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Aprile-Maggio/2010 - Interviste
Mafia
L’ipocrisia della città della luce
di a cura di Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo

In tempi di proclami è bene cercare
di approfondire e analizzare i fenomeni. In questa intervista
il sostituto procuratore della Dda di Palermo Roberto Scarpinato
spiega perché siamo ancora molto lontani dal poterci dichiarare
prossimi vincitori su Cosa nostra. Una grave arretratezza
culturale di fondo, la propaganda mediatica, le banalizzazioni
e le semplificazioni possono determinare la definitiva consegna
del nostro Sud nelle mani dell’economia criminale, trasformando
la Sicilia in una sorta di emporio off-shore


Dottor Scarpinato, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ha dichiarato ufficialmente che verranno espulsi dall’associazione di categoria tutti quegli imprenditori che pagano e non denunciano il pizzo. Sul territorio siciliano il lavoro incessante delle Forze dell’ordine e della magistratura ha assicurato alla giustizia molti latitanti e centinaia di uomini d’onore di piccola e media grandezza, e sono stati effettuati sequestri di beni di ingenti entità. Possiamo dunque ritenere validi i proclami che da molte parti si levano sulla prossima sconfitta di Cosa nostra? O si tratta di pura propaganda?
Non è solo propaganda. Si sono fatti molti passi avanti rispetto al passato.
Ma siamo ancora lontani dalla comprensione dei nodi strutturali del fenomeno mafioso. Ho come la sensazione che si stia radicando nell’immaginario collettivo, anche a causa di un riduzionismo culturale sposato quasi unanimemente dai media, l’idea che la mafia sia solo quella dell’attak, cioè una mafia che pratica le estorsioni e alla quale si può rispondere attraverso il coinvolgimento di tutti gli operatori economici nel denunciare gli estorsori. Tuttavia questo è solo un aspetto del fenomeno, ed è, direi, quello minus valente, perché tutti si ostinano a dimenticare che la vera anima, il vero nerbo della mafia, è sempre stata l’imprenditoria mafiosa.

Cosa intende per imprenditoria mafiosa?
Mi riferisco ad una moltitudine di colletti bianchi, di imprenditori con al seguito uno stuolo di professionisti e consulenti che ha conquistato il mercato costruendo posizioni di oligopolio e dettando le regole con metodo mafioso. Costoro non pagano il pizzo, né lo pretendono. Hanno monopolizzato interi settori ricorrendo all’intimidazione e alla violenza. Il risultato è che oggi qui a Palermo, siamo nel febbraio del 2010, abbiamo arrestato tutti i capi militari e molti estorsori, ma il mercato edilizio, per fare un esempio, è ancora completamente assoggettato al sistema mafioso.
In questo settore, che è trainante, non esiste il libero mercato se non negli spazi residuali che non sono occupati dagli oligopoli mafiosi. Perché dagli appalti pubblici alle ristrutturazioni private, anche degli appartamenti di 300 metri quadrati, tutto il settore è monopolizzato da imprenditori mafiosi. E si tratta di un ciclo globale che va dal momento della vendita del terreno da edificare a quello della costruzione, e poi a scendere ai vari rami merceologici collegati: la rubinetteria, gli infissi, la vetreria, la tinteggiatura, tutti vengono puntualmente imposti da imprenditori mafiosi.
Ciò determina un conseguente aumento dei costi che nella sola Palermo si aggira, secondo le nostre stime, attorno a un 35-40%, e che viene scaricato sul consumatore finale. Questo mercato drogato, nelle fette più cospicue e significative, è nelle mani dei mafiosi che utilizzano gli uomini della mafia militare solo quando è indispensabile per rimuovere qualche ostacolo.
La cosa straordinaria è che tutto questo avviene alla luce del sole.

In che senso?
Questo è il vero centro della questione. Nel senso che noi magistrati veniamo a scoprire che l’impresa “x” è di pertinenza dell’imprenditore mafioso condannato per il 416/bis e sottoposto a misure di prevenzione, e che colui che ne risulta titolare ufficiale è invece un prestanome, solo a distanza di anni, ma chi sta sul mercato lo sa subito. Perché nelle contrattazioni gli imprenditori non trattano con il titolare ufficiale ma con quello effettivo, quindi tutti sanno chi è il reale proprietario dell’impresa “x”. Quindi tutti sanno e tutti non parlano.
E qui siamo di fronte a uno scandalo! Non possiamo permetterci di fare la morale al piccolo commerciante, al piccolo imprenditore che non denuncia l’estorsore che chiede il pizzo di 500 euro, quando dall’altra parte c’è una moltitudine di imprenditori che non denunciano i loro colleghi che praticano il metodo mafioso in vari settori del mercato, e c’è un’imprenditoria mafiosa che continua a fare affari con l’imprenditoria mafiosa, con cui va a contrattare appartamenti, a cui assegna gli appalti. Per cui: ben venga l’esclusione da Confindustria di chi paga il pizzo, ma ora mi aspetto la fase 2.

