l'Italia, per la prima volta, è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo per "trattamenti inumani e degradanti", con risarcimento danni a carico. Nel 2009, la scorsa estate, lo spazio per ogni detenuto era di circa tre metri quadri, secondo l’Europa dovrebbero essere 7,5. E oggi?
La popolazione carceraria in Italia, a marzo di quest’anno, era arrivata a oltre 66mila unità. Nel Lazio i reclusi sono più di seimila, i stranieri sono circa il 37%. I detenuti in attesa di giudizio sono circa la metà e i condannati definitivi sono più di tremila.
Cifre che continuano a crescere, gli spazi sono finiti. Il sistema penitenziario, nel suo complesso, non regge più le ondate di ingressi. L’80% degli istituti, poi, ha oltre un secolo, le prigioni nuove non sono state ultimate e molti spazi sono sprecati. Lo racconta lo stesso Guardasigilli Angelino Alfano: “La maggior parte delle carceri è stata costruita in secoli lontani e talvolta siamo fuori dal principio costituzionale dell’umanità”. Una prigione su cinque, infatti, risale a un periodo che va dal 1200 al 1500 ed è sottoposta a rigorosi vincoli architettonici. L’istituto peggiore, almeno per l’Associazione Antigone, è il Favignana. La struttura si sviluppa quasi tutta sotto terra, uffici, celle e infermeria. A seguirla ci sono le case di reclusione di Poggioreale, Brescia, Belluno, Bolzano e Regina Coeli. In questa classifica non ci sono distinzioni tra nord e sud. Se i vecchi carceri sono difficili da migliorare, visto i vincoli architettonici, i nuovi istituti sono difficili da completare o da far funzionare. Il carcere di Morcone (Benevento) ha il triste primato di essere stato costruito, abbandonato, ricostruito e di nuovo lasciato a se stesso. C’è anche il caso del carcere di Busaschi, in Sardegna, che è costato allo Stato 5 miliardi di lire ma non ha mai funzionato, nemmeno per un giorno. Di casi così in Internet - o leggendo i rapporti della già citata Associazione Antigone - se ne trovano a decine.
Continuando il nostro viaggio nelle prigioni del nostro Paese c’è anche il rischio di incorrere in veri e propri misteri. Lirio Abbate, per L’espresso del 28 gennaio di quest’anno, ha approfondito la questione delle mancanze di celle e di personale. Ad una analisi superficiale la questione potrebbe essere relegata nel mondo dell’economia, mancano i fondi e quindi mancano le strutture e il personale. Ma in Italia le cose sono sempre un pò più complesse. “Intere sezioni destinate ai detenuti trasformate in uffici - è Abbate a scrivere -, ambulatori medici o magazzini. Celle chiuse e mai utilizzate. Si restringono così gli istituti di pena nel nostro Paese. Anzi, si riduce così la capienza regolamentare o tollerabile delle carceri, in particolare in quelle di provincia dove i detenuti vengono stipati in pochi metri quadrati, creando sovraffollamento. Si potrebbe parlare di truffa delle carceri, dove nella realtà gli spazi esistono ma sulla carta vengono cancellati. Tutto a discapito dei detenuti”. Abbate è arrivato a queste conclusioni grazie alle dichiarazioni di Alfonso Sabella, ex direttore dell’Ufficio centrale dell’Ispettorato del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Sabella ricorda: “Per fare qualche esempio, ad Ancona una sezione detentiva da oltre cento posti da cui sono stati addirittura rimossi i cancelli allo scopo di destinarla, ma solo apparentemente, a presunti laboratori di medici specialisti. Oppure un’intera sezione del carcere di Cassino che era stata adibita, e credo lo sia tuttora, ad accogliere gli archivi del vecchio carcere dell’isola di Santo Stefano, chiuso mezzo secolo fa. Mi viene in mente la sezione dell’alta sicurezza di Trapani dove le pareti venivano ciclicamente imbiancate per far apparire l’esistenza di lavori di ristrutturazione in corso oppure ancora le centinaia di stanze destinate formalmente a magazzini che ho trovato in molte carceri emiliane in cui erano sistemati solo un secchio e una scopa”. L’ex direttore dell’ispettorato, poi, ricorda le ex sezioni femminili, “perfettamente agibili e presenti in tante carceri e totalmente inutilizzate”. Ma da dove nasce questo uso totalmente irresponsabile degli spazi? È un problema di organico, i poliziotti sono mal distribuiti, nel Nord sono pochi, si assistono a situazioni di maggior disagio, rispetto al Sud che, invece, non ha problemi di organico.
