Quante volte, all’indomani di un crimine
efferato, ci chiediamo: e se la vittima fosse
stato qualcuno della mia famiglia? Istintivamente
ci immedesimiamo in chi subisce
una violenza, invochiamo l’ergastolo, pene
più severe. Rabbia, sdegno, risentimento: sono
questi i criteri della giustizia?
Quando Hannibal Lecter, omicida seriale con l’ossessione dell’antropofagia, con il suo sguardo ferino e il tono compiaciuto afferma di aver mangiato il fegato di un tizio con un bel piatto di fave e un buon Chianti, difficilmente riusciamo a provare un briciolo di comprensione o di empatia nei suoi confronti. Il suo palmares criminale vanta innumerevoli omicidi, il primo dei quali compiuto appena quattordicenne con una spada samurai. E’ chiaramente un mostro, un essere disumano e crudele, un individuo pericoloso che va rinchiuso in carcere fino alla fine dei suoi giorni. Nel primo capitolo della sua saga, Il silenzio degli Innocenti, ce lo ricordiamo così, con il volto luciferino ingabbiato in una sorta di museruola, immobilizzato, come una bestia feroce. Poi arrivano i capitoli successivi e improvvisamente si viene assaliti da un’inaspettata pietà per la sorte del giovane Lecter e per un passato maledetto che lo ha condannato al male. Durante la guerra, infatti, Hannibal e la sorellina Misha rimangono orfani: i due bambini, rispettivamente di otto e di quattro anni, vengono fatti prigionieri da un gruppo di nazisti che, stremati dalla fame, decidono di uccidere e mangiare la piccola, sotto gli occhi ancora innocenti di Hannibal.
Fortunatamente Lecter è un personaggio della finzione e le vittime che ha mietuto esistevano solamente nella mente di Thomas Harris. E’ innegabile, però, che anche la realtà ha i suoi Hannibal Lecter, uomini che si sono macchiati di crimini efferati, che hanno ucciso, torturato, sconvolto l’immaginario collettivo. Di questo ho voluto parlare con quello che è stato spesso definito l’“avvocato dei diavoli”: Nino Marazzita.
Perché ti chiamano così?
Perché in un determinato momento della mia vita ho difeso molti famosi serial killer, tra i quali Donato Bilancia [reo confesso di 17 omicidi, ndr] e Michele Profeta [morto in carcere dopo aver ucciso 2 volte, ndr]. Tra questi c’era anche il “mostro” della Maiella, un pastore macedone che aveva violentato e ucciso due ragazze che stavano facendo una gita in montagna. Una terza ragazza, sorella di una delle due vittime era riuscita a scappare, trascinandosi fino alla frazione Marane, ai piedi della montagna.
Questo pastore, in Italia da cinque anni, viveva costantemente sulle montagne abruzzesi, accudendo le pecore per conto di altri. Quando l’ho visto per la prima volta nella caserma di Polizia mi è sembrato un uomo sulla quarantina, con la barba lunga e incolta, molto trasandato: ho cercato di parlare con lui, ma non riusciva ad articolare bene le parole. Pensavo che conoscesse poco l’italiano e, quando gli chiedo se capisce la mia lingua, mi fa cenno con la testa di sì. Lo rivedo due mesi dopo in carcere. Sbarbato, vestito, lavato. E mi accorgo che il pastore aveva poco più di vent’anni.
Il mio intento in questo processo era di non fargli prendere l’ergastolo e, in effetti, ha avuto “solo” trent’anni. Mi colpì la testimonianza di un cacciatore che si era rivolto al pastore per chiedergli alcune informazioni: egli raccontò che il giovane non riusciva a parlare, cosa che avevo notato anche io quando lo incontrai per la prima volta. Non riusciva a parlare, certo, perché a vivere per anni nei boschi circondato da pecore e cavalli si perde l’abitudine. Non solo non sapeva più parlare, ma non era più in grado di interagire con altri esseri umani: la sua regressione allo stato animale non era solo fisica, ma anche e soprattutto psicologica. Proprio in considerazione di questa vita brutale e animalesca gli hanno dato le generiche ma non l’ergastolo.
Questa persona, in realtà, mi commosse e mi intenerì molto: questo chiaramente ho evitato di dirlo al processo, perché quando accadono questi fatti c’è una comunicazione di tipo emotivo. Una comunicazione inevitabile che innesca nella gente il desiderio di uccidere, di vendicarsi, immedesimandosi, pensando alle proprie mogli e alle proprie figlie.
Se potessero, a volte salterebbero addirittura il processo per arrivare dritti alla condanna. In realtà, il processo penale non può prescindere da una delle sue maggiori prerogative: scandagliare l’animo umano. Quello che spesso la gente non capisce è che non bisogna lasciare il giudizio all’emozione. Il processo, infatti, va imbrigliato in determinate regole: se il Codice penale prevede determinate pene, quelle pene vanno date.
Come accade anche oggi, all’epoca sui giornali ci si imbatteva in titoli di grande effetto emotivo. Su Oggi si legge, in riferimento alle vittime: «Vivevano solo per dare amore agli altri»; sul Corriere della Sera: «Il pastore :sì le ho violentate e uccise», «Mi piacevano, le volevo» accanto alla foto del giovane con una sigaretta in bocca e lo sguardo perso nel vuoto. E’ chiaro che un certo tipo di comunicazione tocca tasti molto delicati nella sensibilità collettiva, il che rende più difficili giudizi lucidi e razionali.