Cioè?
Mi aspetto che Confindustria espella tutti coloro, e sono centinaia, che hanno conquistato fette di mercato attraverso il metodo mafioso. Non mi riferisco soltanto a quelli che sono stati condannati, o sono sottoposti a misure di prevenzione, ma anche a quelli che avendo già espiato la pena sono sempre rimasti sul mercato mediante prestanome e continuando a praticare il metodo mafioso. Qui c’è una città che sa e tace. Bisognerebbe che Confindustria chiedesse ai tanti imprenditori che vanno nei cantieri e parlano con l’imprenditore mafioso se si può ritenere che noi possiamo sconfiggere la mafia se prima non c’è una mobilitazione da parte della grande crème dell’imprenditoria palermitana.

Il suo ragionamento capovolge la prospettiva comune secondo la quale è la mafia, e nel caso specfico Cosa nostra, ad avere vessato e infiltrato il mondo economico fino a farne parte “di prepotenza” per poi dettare regole a proprio vantaggio.
La mafia è da sempre una questione di classi dirigenti. Le recenti dichiarazioni di Massimo Ciancimino dimostrano, al di là di qualsiasi valutazione nel merito, quanto sia stato mistificatorio il quadro di un Provenzano che come un oscuro demiurgo, o come un burattinaio muoveva i fili di tutti gli affari sporchi dell’isola. Provenzano era invece lo specialista della violenza al servizio di Ciancimino e di altri esponenti della borghesia mafiosa che hanno praticato una predazione sistematica delle risorse facendo ricorso a tutti i metodi possibili. Laddove non si arrivava con la politica, laddove non si arrivava con la corruzione, laddove non si arrivava con i servizi segreti, arrivava Provenzano che era una delle leve di un sistema di potere che ha utilizzato ogni mezzo. Dalla politica legale a quella illegale, dalla corruzione alla violenza praticata dai servizi deviati e poi dalla mafia.
Oggi c’è un ritorno all’egemonia della borghesia mafiosa. Si è ripristinata la fisiologia del sistema mafioso da sempre retto – tranne la parentesi del dominio corleonese che è durata dall’inizio degli anni Ottanta fino alla metà degli anni Novanta – da capi organici alla borghesia mafiosa. Per citare solo alcuni esempi basti ricordare che, prima di Riina e Provenzano, a capo della famiglia di Corleone c’era il medico Michele Navarra, che nella Palermo degli anni Ottanta il capo della Cupola era Michele Greco, un distinto proprietario terriero ospite dei migliori salotti palermitani, si pensi ai potentissimi cugini Salvo, uomini d’onore appartenenti al Gotha della borghesia isolana, ed ancora a Lima, a Ciancimino e tanti altri. Oggi tanti capi della mafia sono medici, professionisti, imprenditori. La mafia militare popolare è tornata a fare le estorsioni e campa soprattutto di questo e di traffici di stupefacenti. Poi vi sono alcune aristocrazie mafiose che sanno come comportarsi, sanno rispettare le gerarchie sociali, e quindi vengono invitate a sedersi al banchetto e a prendersi la loro fetta di torta.
Oggi la borghesia mafiosa, però, non ha nemmeno bisogno di utilizzare metodi cruenti per conseguire i propri risultati, non ha quasi più ostacoli, si cammina, come dire, nel burro! E da qui si capisce anche perché non riusciamo a debellare la mafia dell’attak.