Il Corriere della Sera, lo scorso agosto, ha pubblicato dei dati interessanti. Gli agenti di custodia in Italia sono circa 42mila, 4mila non in attività perché non assegnati, in aspettativa o in prepensionamento. Dei 38mila rimasti duemila e cinquecento sono operativi nelle carceri con compiti amministrativi, mille e settecento al Dap, 400 al Ministero e altri 400 nelle Scuole penitenziarie.
A voi i semplici calcoli. Per aiutarvi, comunque, è meglio usare un esempio. Prendiamo in prestito quello di Andrea Garibaldi, il giornalista del Corriere della Sera. “Un tardo pomeriggio, Eugenio Sarno, segretario della Uil-penitenziari, entrando al ministero della Giustizia di via Arenula, contò 13 agenti di Polizia Penitenziaria, «cinque al rilascio dei passi, tre a prendere mosche nel cortile, tre a girare nella macchina di pattuglia, un sovrintendente, un ispettore. Con 13 uomini si sorveglia un carcere intero. Forse se andate ad Avellino a quell’ora nemmeno ci sono tredici unità di servizio»”.
A rendere le cose ancora più ingarbugliate e delicate c’è la cronaca di queste ultime settimane. L’aumento dei suicidi, siamo arrivati a 24 nei primi cinque mesi dell’anno; le pessime condizioni di sovraffollamento e le già citate carenze di organico hanno portato ad una storica decisione. La Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia ha sollecitato, alla fine di maggio, i propri aderenti a realizzare manifestazioni pacifiche che contemplino anche, e qui rientra l’unicità del gesto, “l’autosospensione” dal servizio.
Secondo i dati de Il Sole 24 Ore, che cita gli ultimi dati ministeriali disponibili, “i volontari che svolgono il loro servizio nelle carceri italiane sono 9.576: la media è di un volontario ogni sette detenuti. In Italia la presenza del volontariato non è uniforme. La Lombardia, regione con il maggior numero di volontari (2.433) e di detenuti (9.030), vanta la media di un volontario ogni 3,7 reclusi. Una condizione simile si rileva in Veneto (3,6 il miglior rapporto) e nel Lazio (4,4). All’estremo opposto, c’è la situazione in Abruzzo con soli 162 volontari su una presenza di 2.329 detenuti: la media è di un volontario ogni 14,4 reclusi”. L’Ordinamento Penitenziario italiano, poi, nell’articolo 78 prevede che i volontari lavorino in stretta collaborazione con educatori, assistenti sociali e psicologi. La grave carenza di queste figure professionali ha portato nel tempo a far sì che siano i volontari stessi a sopperire alle carenze di organico. Una situazione che non può essere più affrontata con la semplice buona volontà dei singoli.

Cercando le soluzioni
Secondo Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio, “il trend dei detenuti presenti nelle carceri del Lazio è allarmante e ormai anche le altre componenti del pianeta carcere cominciano a denunciare con forza una situazione sempre più grave. Non è un caso che, da settimane, gli agenti di Polizia Penitenziaria in diversi istituti della regione hanno iniziato a manifestare contro le condizioni di vita e di lavoro. È palese la violazione della norma Costituzionale secondo cui la pena deve punire ma anche rieducare. Lo ho già detto più volte: prima che il sistema arrivi al punto di non ritorno occorre avere il coraggio di cambiare un sistema legislativo che, oggi, non fa altro che produrre carcere”.
