Meno tempo libero, scarsa rappresentanza
in politica, negli uffici, in tutti i posti
di comando. Sono vittime
di discriminazioni, imprigionate in stereotipi
che non le rappresentano, eppure
non si ribellano. Nel suo ultimo
libro, “Ma le donne no”, Caterina Soffici
prova a spiegarci perché le donne italiane
hanno smesso di lottare
Viviamo in un Paese dove esistono il divorzio e l’aborto, dove tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, in cui tutti possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Eppure, in questo Paese vivono moltissime mogli sottomesse, lavoratrici discriminate e mobbizzate, che lasciano il lavoro alla nascita di un figlio, che non riescono a fare carriera perché schiacciate da un odioso soffitto di cristallo.
Viviamo in un Paese in cui esistono i diritti, ma le donne non ne hanno consapevolezza. Si sono illuse di essere libere, di poter scegliere la vita che volevano, ma non si sono accorte che sulla strada della parità si è lentamente aperta una voragine. Dalle piazze in cui erano scese le donne italiane sono tornate silenziosamente tra le mura domestiche, hanno smesso di reagire, di arrabiarsi, di ribellarsi. E hanno acceso la televisione, popolata da veline e letterine, da donne di plastica mute e sorridenti, accessori dell’uomo, oggetti del desiderio.
Secondo una recente indagine dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l'Italia è uno dei Paesi con il più basso tasso di occupazione femminile: le donne guadagnano circa il 20% in meno dei colleghi maschi e hanno 80 minuti in meno a disposizione per lo svago.
Nel suo ultimo libro Ma le donne no (Feltrinelli ed. - pagg. 208 - E 14), Caterina Soffici si chiede cosa sia accaduto in questi ultimi vent’anni, perché le donne abbiano abbassato la guardia, ritrovandosi senza accorgersene nel Paese più maschilista d’Europa. Non è un libro di lamentele e di rancore, anche se a leggerlo ci si arrabbia e come. E’ un libro che apre uno squarcio di luce su una situazione tutt’altro che rassicurante, ma che si conclude con cinque interessanti proposte e che invita a farne di proprie. Solo illusioni? Del resto, come ricorda la Soffici, «il futuro è dei folli e dei sognatori».
Nei primi paragrafi del suo libro si susseguono storie di donne che, vittime di discriminazioni, hanno intrapreso battaglie contro colossi come la Goodyear e Wall-Mart. Storie di donne americane, inglesi, persino africane, che hanno saputo lottare, aspettare anche anni pur di vedere i loro diritti rispettati. In Italia, invece, le donne «si lamentano alla macchinetta del caffè e nei corridoi degli uffici» e, quando provano a ribellarsi, trovano un vero e proprio muro di gomma. Cosa rende le donne italiane diverse da quelle del resto del mondo?
C'è un problema di mentalità e di cultura, per cui le donne si sentono sempre "ospiti" nei luoghi di lavoro perché la società, i mass media le presentano e le vedono principalmente nei ruoli di madre e moglie. Comunque in casa.
Come è potuto accadere che le donne, nell’arco di pochissimi decenni, siano passate da una stagione di lotte e di rivendicazioni all’accettazione passiva di un ruolo subalterno all’interno della società? Perché, dopo le prime grandi conquiste, si sono fermate?
Perché le femministe hanno fatto molti sbagli ed erano troppo ideologizzate. Paradossalmente è stata l'ideologia a sconfiggere l'emancipazione.
E in secondo luogo perché le giovani donne credono di essere libere in un Paese dove non ci sono più diritti e conquiste da difendere.
Dalla storia di Mariangela, brillante ingegnere che si vede scavalcata dai suoi più giovani e inesperti colleghi maschi solo per il fatto di essere donna e madre, emerge che in Italia le leggi in materia di discriminazione sul lavoro sono piuttosto lacunose e inefficaci. In questi casi, cosa può fare una donna per avere ciò che le spetta e per il quale ha duramente lavorato?
C'è una tutela molto forte sulla maternità, ma non sulle discriminazioni. In Usa, per esempio, i colleghi che testimoniano in una causa di lavoro sono tutelati dalla legge. Da noi no.
E di norma chi ricorre alle vie legali lo fa per mobbing, che è una cosa molto diversa rispetto a una causa per il riconoscimento delle proprie mansioni.
Parliamo di quote “rosa”. Nel 2005 la proposta della Prestigiacomo, che prevedeva di riservare alle donne il 25% dei posti in lista, fu bocciata. La reazione della ministra non fu quella di lottare per sovvertire quel risultato, ma, più banalmente, quella di piangere. Dopo questo debole tentativo di quote rosa non si è più parlato. Lei cosa ne pensa? E’ d’accordo con Emma Bonino, che afferma di «voler essere scelta per merito e non per numero» oppure crede che una legge sia l’unico modo in Italia per garantire un’adeguata presenza femminile nei luoghi del potere?
Prima di scrivere questo libro ero abbastanza d'accordo con la Bonino: il merito più che le quote rosa.
Oggi ho completamente cambiato opinione: il merito non basta, le quote sono assolutamente necessarie. Perché sono uno strumento indispensabile non solo per preservare dei posti alle donne, ma soprattutto per cambiare la mentalità e la cultura di questo Paese.
E’ molto interessante, a mio avviso, la riflessione sulla dittatura della bellezza e sul corpo delle donne. Dalle storie e dalle affermazioni che lei ha raccolto emerge un Paese di donne che ha introiettato a tal punto lo sguardo e i desideri maschili da non riconoscere più i propri. Non crede che, alla lunga, diventeremo tutte molto infelici? Che quelle donne che dichiarano di essersi rifatte il seno o di fare le veline per libera scelta, rischino di non sapere mai chi sono veramente?
Lei ha perfettamente ragione. Il rischio è proprio questo.
Le giovani, soprattutto, credono di essere molto libere ed emancipate quando rivendicano la libertà di rifarsi il seno, mentre sono vittime inconsapevoli di uno stereotipo.
Tra tutte le manifestazioni di disparità e di discriminazione nei confronti delle donne, quale le sembra ad oggi la più grave?
Che le donne non abbiano accesso alle stanze dei bottoni. In politica, nella finanza, nelle organizzazioni. La Marcegaglia e poche altre sono le eccezioni che confermano la regola.
Alla fine del suo libro troviamo “cinque modeste proposte”: l’introduzione di quote in tutti i posti di comando, la concessione del lavoro part-time alle donne che lo richiedono, l’obbligo della paternità (cioè di un periodo di sei mesi in cui anche i padri, dopo la nascita di un figlio, rimangano a casa), il divieto di immagini sessiste e norme più rigide per i reati sessuali. Molte di queste proposte sono, ad oggi, ancora dei sogni. Cosa possiamo fare, nella vita di tutti i giorni, per fare in modo che quei sogni pian piano diventino realtà?
Credo intanto che sia importante parlarne. Senza sapere come stanno le cose è difficile anche agire. Poi è necessario fare rete. Poi appoggiare qualsiasi iniziativa in tal senso. E soprattutto non farsi la guerra tra donne, che è uno degli aspetti più deleteri della faccenda.
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