Ci spieghi.
Pongo a voi e pongo a me stesso una domanda: ma come è possibile che dopo aver arrestato a Palermo tutti i capi della mafia militare, dopo aver arrestato centinaia di estorsori, la quasi totalità dei commercianti e dei piccoli imprenditori continua a pagare il pizzo?
Certo non si tratta di autolesionismo né di masochismo. Sarà forse perché chi sta sul territorio, e non conosce la mafia delle fiction televisive, delle mistificazioni medianiche, e del racconto ufficiale, sa bene che fino a quando ci sarà una classe dirigente che in alcuni dei suoi segmenti portanti - gli imprenditori, la politica e il mondo professionale - continua a essere mafiosa e a fare affari con i mafiosi, noi avremo qui un’economia che inevitabilmente comporterà degrado metropolitano, sottosviluppo urbano e sarà una fucina di nuove leve che continuerà ad abitare quartieri come lo Zen, come Borgo Vecchio, da cui inevitabilmente emergeranno nuovi picciotti e nuovi estorsori in una catena ineliminabile.
Allora noi non possiamo prendere il problema dalla coda, dalla mafia dell’attak, lo dobbiamo prendere dalla testa.

In che modo la borghesia mafiosa genera degrado?
Perché è un sistema di potere che proprio per come è strutturato non può che produrre sottosviluppo, bruciare risorse, e quindi degrado, ed ha poi il problema di gestire una situazione sociale di povertà e di miseria, una criminalità che può diventare anomica.
Come si gestisce l’anomia, il disordine? Attraverso una struttura d’ordine. La mafia, appunto, la quale irreggimenta la delinquenza secondo regole codificate, impedisce che questa tracimi all’interno del contenitore urbano con rapine, furti per la strada, eccetera, e come contropartita questa struttura d’ordine preleva una parte del reddito, tramite l’estorsione, restituendo l’ordine. E’ un sistema che non può risolvere il problema della povertà sociale perché dovrebbe suicidarsi per farlo, dovrebbe impiegare le risorse pubbliche per eliminare il degrado sociale, ma così non potrebbe nutrire se stesso. E quindi fagocita le risorse, avalla la povertà sociale, e per garantire la pace sociale delega a strutture come la mafia la gestione di questo sottoproletariato. Il prezzo da pagare è una tassa, è il pizzo. E naturalmente non paga chi è responsabile di questo sistema ma chi sta sotto. E’ il cosiddetto “modello Ucciardone”, il carcere palermitano degli anni Ottanta in cui i mafiosi, in cambio di una serie di privilegi, garantivano il massimo ordine.
A Napoli, invece, vige il modello favelas, il modello sudamericano. Qui, dinanzi a una situazione di ingovernabilità sociale data da un numero elevatissimo di poveri e di sottoccupati, la criminalità vive e controlla spazi di extraterritorialità come il quartiere di Secondigliano o di Scampia dove si può spacciare a cielo aperto. L’importante è che tutto resti all’interno di quei quartieri, che non si invada il centro e le strade cittadine.
Quindi la città della luce e la città dell’ombra sono la stessa città. La città della luce brucia risorse e produce la città dell’ombra; la città dell’ombra fornisce servizi alla città del sole: droga, cocaina, prostituzione e altro.

Il modello ’ndrangheta, invece, è ancora differente?
Talora ho la sensazione che, in parte per buona fede, in parte con un’astuta strategia della comunicazione, si rischi di distogliere l’attenzione dalla mafia siciliana, per polarizzarla su quella calabrese della ’ndrangheta.
In proposito vorrei semplicemente invitare ad una riflessione. La ‘ndrangheta è certamente una delle organizzazioni criminali più efficienti al mondo, ma è una criminalità che, tranne poche eccezioni non coinvolge gli equilibri generali dello Stato e della democrazia. Tutti gli studiosi sanno che la criminalità organizzata è la forma criminale del terzo millennio con la quale dovremo commisurarci per forza perché è la risultante di una sorta di selezione della specie.
Mi spiego: così come l’economia globalizzata determina la concentrazione degli attori operanti nel mercato legale in cui non ci può essere più spazio per l’artigianato e per le piccole imprese, allo stesso modo non c’è più spazio per il piccolo artigianato criminale, e prevalgono i fenomeni di concentrazione criminale che, per eccellenza, sono proprio le mafie. Ecco perché in tutto il mondo dove esiste un libero mercato le mafie come la ’ndrangheta, la mafia cinese, la mafia turca, eccetera, sono destinate a divenire una forma stabile con cui gli Stati democratici dovranno misurarsi. Questa è una storia che ci porteremo per i prossimi decenni, dobbiamo convivere con questo problema. E questa è la ’ndrangheta.
La mafia siciliana è un’altra cosa. Non è solo criminalità organizzata, ma è anche uno dei capitoli più oscuri della classe dirigente italiana. Infatti se noi analizziamo la storia della mafia dal dopoguerra in poi, dalla strage di Portella della Ginestra ai tanti omicidi politici eccellenti, dal caso Andreotti a quello di tanti altri uomini politici condannati per collusione con la mafia, alla cosiddetta trattativa, ci rendiamo conto che questo elenco ci parla di una storia di criminalità politica.
Quindi dirottare l’attenzione ad altre forme criminali è un’operazione culturale mediatica molto sofisticata. Da una parte si vuol far credere che la mafia siciliana è solo la mafia dell’attak, dall’altra che oggi quella che conta è solo quella degli stupefacenti, e così lentamente si spengono i riflettori su quello che resta il nodo strutturale, non tanto della criminalità ma, diciamo così, della tenuta economica e democratica del Paese.