La conferenza stampa, dove si è presentato il “Piano carceri” - approvato dal Consiglio dei Ministri -, inizia con una dichiarazione del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Nella notte del 13 gennaio 2010 nelle carceri italiane hanno dormito 64.670 persone: “una cifra record”. Berlusconi ha sottolineato che uno “Stato civile deve togliere la libertà a chi ha commesso un reato ed è stato giudicato colpevole” ma “non può anche togliere la dignità e attentare alla salute di queste persone con situazioni igieniche che potrebbero compromettere la salute”. Queste affermazioni, più la dichiarazione dello “stato di emergenza nazionale” - disposta da un apposito Decreto firmato dal presidente Berlusconi il 13 gennaio sulla base della legge 225/1992 - che durerà fino al 31 dicembre 2010, e un piano articolato in tre punti sono la risposta del governo alle problematiche che abbiamo affrontato nella prima parte del nostro ragionamento e alle dichiarazioni di Marroni. La fonte è il ministero della Giustizia: “La dichiarazione dello stato di emergenza è il punto di partenza dell'articolato piano di intervento del governo per risolvere il sovraffollamento degli istituti penitenziari. Al capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, saranno dati poteri di Commissario delegato. Il Commissario straordinario potrà procedere in deroga alle ordinarie competenze, velocizzando procedure e semplificando le gare d'appalto. Il «braccio operativo» con cui gestire l'emergenza carceri sarà la Protezione civile. La procedura di emergenza, che seguirà lo stesso modello adottato per il dopo-terremoto a L'Aquila, consentirà di edificare 47 nuovi padiglioni affiancati a strutture carcerarie già esistenti. I finanziamenti per realizzare il Piano sono stati già individuati: 500 milioni di euro risultano stanziati in Finanziaria e altri 100 milioni di euro provengono dal bilancio della Giustizia. A partire dal 2011, ed è questo il secondo pilastro, saranno realizzate le altre strutture di edilizia straordinaria - 18 nuove carceri di cui 10 «flessibili» (probabilmente di prima accoglienza o destinate a detenuti con pene lievi) a cui se ne aggiungeranno altre 8 in aree strategiche anch'esse «flessibili» - previste dal Piano. Complessivamente, tali interventi porteranno alla creazione di 21.709 nuovi posti negli istituti penitenziari elevando la capienza totale a 80mila unità.
Il terzo pilastro del piano, necessario per consentire una progressiva diminuzione della popolazione carceraria, è l'introduzione di misure deflattive. Le due «norme di accompagnamento» decise riguardano, da un lato, la possibilità di scontare con i «domiciliari» l'ultimo anno di pena residua ad eccezione di coloro che sono stati condannati per reati gravi e, dall'altro, la «messa alla prova» delle persone imputabili per reati fino a tre anni che potranno così svolgere lavori di pubblica utilità per riabilitarsi con conseguente sospensione del processo. La soluzione del problema carceri passa anche attraverso l'implementazione dell'organico di Polizia Penitenziaria. Il quarto pilastro prevede l'assunzione di 2.000 nuovi agenti al fine di gestire, in termini di dignità del lavoro e di dignità della detenzione, la popolazione detenuta che, ad oggi, ammonta a circa 64.800 unità come riportato dai dati del Dap sulla situazione della popolazione detenuta all'interno degli istituti penitenziari alla data di oggi”. Sulle pagine dell’Unità Angiolo Marroni, Garante dei detenuti della regione Lazio, ha commentato l’iniziativa legislativa del governo. “Un’emergenza figlia di una politica che punisce col carcere ogni condotta illecita e confermata dai numeri: se i reati gravi diminuiscono ma i detenuti crescono in maniera esponenziale, qualcosa non torna. Poi se a tutto ciò si aggiunge che, come nel Lazio, il 50% dei reclusi è in attesa di sentenza definitiva, l’impressione che se ne ricava è che il giocattolo si sia irrimediabilmente rotto”. Per Marroni, quindi, il “Piano carceri” del ministro Alfano è destinato a fallire. “La costruzione di nuovi istituti potrebbe essere utile se servisse a sostituire carceri ultracentenari e fatiscenti, come Regina Coeli, che non garantiscono condizioni minime di vivibilità”. “Il ministro ha detto - continua il Garante dei diritti dei detenuti - che in 20 mesi i posti sono aumentati di 1.600 unità, 80 al mese, mentre i detenuti crescono di circa 700 unità mensili. Con la stessa velocità, per realizzare i posti previsti occorreranno 20 anni: nello stesso periodo i detenuti saranno arrivati ad oltre 160.000”. Il ragionamento appena fatto trova supporto nelle opinioni del vicepresidente del Csm Nicola Mancino: “Ci sono provvedimenti dinanzi al Parlamento per alleggerire di qualche unità ma si tratta di provvedimenti di emergenza che non risolvono il problema. È necessario un intervento di regime o costruendo nuove carceri oppure affrontando la depenalizzazione invocata da tanti giuristi: per esempio ci sono reati che non toccano più la pubblica opinione. Quelli possono essere trasformati in contravvenzioni, multe o ammende”. C’è poi il problema dello stato di emergenza. Il Guardasigilli ha precisato: “Lo stato d'emergenza non è il preludio di un abuso, ma uno strumento di efficienza”. A sollevare perplessità su queste parole, però è stato il capogruppo del Pd, Dario Franceschini.

