home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 15:07

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
Giugno-Luglio/2010 - Articoli e Inchieste
Intercettazioni
La linea del Silp per la Cgil
di Claudio Giardullo - Segretario generale Silp per la Cgil

“Uno scientifico smantellamento dell’armamento
investigativo e compressione del diritto
di cronaca”. E poi: “L’efficacia degli strumenti
di indagine ha molto a che fare con l’esercizio
dei diritti dei cittadini”


Non si possono cogliere pienamente gli effetti delle modifiche alla disciplina delle intercettazioni, attualmente in discussione al Senato, se non si tiene conto di due fattori di contesto in questa riforma: il primo è la perdita complessiva di legalità, che in Italia sta assumendo il carattere di vera e propria emergenza.
Noi pensiamo che il Paese abbia bisogno di fare una discussione urgente sul perché la legalità, nella inquietante disattenzione delle classi dirigenti, stia correndo il rischio di perdere la sua funzione di coesione sociale, di valore centrale per l’identità del Paese e di strumento di difesa di chi non ha potere.
Un rischio concreto e non teorico, perché la fatica di rispettare le regole sembra avere sempre meno cittadinanza, a partire dai versamenti della sicurezza sul lavoro o della finanza pubblica e privata; perché i fenomeni di corruzione non sono certamente diminuiti con la Seconda Repubblica, ma stanno assumendo una dimensione sistemica; e perché il numero dei reati resta altissimo e l’idea di affidare quasi esclusivamente a magistratura e Forze di polizia il controllo di legalità, rischia di condannare il Paese ad un modello di crescita di tipo sudamericano.
Il secondo fattore di contesto sono alcune scelte di governo che non danno certamente la sensazione di volerlo ridurre questo deficit di legalità. Come quelle che riguardano il taglio di un miliardo di euro di fondi delle Forze di polizia e la minore capacità investigativa e di controllo del territorio che ne consegue; o il taglio della stessa dimensione ai fondi dell’Amministrazione giudiziaria e i riflessi che questo comporta sulla velocità dei processi.
E ancora, i contenuti delle riforme in cantiere, come quella sul processo breve, con la quale si determinerebbe di fatto l’estinzione anticipata di un numero significativo di giudizi e, quindi, un vulnus per le attività di contrasto del crimine; quella sul processo penale, che ridisegna il rapporto tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria, limitando, tra l’altro il potere di acquisizione della notitia criminis da parte del pm, e prevedendo l’obbligo a carico dello stesso di impartire esclusivamente al dirigente della Pg direttive e deleghe di indagine, un obbligo che esaspera inspiegabilmente la gerarchizzazione della Polizia giudiziaria e comprime il vasto panorama di professionalità esistenti; e riforme come questa sulle intercettazioni, che ridimensionerebbe in modo allarmante la capacità di indagine degli organi inquirenti, se venisse approvato l’attuale testo in discussione. Tutte scelte che a nostro avviso ridurrebbero, anziché rafforzare, la capacità operativa del circuito giudiziario e delle Forze di polizia.
Questa di oggi non è, ovviamente, la sede per una discussione approfondita sulla legalità e sulla dimensione di vera emergenza che sta assumendo nel nostro Paese, e, tuttavia, parliamo di un tema che riguarda la legalità e i diritti, e riguarda il lavoro degli operatori di Polizia. Perché l’efficacia degli strumenti di indagine ha molto a che fare con l’esercizio dei diritti dei cittadini, e perché questo disegno di legge rischia di consegnare agli investigatori armi sostanzialmente spuntate nella lotta al crimine.

I rischi insiti della nuova disciplina
Nel merito va ricordato, innanzitutto, che le intercettazioni sono uno dei principali strumenti investigativi a disposizione della Polizia giudiziaria, e che sarebbe strano se non fosse così, e cioè che nella società e nell’epoca della velocità e della comunicazione gli investigatori si ostinassero, o fossero costretti, a utilizzare soltanto i tradizionali strumenti di indagine, compreso il fiuto del vecchio poliziotto.