Qual è questo nodo?
Una classe dirigente che pratica un’accumulazione capitalistica mediante metodi criminali non è metabolizzabile come qualsiasi forma criminale, perché incide sulla struttura economica stessa del Paese.
Voglio dire, se i fondi della Comunità Europea, della Cassa del Mezzogiorno non hanno creato sviluppo ma sono stati dragati da questo pezzo di classe dirigente e hanno determinato un incancrenirsi di forme criminali popolari che si sono manifestate nella mafia, nella ‘ndrangheta, nella camorra, è chiaro che siamo di fronte a un meccanismo perverso a spirale, che è destinato ad aggravarsi. Perché se prima la risorsa della spesa pubblica poteva consentire almeno l’alternativa dell’assistenzialismo, con le assunzioni di favore mediante tutta una serie di elargizioni economiche che permettevano di gestire questo esercito di poveri, oggi che la spesa pubblica non c’è più, non è più possibile alimentare le catene clientelari con il federalismo fiscale che avanza, come potrà il Sud, finita la risorsa della spesa pubblica, restare in piedi?
Il pericolo è che si tenga in piedi con l’economia alternativa della criminalità, così come avviene in alcuni Paesi del Sud America che si reggono sulla narcoeconomia. Una parte del Sud, pur di non affondare, potrebbe trasformarsi in una zona off shore, un porto franco del Mediterraneo polo di attrazione di tutti i capitali sporchi. A far girare l’economia ci penserebbero i capitali mafiosi, le case da gioco, la defiscalizzazione della benzina, eccetera. Questo potrebbe essere il risultato di una irrisolta questione meridionale e di una irrisolta questione mafiosa.
Ecco perché quando percepisco grande entusiasmo solo perché Confindustria si limita ad espellere il piccolo imprenditore che paga il pizzo, mi sembra di essere ancora alla preistoria del problema. Allo stesso modo continuare a parlare del futuro della mafia in relazione alla cattura di Matteo Messina Denaro è deprimente. Il messaggio che viene diffuso e percepito è che una volta catturato anche quest’ultimo latitante il problema è risolto. Questo vorrebbe dire la distrazione delle risorse destinate alle Forze di polizia in Sicilia in altre direzioni, e la consegna dell’isola all’economia mafiosa alternativa.
Mi rendo conto quanto un’analisi del genere possa essere difficile per chi non è uno specialista in questo campo, ma in questo c’è anche una grande responsabilità dei media. C’è una semplificazione di questi temi e una forte miopia, un’incapacità di leggere il nuovo che è avanzato e che sta avanzando. Ci troviamo dinanzi ad un mutante che ricorda forme del passato, ma è ancora più sofisticato, e rischia veramente di far impallidire le storie che abbiamo vissuto fino ad ora.