Almeno lo sguardo sfugge
Sembra di essere arrivati di fronte ad un vicolo cieco, abbiamo elencato - si poteva fare meglio - le problematiche riguardanti la detenzione in Italia che i maggiori osservatori del nostro Paese ci hanno indicato, abbiamo riportato le soluzioni del nostro governo e le critiche, e ora? Non sembra che siamo arrivati a nessuna soluzione, ne sul piano teorico ne su quello pratico. Quando un problema sembra irrisolvibile è utile allontanarsi, cercare di uscire dalle dinamiche del proprio ragionamento, fermarsi e osservare, magari altrove. Cerchiamo di farlo.
La prima curiosità che si nota allontanandosi dall’Italia è data dai numeri. Il maggior numero di detenuti per centomila abitanti lo possiede la Russia e la Bielorussia, più ci si avvicina all’Europa occidentale e più il numero si abbassa. Le uniche quattro eccezioni sono il Portogallo, la Spagna, il Lussemburgo e la Gran Bretagna (100-149 detenuti ogni centomila abitanti). L’Italia è tra i Paesi con il rapporto più basso, tra i cinquanta e i novantanove detenuti ogni centomila abitanti. Ma i numeri non sempre spiegano e raccontano tutto. Le condizioni delle carceri dei nostri cugini d’oltralpe, ad esempio, sono - parole di Sarkozy - “la vergogna della repubblica”. Per cominciare - scrive Gero Von Randw per Die Zeit - i giornalisti non sono i benvenuti. “Chi vuole visitare un istituto penitenziario deve fare domanda al Ministro della Giustizia, che non sempre risponde. Se si ha fortuna, si riesce a visitare qualche sezione scelta dal Ministero. Ma non si può parlare con nessuno senza aver prima presentato un’apposita domanda. E non si può curiosare nelle celle. Niente foto, poi, che non abbiano passato il vaglio della censura. I parlamentari hanno il diritto di ispezionare gli istituti di pena, ma quasi nessuno lo fa. Difendere i carcerati non fa guadagnare voti. Solo l’incaricato statale per il controllo delle prigioni fa le sue visite periodiche”. Le prigioni francesi sono abitate da neri e arabi che fanno fronte comune contro cinesi e zingari, ma soprattutto contro i francesi. Si sente spesso: “Che ci fanno qui i francesi? Loro non hanno bisogno di rubare”. Secondo Léonore Le Caisne (autrice di “Prison”, una ricerca etnologica sullo straniero, con specifico riferimento al mondo carcerario) il microcosmo di un carcere francese rispecchia il cosmo urbano della nazione. “È un appendice della città, una prosecuzione dei ghetti metropolitani”.