Questo non vuol dire, ovviamente, che non si possono fare indagini senza intercettazioni, o che il fattore umano non è più la risorsa centrale dell’investigazione, vuol dire, invece, che per i reati complessi e gravi, come quelli sulla criminalità organizzata, o quelli particolarmente violenti, dove i primi passi investigativi sono determinanti per l’esito delle indagini, le intercettazioni assumono un ruolo decisivo.
Vuol dire che le modalità di utilizzo di questo strumento devono, ovviamente, tenere conto del rispetto della privacy del cittadino. Ma certamente non vuol dire che sia nell’interesse del cittadino che una visione radicale ed estremista, nel tentativo di rendere più ampia questa tutela, finisca per gettare via il bambino con l’acqua sporca. Cioè finisca per svuotare di contenuto uno strumento che si è rivelato determinante nella cattura di grandi latitanti, e nella individuazione di reati gravissimi e dei loro autori, e tutto questo proprio nel Paese che, è stato detto, ha il più grosso esercito di mafiosi in servizio permanente effettivo del mondo occidentale, e l’organizzazione, la ’ndrangheta, oggi considerata al vertice del crimine internazionale.
Diversi gli aspetti del testo che, anche dopo la presentazione degli emendamenti da parte del relatore e del governo, in Commissione Giustizia del Senato, produrrebbero questo effetto svuotamento della disciplina delle intercettazioni.
E così il ritorno al requisito della sussistenza dei “gravi indizi di reato” per procedere all’ascolto, al posto degli “evidenti indizi di colpevolezza” previsti nel testo approvato alla Camera, potrebbe risultare solo un apparente passo indietro del governo, e nascondere, in realtà, una strategia che punta ugualmente ad alzare di molto la soglia di concessione dell’autorizzazione, ma più raffinata. Una strategia che mira ad aggirare i paletti fissati dal Capo dello Stato e dalla Corte di Cassazione, che ha costantemente affermato, su questo punto, che perché i gravi indizi di reato costituiscano presupposto per le intercettazioni è sufficiente che riguardino l’esistenza del reato e non la consapevolezza di un determinato soggetto, mentre l’emendamento presentato ad aprile fa comunque riferimento a norme del Codice di rito che riguardano esattamente la valutazione della prova, e quindi la colpevolezza, stravolgendo così la natura delle intercettazioni, che il Codice di procedura penale ha voluto come mezzo di ricerca della prova.
Il risultato di questa scelta sarebbe inevitabilmente la drastica riduzione delle indagini nelle quali è possibile l’utilizzo delle intercettazioni, a partire dai procedimenti contro ignoti, il cui impatto andrebbe valutato con attenzione, se non si vuole ridurre il tema della sicurezza ad un seducente argomento di campagna elettorale. Ma effetto di questa scelta sarebbe, anche e forse soprattutto, l’annullamento di ogni utilità di questo strumento investigativo. Utilità che risiede nella possibilità di impostare correttamente l’attività investigativa, sin dal suo avvio, con l’obiettivo di individuare i possibili responsabili, ma anche di escludere i possibili non responsabili. Aspetto questo che non viene sottolineato mai da chi vuole dare delle intercettazioni una connotazione esclusivamente repressiva, mentre costituisce elemento importante anche dal punto di vista delle garanzie delle persone indagate, e persino da quello del risparmio di spesa conseguente alla concentrazione delle indagini su filoni ben individuati e attendibili.
Ancora sul versante dei presupposti autorizzativi, l’impossibilità di utilizzare i contenuti delle intercettazioni dello stesso procedimento per chiedere altre intercettazioni nei confronti di terzi costituisce una limitazione incomprensibile, specie di fronte a reati strutturati sul modello della filiera, come quelli attinenti alle sostanze stupefacenti, rispetto ai quali si tratta di capire, come ha detto il Procuratore nazionale Antimafia in Commissione Giustizia del Senato, se si vogliono prendere solo gli spacciatori, oppure si vuol risalire anche ai cervelli dell’organizzazione, perché in questo secondo caso è necessario intercettare tutti i soggetti che compaiono nelle diverse fasi del reato.