Lei più volte e in diverse occasioni ha giustamente chiamato alle proprie responsabilità giornalisti e operatori economici. Tra le varie motivazioni, in buona o in cattiva fede, sono in molti a giustificarsi sostenendo di non poter prendere le distanze da un soggetto sospettato di essere mafioso o comunque attiguo a Cosa nostra (nel caso dell’imprenditore), o di non poterlo denunciare a mezzo stampa (nel caso del giornalista) fino a che non vi sia stata una condanna da parte della magistratura, e persino un pronunciamento della Cassazione. Insomma, esiste ancora una delega così forte alla magistratura?
Vi rispondo con un esempio banale. Se io scopro la domestica che ruba l’argenteria, non aspetto la sentenza della Cassazione per invitarla nel frattempo a trovarsi un altro lavoro.
A me sembra che ci sia in questo caso una contraddizione in termini.
Noi abbiamo un Codice penale che ci consente di erogare misure di prevenzione e di confiscare patrimoni milionari senza una sentenza. Allora se l’ordinamento prevede la possibilità di sospendere le licenze, le concessioni, le autorizzazioni di una persona con una semplice misura di prevenzione, quale può essere l’ostacolo ad un codice etico che sia strutturato secondo quelle che sono le norme dell’ordinamento penale?
All’interno di Confindustria, a quanto mi risulta, vi sono alcuni esponenti consapevoli di questo problema. Ma si tratta solo di una piccola avanguardia che fa capo ai Lo Bello, ai Montante che davvero vuole innescare una stagione di rinnovamento, ma è in contrasto con tutta un’altra corrente, talora ai vertici della categoria, che non solo non ne vuole sentire parlare, ma che rema contro, a volte continuando a trescare con l’imprenditoria mafiosa.
I media, invece, hanno consumato un vero e proprio disastro. Vi sono troppi giornalisti che non studiano, che hanno perso il gusto del loro mestiere e la voglia di fare inchiesta sul territorio, che riciclano luoghi comuni e quindi non aiutano più le persone a comprendere la realtà. Se ci fossero ancora giornalisti che raccontano quello che tutti sanno a Palermo, probabilmente… sarebbe come dire che il re è nudo.
E’ vero che il cervello borghese si è fatto più accorto, più astuto, che ha realizzato delle tecniche di dissimulazione della propria presenza sul mercato abbastanza sofisticate, attraverso complessi schermi societari ed il gioco delle partecipazioni incrociate, ma nella realtà del territorio e del commercio si sa cento volte più di quanto possiamo saperne noi magistrati, così come, per esempio, tutti sanno chi è l’usuraio del quartiere. E invece cosa accade? Che tutti sanno, nessuno fa niente, tutti fanno finta di non sapere. Aspettano che si muova la magistratura per poi dire che non basta, che ci vuole una sentenza definitiva.
Se non usciamo dall’ipocrisia, se noi resteremo inchiodati alla mafia dell’attak e degli stupefacenti non faremo passi avanti.
Queste banalità culturali fanno bene a pochi e male a molti, perché depistano le risorse e le energie verso un mono-obiettivo: la mafia militare.
Quello è solo uno degli obiettivi. Non può divenire l’unico obiettivo, tralasciando il contrasto ai sistemi criminali.

Che cosa è il sistema criminale?
E’ un nuovo soggetto criminale che si diffonde sempre di più, un network composto da colletti bianchi ed esponenti della mafia, che si muove secondo la logica della divisione dei compiti.
A Palermo è stato sperimentato negli anni Ottanta dal cosiddetto “sistema Siino”, il quale, come la Cassazione ha stabilito, non era costituito dalla sola organizzazione mafiosa o da una organizzazione di soli politici o di soli professionisti; erano tutti insieme. Si trattava di un network criminale costituito da soggetti appartenenti a mondi diversi – i politici, gli imprenditori, i professionisti, i mafiosi – i quali cooperavano tutti insieme per manipolare tutte le gare di appalto pubblico in Sicilia, spartendosi poi il surplus derivante dalla comune attività illegale, che faceva lievitare vertiginosamente il costo delle opere pubbliche. Con il ritorno all’egemonia della borghesia mafiosa , dopo la chiusura della parentesi corleonese, i sistemi criminali sono tornati a proliferare in vari campi, conquistando sempre più spazi rispetto alla più classica Cosa nostra, relegata alle estorsioni, alle forme predatorie più semplici o al traffico di stupefacenti. I sistemi criminali in genere utilizzano metodi incruenti per conseguire i loro obiettivi di arricchimento perché dispongono di altri mezzi altrettanto efficaci: il potere della corruzione, quello derivante da relazioni importanti a tutti i livelli che spianano la strada. Il ricorso alla violenza materiale costituisce un’arma di riserva che viene messa in campo facendo ricorso a mafiosi dotati di cervello i quali ne sanno fare un uso chirurgico.

Perché secondo lei si vive questa realtà con tanta arrendevolezza?
Perché, in fondo, contro il mafioso popolare che si esprime in un italiano sgrammaticato si crede che lo Stato possa intervenire, ma nei confronti di un colletto bianco che frequenta i migliori salotti della città, che entra ed esce dai corridoi del potere, non si crede sia possibile. Se poi proprio tale soggetto viene portato in palmo di mano dagli esponenti della migliore imprenditoria palermitana, il gioco si chiude. Si dice semplicemente: “Questo è il sistema”.
Ecco perché oggi, così come è sempre stato in passato, è un affare di famiglia interno alla classe dirigente. O noi abbiamo il coraggio di affrontare questo problema o faremo la fine di quei pazienti nevrotici che, come dicono gli psicanalisti, sono “agiti” dal problema e non possono risolverlo perché lo rimuovono. E la rimozione porta all’aggravamento di qualsiasi patologia.