Il giornalista del Die Zeit racconta, tramite le parole di Jean-Morc Dupeux - pastore protestante che lavora nel vecchio carcere parigino di Santé -, come funzionano le cose nel sistema carcerario francese. Molti dei detenuti del carcere dove lavora, spiega Dupeux, “vivono grazie a piccoli commerci illegali. Vendono Marlboro marocchine, pezzi d’auto prodotti illegalmente o dvd piratati. La merce arriva nei container e viene poi distribuita nelle cités. Per chi vive di quest’economia parallela il carcere è un passaggio obbligato. Il commercio prosegue anche all’interno”. Il sistema giudiziario francese durante l’urbanizzazione dell’Ottocento, quando la microcriminalità ha iniziato a diffondersi nel tessuto urbano, ha inaugurato un procedimento giudiziario chiamato comparution immédiate. Ancora oggi questo sistema è in voga e usatissimo, soprattutto tra i più poveri. La comparution immédiate può essere paragonata al nostro processo per direttissima, il dibattimento dura meno di venticinque minuti, l’unico motivo per cui viene accettato dagli imputati è che grazie a questo procedimento si evitano i lunghi mesi di carcerazione preventiva. “Le cose funzionano più o meno così: gli accusati vengono portati a piccoli gruppi nella sala 23 del Palazzo di Giustizia di Parigi. I casi devono essere trattati in rapida successione. Alle spalle hanno un paio di notti passate nelle stazioni di Polizia o in vecchie celle nelle cantine dei Palazzi di Giustizia. Sono ancora sotto choc, spesso non hanno mangiato né sono andati al bagno. Sono sporchi - continua a raccontare il pastore protestante -, infreddoliti o accaldati, in astinenza da nicotina, alcol, medicine o droga. Si tengono su i pantaloni con le mani ammanettate. La cintura gli è stata tolta per evitare che la usino per impiccarsi. Possono incontrare l’avvocato solo poche ore prima del dibattimento, per un paio di minuti. Durante gli interrogatori sono soli. Gli accusati siedono in una specie di gabbia di legno. Dietro ognuno di loro c’è una guardia. A un certo punto devono parlare. Ma si riesce appena a capirli perché il microfono è rotto. Poi parla la Procuratrice. Poi tocca all’avvocato difensore, in genere hanno solo un’ora per leggere gli atti e studiare una difesa. Le arringhe durano tra i cinque e i sette minuti. Prossimo caso. Ancora uno. Poi un altro. La Corte si ritira e in pochi minuti emette cinque verdetti, che vengono annunciati un’ora dopo. Tra gli strumenti usati durante la comparution immédiate c’è una lista chiamata Natinf, che rende più veloce la consultazione del Codice penale e agevola la comprensione tra la Polizia e la Procura. Ogni numero del Natinf corrisponde a un crimine e alle sue conseguenze penali, e serve per emettere sentenze in serie”. Secondo un rapporto del Senato, in Francia più della metà delle condanne è emessa dopo una comparution immédiate. “La maggior parte degli imputati che passa attraverso questa catena di montaggio - ci spiega il giornalista tedesco - finisce nelle maisons d’arrêt, le case d’arresto. In Francia ci sono due tipi di prigione: le maisons d’arrêt, 106 in tutto il Paese, dove sono rinchiusi i detenuti in attesa di giudizio e i condannati a pene inferiori a un anno, e gli établissements pour peine, per le pene più lunghe, in totale 79. Le maisons d’arrêt sono stipate di detenuti, mentre gli établissements pour peine somigliano a strutture di massima sicurezza e hanno più celle singole. Nelle carceri francesi sono detenute complessivamente 61.343 persone. La capacità massima è di 53mila posti”.
In Francia come in Italia la popolazione carceraria non è particolarmente numerosa. Negli ultimi anni, però, proprio come in Italia, le cifre sono in aumento. Dal 2002 le pene legate alla microcriminalità sono state inasprite. “La comparution immédiate - ci spiega sempre il giornalista del Die Zeit - ha ridotto drasticamente la quota dei detenuti in attesa di giudizio e ha fatto aumentare il numero delle condanne. Tutto è cominciato otto anni fa, quando Nicolas Sarkozy era ministro dell’Interno. Questa tendenza si è ulteriormente rafforzata dal 2007, quando è stata introdotta la cosiddetta legge Dati, dal nome dell’allora ministra della Giustizia, Rachida Dati. Il provvedimento prevede pene più severe per i recidivi - soprattutto per i minorenni - e limita il ricorso alle pene alternative. La norma è stata approvata nel 2007: l’anno in cui Sarkozy è diventato presidente della Repubblica”.