Lo spostamento della competenza dal gip al Tribunale del capoluogo di distretto, che deciderà in composizione collegiale sulla richiesta di autorizzazione, è, diciamo, una singolare deviazione del sistema, visto che nel nostro ordinamento persino provvedimenti limitativi della libertà personale vengono assunti dal giudice monocratico, ma è, soprattutto, un grave fattore di rallentamento delle indagini e perdita di efficacia delle intercettazioni, perché il sistema giudiziario non è ancora sufficientemente informatizzato e si assisterebbe ad un lento andirivieni di documenti tra uffici giudiziari, e perché la composizione collegiale comporterebbe tempi organizzativi inevitabilmente più lunghi.
Ancora, l’aver fissato una durata massima per le intercettazioni contraddice, di per se, la dichiarata volontà del governo di combattere la criminalità organizzata, che ha, rispetto allo Stato, piena libertà di scelta dei tempi per svolgere le sue attività, tempi che solo chi ha una concezione astratta della lotta al crimine può immaginare necessariamente coincidenti con quelli riservati agli organi inquirenti. Sui limiti di sessanta giorni complessivi, più una proroga di quindici prevista dagli emendamenti presentati ad aprile di quest’anno, va detto che il lavoro degli investigatori passerebbe da difficile a improbo. Poiché, come gli operatori che eseguono intercettazioni sanno, spesso servono settimane di ascolto, a volte per problemi di lingua o dialetti, solo per capire i ruoli delle persone ascoltate, la natura degli affari effettivamente trattati, o le modalità operative del gruppo criminoso. Per reati gravi come la corruzione, dunque, altissimo sarebbe il rischio di non poter raccogliere elementi di prova sufficienti per limiti di tempo inadeguati. Mentre l’efficacia del regime differenziato della durata delle intercettazioni per i reati di stampo mafioso, il cosiddetto doppio binario, è, nella fase iniziale delle indagini, più apparente che reale, perché l’esperienza ha dimostrato che in quella fase la natura mafiosa o comune del reato spesso non è rilevabile, e che solo indagando sui cosiddetti reati satelliti, come truffe, estorsioni o reati in materia di appalti, si arriva al crimine mafioso.
Incomprensibile, poi, è la scelta di applicare all’acquisizione dei tabulati la stessa disciplina delle intercettazioni, anche a fronte di una oggettiva diversità del grado di intrusione nelle comunicazioni, e di un’altissima utilità dei tabulati nella prima fase delle indagini, quando a ridosso di alcuni eventi criminosi è necessario incrociare con urgenza i dati per avere i primi elementi su cui impostare gli sviluppi investigativi. Le restrizioni procedurali previste su questo versante sarebbero dunque, un altro fattore di rallentamento delle indagini, proprio nella fase in cui i tempi sono determinanti per formare un attendibile quadro indiziario.
Sul versante delle intercettazioni ambientali, a differenza di quanto accade oggi, l’ascolto sarebbe possibile solo nei luoghi in cui vi è motivo di ritenere che si stia compiendo un’attività criminosa. E’ evidente che se il testo della norma resterà questo sarà pressoché inutile fare questo tipo di intercettazioni, che sono, invece, risolutive in contesti criminali dove chi delinque evita di parlare di certi argomenti al telefono, preferendo trattarli di persona. Né il regime differenziato delle intercettazioni ambientali previsto per i reati di maggiore allarme sociale, come la tratta di persone, il traffico di stupefacenti e di armi, l’associazione mafiosa e il terrorismo, è di per se risolutivo, poiché è noto che all’individuazione di reati come l’associazione mafiosa si giunga spessissimo solo attraverso l’individuazione di reati comuni.
Altre incomprensibili limitazioni sono previste sul versante dell’utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti, dove vengono ristretti gli attuali margini, e si esclude questo utilizzo rispetto ai reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, oggi, invece, consentito dalla legge. Cioè non si potrebbero utilizzare inteercettazioni già acquisite in altri procedimenti, pur in presenza di reati gravissimi, come la violenza sessuale, i reati riconducibili alla pedofilia, i delitti contro l’incolumità pubblica, la riduzione in schiavitù, la devastazione e il saccheggio, i reati di mafia e di terrorismo e così via, con buona pace del proclamato impegno del governo per la sicurezza dei cittadini.