Senta, per allargare il discorso al resto del Paese, molte indagini condotte dalla magistratura dimostrano il proliferare di comitati di affari, di network di potere che sembrano replicare metodologie mafiose. Si può parlare di metodo mafioso vero e proprio o è solo una questione di mentalità dell’approssimativo e del meschino che irresponsabilmente si vuole arricchire ai danni del prossimo?
Si tratta di un problema complesso che affonda le radici nella storia del nostro Paese. Lo spazio di una intervista non consente risposte esaurienti. Mi posso limitare ad un piccolo spot concettuale.
Proviamo a leggere il testo della legge 416/bis che regolamenta il reato di associazione mafiosa. “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”.
Come si può notare, se per un attimo dimentichiamo che si tratta di un articolo del Codice penale, sembra di trovarsi dinanzi alla descrizione di un modo degenerato e patologico di esercitare il potere politico. Tale metodo mafioso di esercitare il potere ha antiche tradizioni nel nostro Paese, che è arrivato all’appuntamento con la modernità in condizioni di assoluta pre-modernità. All’inizio del ’900 l’Italia aveva ancora una struttura di tipo semifeudale che legittimava questo modo di esercitare il potere. Che cos’era il barone? Che cos’era l’aristocratico spagnoleggiante? Era un soggetto che praticava l’arbitrio assoluto perché il potere non era regolato dalle leggi ma derivava da un’investitura personale concessa dal proprio superiore. I baroni, i conti, i marchesi venivano investiti dal re, che, a sua volta, veniva investito dall’imperatore, il quale veniva investito dal Papa, che veniva investito da Dio. Nessuno era responsabile nei confronti degli inferiori, ciascuno era responsabile solo nei confronti del superiore. Quindi questo “metodo del potere”, che Manzoni ha illustrato perfettamente con il personaggio di Don Rodrigo, prototipo del potente e del prepotente italiano, era la regola in Italia fino all’inizio del Novecento. Ed è durato fino all’avvento della Costituzione. Fa parte della tradizione italiana, fanno eccezione poche isole felici che sono durate poco: la Repubblica di Venezia, quella fiorentina, o il Piemonte, la breve parentesi dello Stato liberale prefascista. La classe dirigente è arrivata dunque all’inizio del secolo in questo modo, e quando, con l’avvento della modernità, il popolo, le masse hanno chiesto democrazia, ha risposto con il fascismo. Cioè con il sistema mafioso che si fa Stato.
Dopodichè, come sappiamo, la nostra Costituzione non fu un parto spontaneo di quella maggioranza della classe dirigente che aveva espresso il Fascismo. Ma fu dovuta al fatto che, in seguito alla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e alla caduta del Fascismo, si aprì un vuoto di potere. Di quel vuoto di potere approfittarono alcune élite, alcune minoranze, uomini che avevano combattuto nella Resistenza, gli uomini migliori del riformismo cattolico come Don Sturzo, uomini della cultura liberale prefascista, la minoranza degli azionisti i quali ebbero per un breve periodo le redini del Paese ed elaborarono una Costituzione che non rispecchiava il Paese reale, le culture di massa pre-moderne della classe dirigente e delle masse popolari affette da un tasso di analfabetismo elevatissimo. Ecco perché già negli anni Cinquanta quando i vecchi equilibri di sempre tornarono a stabilirsi si tentò in tanti modi di sabotare la Costituzione, di ridurla ad un libro dei sogni, ed ecco perché oggi quella Costituzione viene vissuta dalla maggioranza della classe dirigente come una camicia di forza di cui liberarsi per riscrivere una nuova tavola dei valori. Potremmo quindi dire che ci troviamo dinnanzi ad una regressione culturale macrosistemica. L’orologio della storia sta riportando il Paese verso il suo passato pre-moderno, e tale clima costituisce un habitat ideale per il proliferare del metodo mafioso e dei sistemi criminali.


[Tratto da: “Antimafia Duemila” n. 1/2010 - N°64 - www.antimafiaduemila.com]


FOTO: Il procuratore Roberto Scarpinato

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