Se il nostro sguardo sale verso il Nord dell’Europa, le cose sembrano cambiare. Nelle carceri norvegesi ci sono 3.533 detenuti, secondo i dati aggiornati al 30 giugno 2007. I carcerati sono 75 ogni centomila abitanti. I detenuti stranieri sono il 19,5% del totale. In Norvegia le prigioni sono cinquanta e hanno una capienza complessiva di 3.511 posti. Sull’isola di Bastøy, però, esiste un carcere che si può definire “umano ed ecologico”. Non ha sbarre né serrature e ospita 115 persone in un ambiente idilliaco. Secondo Pauline Liétar, per Le Monde, l’isola di Bastøy, a quindici minuti di traghetto dal piccolo porto di Horten - a sud di Oslo - è “un piccolo paradiso: poco più di due chilometri quadrati di foresta, spiagge e laghi. Le piccole case colorate che spuntano in questo paesaggio sereno sono le celle dei prigionieri. La prigione è stata fondata nel 1984 al posto di un vecchio istituto di pena, ma solo dieci anni fa si è trasformata in un centro modello, attento alla qualità del cibo, al risparmio energetico e al controllo delle emissioni di anidride carbonica”. Il direttore dell’istituto Oyvind Alnaes spiega la filosofia del carcere. “Il nostro compito è trasformare i nostri possibili futuri vicini in bravi cittadini, in questo posto cerchiamo di applicare concretamente gli insegnamenti del capo indiano Seattle. Se siamo troppo repressivi nei confronti dei prigionieri, un giorno questa violenza si ritorcerà contro di noi. Allo stesso modo, quando usiamo dei pesticidi, è la nostra salute che mettiamo in pericolo”. In questa particolare prigione la detenzione non può durare più di sei anni anche se accoglie colpevoli di reati di ogni genere, dall’omicidio alla truffa. Oggi, il quaranta per cento dei suoi ospiti è dentro per condanne legate alla droga, il trenta per cento per atti di violenza, il dieci per aggressioni sessuali e il venti per altri reati. Di solito i detenuti arrivano a Bastøy per scontare l’ultimo periodo della pena, anche se non mancano i prigionieri appena condannati. In media, sull’isola si rimane per non più di un anno. Il principio è semplice: “fiducia e sorveglianza”. Certo, a questo va aggiunto che ognuno dei detenuti deve scegliere un mestiere: sull’isola possono muoversi liberamente, ma hanno l’obbligo di lavorare. “L’amministrazione - scrive Pauline Liétar - cerca di orientare i detenuti più difficili verso l’allevamento del bestiame, un’attività che ha spesso effetti terapeutici”. “Questi animali mi hanno reso migliore”, confessa Sigurd. “Anche la ristrutturazione delle case in legno dei prigionieri - continua il giornalista - viene fatta nel rispetto dell’ambiente. I carpentieri sfruttano la legna della foresta e usano la segatura come combustibile per riscaldare gli edifici. È stata addirittura creata una casa ecologica che funziona grazie a dei pannelli solari e che servirà da modello per le prossime costruzioni. Le biciclette, in fine, stanno a poco a poco sostituendo le automobili. Grazie a questo attento uso dell’energia e alla vendita dei vitelli e della lana delle pecore, la prigione di Bastøy è quasi autosufficiente. Qui un detenuto costa l’equivalente di 117 euro al giorno contro i 170 delle altre carceri norvegesi. Il risparmio è dovuto anche al minor numero di dipendenti: 69 ogni 115 detenuti”. Ma la fiducia non esclude la sorveglianza. Ogni giorno si perquisiscono due camere, scelte a caso, e vengono fatti cinque esami delle urine. Se un detenuto cerca di evadere, ha atteggiamenti aggressivi o riceve tre avvertimenti verbali, è immediatamente rispedito in una prigione normale. Chi ha problemi specifici (droga, violenza, pedofilia), poi, può seguire programmi di recupero a lungo termine.

Torniamo a casa
E in Italia? Esistono delle realtà “alternative”? Oltre l’esempio virtuoso delle carceri di Milano, l’unico progetto esistente è figlio di due esigenze, quella del dicastero della Giustizia e quella dello sviluppo economico. Un piano di sostegno alla cantieristica italiana, e grazie all’aiuto di commesse pubbliche “nelle città sedi di grandi porti - scrive il quotidiano La Repubblica - come Genova e Savona” verranno costruite “maxi-chiatte a più livelli in grado di ospitare fino a 400 reclusi”. L’Italia, sembrerebbe seguire l’esempio dell’Olanda e degli Stati Uniti. Il centro di Zaandam, nei pressi di Amsterdam, è una delle tante prigioni galleggianti presenti in Olanda. Negli Stati Uniti, invece, esiste il carcere Vernon C. Bain Correctional Center, nel Bronx, a New York. Il penitenziario è stato costruito per contenere cento celle e sedici dormitori. Le “carceri leggere” italiane dovrebbero “funzionare come case d’arresto per detenzioni di pochi giorni o con reclusi in attesa di trasferimento in altri penitenziari”. La Repubblica, continuando nell’articolo, registra anche l’opinione nettamente contraria del sindaco di Genova, Marta Vincenzi. “Conosco questo progetto, purtroppo. È una proposta incivile, sotto il profilo politico e ideale ancor prima che logistico. Sono contraria alle carceri galleggianti, una cosa completamente diversa da quelle strutture di recupero in cui credo”.
In Italia, sembra, si cerchi sempre la soluzione più vantaggiosa per i fruitori dei media. Media che sempre più frequentemente registrano casi di suicidio e disagio negli istituti di pena. Nelle carceri francesi c’è un suicidio ogni tre giorni: una percentuale dieci volte superiore alla media della Germania. La teoria, almeno per gli psicologi francesi che lavorano nelle carceri, esigerebbe - per ridurre il numero dei suicidi - di prendersi cura dei nuovi arrivati, garantire contatti con il mondo esterno e migliorare lo stato delle celle. Dopo molti rapporti del governo francese sul tema, però, la prassi è che per evitare i suicidi si adottano dei kit di protezione: pigiami e lenzuola inutilizzabili come corde per impiccarsi. Sembrano non interessare molto le cause del disagio.
La situazione italiana, secondo i dati dell’osservatorio permanente delle morti in carcere, dall’inizio dell’anno, vede più di 30 detenuti morti suicidi, la maggior parte di loro si è impiccata. Tre detenuti sono morti per cause da “accertare”. Secondo i dati dell’Unità, le morti in carcere, degli ultimi dieci anni, raggiungono 1.632 morti, quasi seicento sono suicidi. Uno degli ultimi casi, riportati dai quotidiani, è quello di Francisco Caneo. Ergastolano di 48 anni originario delle Filippine, si sarebbe ucciso - impiccandosi - approfittando dell’uscita del compagno di cella. Caneo era detenuto dallo scorso dicembre dopo una condanna all’ergastolo per duplice omicidio. Qualunque sia il reato e la condanna che un uomo può infliggere e infliggersi è sempre molto triste la perdita di una vita. Non si muore infatti solo per rassegnazione, si muore anche perché le “condizioni detentive - ci racconta un rapporto dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere - sono sempre più difficili: il sovraffollamento ha raggiunto livelli mai visti, il personale adibito al trattamento e alla sorveglianza è sempre più scarso, il lavoro per i detenuti sempre meno, il che significa che in carcere c’è maggiore povertà, che la manutenzione e le pulizie sono meno curate, che i detenuti trascorrono più ore in cella”. Secondo l’Associazione Ristretti Orizzonti, dagli anni ’60 a oggi i suicidi sono aumentati del 300 %. Abbiamo un problema. Un problema che è non è solo dei detenuti, è un problema che hanno anche gli agenti penitenziari. Sono aumentate le aggressioni, quasi 70 dall’inizio dell’anno, e sono aumentate le proteste dei sindacati. Il Sappe ha addirittura disertato la Festa nazionale della Polizia Penitenziaria del 18 maggio scorso. Leo