E ulteriori limitazioi, nel solco della generale strategia di compressione delle intercettazioni, sono previste anche sul versante del divieto di utilizzazione delle intercettazioni effettuate nell’ambito dello stesso procedimento, come nel caso di derubricazione del reato in udienza preliminare o in dibattimento, e la non sussistenza dei limiti di ammissibilità. Durissimo, su questo punto, è stato il giudizio del Consiglio Superiore della Magistratura, in relazione al fatto che questo divieto di utilizzo è previsto anche per le intercettazioni acquisite nell’ambito di procedimenti riguardanti reati gravissimi, come quelli di mafia e terrorismo, rispetto ai quali la valutazione di pericolosità sostanziale dovrebbe prevalere.
E ancora, a differenza di quanto avviene legittimamente oggi, la norma che vieta registrazioni senza il consenso della persona impedirebbe a imprenditori e commercianti taglieggiati persino di fare una registrazione o una ripresa video dei mafiosi che fanno da esattori in molte città del Mezzogiorno, riducendo così le loro possibilità di tutela e di collaborazione con gli organi inquirenti.
E’ evidente, inoltre, che un tetto alle spese per una qualunque attività investigativa, che in quanto tale non è prevedibile e pianificabile, determinerebbe fortissime limitazioni, specie sul versante del contrasto alle grandi attività criminali. Su questo punto è stato ricordato, anche nell’ambito delle audizioni tenute dalla Commissione Giustizia del Senato, che la spesa è determinata soprattutto dal costo del noleggio delle attrezzature presso ditte private, e che il raffronto con altri Paesi sul numero delle intercettazioni autorizzate dal giudice spesso non tiene conto di quelle effettute direttamente dalla Polizia, laddove questo è consentito. In realtà, che la questione della spesa complessiva sostenuta in Italia per le intercettazioni non richieda, per trovare soluzione, uno stravolgimento normativo dell’istituto, lo dimostra il fatto che per avere, nel 2009, una sensibile riduzione della stessa è stato sufficiente istituire una semplice unità di monitoraggio.
Dunque, presentato come uno strumento di bilanciamento di diritti della persona e interessi dello Stato, cioè la privacy del cittadino da una parte, il diritto all’informazione e l’interesse a custodire il bene primario della legalità dall’altra, questo disegno di legge dà sensazione, in realtà, di essere la via per uno scientifico smantellamento di un pezzo importante dell’armamentario investigativo previsto nel nostro ordinamento, ma anche di una compressione ingiustificata del diritto di cronaca, e tutto questo nonostante il puntuale intervento preventivo del Capo dello Stato, a tutela dei diritti garantiti nella Costituzione.
Basti ricordare, su quest’ultimo versante, che il testo in discussione al Senato, se venisse approvato in aula lo specifico emendamento presentato dal relatore ed approvato in questi giorni dalla Commissione Giustizia, farebbe addirittura un passo indietro rispetto al disegno di legge licenziato dalla Camera, a causa del divieto di pubblicazione di tutti gli atti di indagine fino al rinvio a giudizio dell’imputato. Un divieto che non ha alcun collegamento diretto con le intercettazioni. Un divieto dagli effetti paradossali e di difficile tenuta, perché persino nei casi di omicidio, magari seriale, o in quelli che riguardano reati finanziari, con un possibile effetto negativo su un numero imprecisato di persone, i mezzi di informazione non potrebbero pubblicare nulla per un periodo di tempo che potrebbe arrivare anche ad un paio di anni. Un divieto comunque irragionevole, perché non fa alcuna distinzione tra le notizie rilevanti e non più tecnicamente segrete, che potrebbero essere pubblicate, e quelle non rilevanti o ancora segrete che ovviamente non devono essere diffuse. Un divieto che sembra voler contenere l’interesse dei cittadini, e ridimensionare il ruolo dell’informazione nel nostro Paese sui temi che hanno rilevanza sociale e politica, più che garantire la segretezza delle indagini.