Non solo, ma favorisce la diffusione dei luoghi comuni nella percezione del processo. Ti faccio un esempio accaduto pochi mesi fa. Dopo nove anni è uscito dal carcere Omar Favaro, condannato insieme a Erika Nardi per il massacro di Novi Ligure. In quei giorni Gramellini, uno dei migliori giornalisti italiani a mio avviso, scrive un articolo su La Stampa, il cui senso, in sintesi, è questo: premesso che nello stato di diritto valgono le leggi e l’applicazione delle stesse, il fatto che Omar abbia scontato appena nove anni mi pare abnorme. A me è sembrato un discorso molto contraddittorio: se i processi non li regola il codice, chi li deve regolare?
Secondo te è giusto che una persona come Omar, colpevole di un delitto così efferato, sconti nove anni di prigione e poi esca fuori? Cosa deve fare un avvocato, lottare affinché una pena sia applicata secondo il Codice anche se la reputa insufficiente?
Il discorso deve essere diversificato. Ci sono leggi inadeguate, come quella relativa agli omicidi, frequentissimi, con automobili lanciate ad altissime velocità da persone che hanno bevuto e che si sono drogate. La legge qui è insufficiente: l’imputazione di omicidio volontario regge al massimo fino alla Corte d’Assise d’Appello. Alla fine dell’iter giudiziario, la contestazione più grave è “omicidio colposo con la previsione dell’evento”, che è un’aggravante: chiaramente, però, non si va al di là dei cinque anni.
In questo caso ci vorrebbe una legge apposita, una forma di omicidio che sia adeguata a questo tipo di comportamento. Un comportamento irresponsabile, incivile, folle e che mette a rischio la vita di un essere umano.
E nel caso di Omar?
Lui aveva avuto 14 anni, poi sono arrivati gli sconti di pena e la concessione del regime di semilibertà. Alla fine, il magistrato di sorveglianza gli ha concesso 45 giorni di libertà anticipata relativa all’ultimo semestre della pena espiata. Il condono, del resto, lo ha fatto il Parlamento. In più il punto fondamentale è che tutte le perizie dicono che Omar è stato completamente rieducato ed è reinseribile nella società. E, se questa è la finalità della Costituzione, la pena è giusta.
L’alternativa qual è? Chi stabilisce al di sopra delle norme quanto deve essere la pena? Mi pare che abbia ucciso con 90 coltellate: se gli avessero dato 90 anni pensi che l’opinione pubblica sarebbe stata appagata? Forse sì, ma lo stato di diritto sarebbe stato violato.
In realtà credo che gran parte dell’opinione pubblica sarebbe stata appagata, anche se il prezzo sarebbe stato la violazione della norma: sull’onda emotiva, infatti, mi pare che in molti invochino una “vendetta” più che una pena.
Sì, ma non per questo va assecondata la volontà popolare. Bisogna capire che ci sono due livelli: il livello emotivo, che crea un allarme sociale abnorme, e quello processuale.
C’è una cosa che viene sempre trascurata: il processo penale deve sì considerare la vittima, ma è finalizzato all’imputato. Se ci fosse un obiettivo di una macchina da presa, sarebbe puntato sul personaggio imputato: è lui che bisogna scandagliare, di lui bisogna conoscere i problemi. Solo così è possibile capire il livello di autocontrollo che un uomo ha potuto acquisire. Il problema è quando il colpevole è un ragazzo che viene da una famiglia sana che gli ha trasmesso regole e principi altrettanto sani: in quel caso le attenuanti sono poche.
In un caso come quello di Omar, il problema reale non è quello del numero di anni scontati, ma quello dell’effettivo recupero. E’ questo che mi sono chiesto quando ho letto la notizia della sua scarcerazione: é stato davvero recuperato? Anche Izzo è uscito con una perizia che lo dipingeva come un angelo, mentre tutti sappiamo che è un folle criminale.
Io credo nell’utopia del processo penale: la personalizzazione della pena. A mio avviso bisognerebbe fare quello che in parte esiste nel diritto americano e anglosassone: in caso di omicidio in primo luogo occorre fare una perizia psichiatrica. Se un uomo uccide la madre, bisogna capire cosa lo ha spinto, le motivazioni che lo hanno condotto ad un atto del genere. In Italia, invece, la perizia psichiatrica è vista come un escamotage per sfuggire al processo, ma questo non è vero. Se la perizia è fatta bene e individua una malattia mentale, l’imputato non deve essere punito, ma curato. Il pazzo non si punisce, si cura. Essere dichiarato non imputabile non significa farla franca: le strutture deputate alla riabilitazione di queste persone un tempo erano manicomi giudiziari, luoghi di detenzione più brutali del carcere.
Il carcere, quindi, non va bene per tutti i reati?
A mio avviso, ad esempio, le persone che hanno commesso piccoli reati e che non destano allarme sociale non dovrebbero fare il carcere, perché nelle maglie di queste strutture finiscono persone che non sono protette, che non hanno soldi, che non possono permettersi un buon avvocato. Spesso sono poveretti che vengono dimenticati lì, in quella specie di inferno, di luogo di rifiuti umani. Altra cosa che andrebbe limitata è la carcerazione preventiva: se la Costituzione prevede un principio di innocenza fino all’ultima sentenza, non si può tenere qualcuno sotto la spada di damocle di tre processi.
Spesso ho sentito invocare la “certezza della pena”, uno slogan di grande effetto mediatico che i politici tirano fuori, ad esempio, all’indomani di un delitto efferato. Io parlerei più che altro di “certezza della prova”, perché in carcere devono andare persone veramente colpevoli: anche in questo caso, poi, non bisogna dimenticare che la finalità costituzionale della pena è quella di recuperare l’individuo affinché possa essere reintegrato nella società.
FOTO: Un’immagine del film “Il silenzio degli innocenti”
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