Beneduci, segretario dell'Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria), ha annunciato una clamorosa protesta dopo l’incontro con il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. E a fotografare la situazione esplosiva dietro le sbarre ci ha pensato la Comunità di Sant'Egidio che ha diffuso i dati sul sistema giudiziario. A marzo 2010 i penitenziari italiani hanno raggiunto il loro “record storico”: ben 67.271 detenuti in strutture che al massimo potrebbero accoglierne 42mila. Un sovraffollamento che si registra nonostante il netto calo dei reati. “Il sistema giudiziario italiano è malato, ormai al collasso, perché il carcere non può essere l’unica risposta al problema sicurezza. Bisogna aprire alle misure alternative”, afferma il portavoce della Comunità di Sant'Egidio, Mario Marazziti. Secondo i volontari della Comunità di Sant'Egidio sono i poveri che spesso vanno in prigione. Sono le persone in condizione di bisogno sociale ed economico, “sulla strada”, o con gravi difficoltà personali; sono stranieri, tossicodipendenti, alcolisti, malati di Aids Le prigioni, una volta che si entra, sembrano tutte uguali. Uomini in gabbia divisi dal mondo esterno da spesse e alte mure, torre di guardia e sfuggevoli spicchi di celo. Un cielo che in estate si fa infuocato.
Le prigioni italiane rischiano di diventare una bomba a orologeria. Come abbiamo detto le strutture sono vecchie e in cattive condizioni, lo spazio per ogni detenuto è poco, la Polizia Penitenziaria è scarsa e mal distribuita e le attuali leggi hanno portato il numero dei detenuti in attesa di giudizio ad un livello altissimo. Sono oltre 30mila gli imputati che restano dentro solo poche ore e la statistica dimostra che il 30% di loro sarà assolto. I volontari, in fine, anche supplendo alle mancanze dello Stato sono vicini “all’esaurimento”, sono in fuga.
A queste mie considerazioni, molti obietteranno che in un periodo di crisi economica è molto difficile fare qualche cosa. Ricordiamo le domande che ci siamo fatti all’inizio del nostro viaggio: perché il sistema non collassa? Dove sono le rivolte? Dove sono gli scioperi ad oltranza del personale carcerario? Per rispondere a queste domande dobbiamo prima fare una considerazione. Se è pur vero che chi è in carcere ha sbagliato, e quindi deve scontare la pena, è altrettanto vero che noi tutti come società e comunità non possiamo renderci responsabili di comportamenti disumani e quindi di vendetta. Accettare questo porterà sempre più la nostra idea di comunità allo sfacelo. Ci abbiamo messo secoli per imparare che “occhio per occhio” non è la strada migliore, se scegliessimo di tornare indietro, cosa accadrebbe in futuro? Le rivolte non ci sono e gli scioperi sono civili solo per un motivo. La responsabilità civile dei detenuti e dei loro controllori è avvolte più alta di alcuni politici che urlano alla linea dura. Quando questa responsabilità cesserà di esistere avremo seri problemi. Possiamo come comunità aspettare che questo avvenga? Dobbiamo imparare, tutti, ad analizzare le situazioni in modo organico, questo è il primo passo.
Il vero problema, quindi, non sono le prigioni più o meno capienti e più o meno numerose. Il nodo della questione è il sistema Giustizia, non possiamo parlare di riforma degli istituti di pena o dell’ampliamento delle carceri o di costruzione di nuove carceri se prima non diminuiamo la durata dei processi e miglioriamo il sistema in generale. Dobbiamo uscire da una visione meccanicistica dei problemi. Viviamo in un’era in cui i processi sono integrati, le cause, spesso, vengono da lontano e sono indipendenti dalle nostre scelte campanilistiche e ideologiche. Dobbiamo, in sostanza, cominciare a pensare fuori dai vecchi schemi ideologici e ricordarci il principio del capo indiano Seattle. “Se siamo troppo repressivi nei confronti dei prigionieri, un giorno questa violenza si ritorcerà contro di noi”.

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