Solo così si spiega la scelta, sproporzionata, delle sanzioni penali per i giornalisti, fino a due mesi di arresto per gli atti di un procedimento penale per cui è vietata la pubblicazione, cioè fino a due mesi di arresto e la sospensione temporanea dell’esercizio della professione nel caso di pubblicazione di intercettazioni, anziché percorrere la strada del codice deontologico. E si spiega la scelta delle sanzioni amministrative verso gli editori, che avrebbero come inevitabile effetto quello di fluire negativamente sull’autonomia dei giornalisti.

Conclusioni
Il quadro complessivo che emerge da questa breve analisi che ha, ovviamente, guardato soprattutto agli aspetti generali e di natura investigativa, è quello di un preoccupante arretramento delle condizioni in cui gli organi inquirenti dovrebbero effettuare il controllo di legalità nel nostro Paese, e di una grave compressione del diritto all’informazione, cioè di uno di quei diritti considerati imprescindibili per poter definire democratico uno Stato.
Condizioni purtroppo ottimali per il consolidamento di fenomeni regressivi da tutti considerati allarmanti, come quello della crescente disaffezione dei cittadini dalla politica.
Se davvero questa disaffezione è considerata un pericolo per la democrazia, la difesa della legalità diffusa, quella che va dal rispetto della persona nei suoi rapporti quotidiani sino alla più grave minaccia criminale, deve essere in cima all’agenda politica, perché nulla allontana il cittadino dalle Istituzioni più della sensazione di vivere in un Paese dove alto è il senso di insicurezza e radicata la legge del più forte, socialmente, economicamente e politicamente; e dove persino all’inizio del terzo millennio si coglie la tendenza verso una società fatta di pochi cittadini garantiti e i molti sudditi esposti ad ogni rischio.
Nell’attuale clima di preoccupazione per la sicurezza, e di aspro confronto politico e istituzionale sul tema della giustizia, noi pensiamo che le intercettazioni siano diventate uno snodo cruciale, un bivio tra un’idea formale e una sostanziale del rispetto delle regole e dell’esercizio dei diritti.
Un tema che dietro i suoi risvolti tecnici nasconde, in realtà, una scelta di valori, un modello culturale e politico di rapporto tra Stato e cittadino, per questo bene ha fatto, secondo noi, il Capo dello Stato a fare i suoi rilievi di merito sul rischio di lesioni di diritti costituzionalmente garantiti.
Incomprensibile, ai nostri occhi di operatori di Polizia, è la decisione di concludere l’esame sul disegno di legge sulle intercettazioni prima di quello sulla corruzione.
Comprensibile è, invece lo sgomento delle vittime, ma anche dei semplici cittadini di fronte alla consapevolezza che l’individuazione degli autori di alcuni gravissimi reati di violenza alle persone, o di truffe ingenti ai danni di migliaia di cittadini, o la cattura di pericolosissimi boss mafiosi è stata possibile grazie, soprattutto, a quelle intercettazioni che il disegno di legge del governo vorrebbe soffocare, o almeno lobotomizzare.
Per questo riteniamo che non si possa accettare una legge che fa abbassare la guardia al Paese nei confronti dell’illegalità e rischia di compromettere la lotta alla mafia, quella lotta per la quale sono caduti esponenti delle Forze di polizia, magistrati, politici, giornalisti, imprenditori, sindacalisti, amministratori, sacerdoti e semplici cittadini, tutti coraggiosi e coerenti eroi della Repubblica.
Per questo riteniamo che la battaglia contro lo svuotamento delle intercettazioni e la limitazione del diritto all’informazione, che è battaglia per la legalità e i diritti, e, quindi, per difendere la democrazia nel nostro Paese, insieme alla magistratura associata, al mondo dell’informazione, ai partiti che hanno a cuore i temi della legalità e ai semplici cittadini, questa battaglia per il futuro del Paese debba essere fatta fino in fondo.

FOTO: Claudio Giardullo, Segretario generale del Silp per la Cgil

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari