L’attiva partecipazione dello Stato di Salò
alla “soluzione finale”, ricostruita
con dati, documenti e testimonianze
in un libro di Liliana Picciotto sul campo
di concentramento di Fossoli. Una codificata
divisione dei compiti tra autorità
della RSI e comandi SS
“Dal campo di Fossoli – snodo essenziale del sistema concentrazionario nazista – passarono per essere deportati nei campi di sterminio nazisti un quarto degli ebrei arrestati in Italia. In questa vicenda si tocca con mano – al di là di ogni possibile polemica storiografica o di ogni uso politico della storia – la responsabilità del fascismo italiano, e del fascismo repubblicano in particolare, si comprende ancora meglio la vacuità del mito degli ‘italiani brava gente’ con cui il nostro Paese ha cercato di crearsi alibi e di evitare di fare i conti con quella tragedia”: così scrive Lorenzo Bertucelli, Presidente della Fondazione ex Campo Fossoli, in una prefazione di “L’alba ci colse come un tradimento – Gli ebrei nel campo di Fossoli. 1943-1944”, il libro di Liliana Picciotto (Mondadori) – patrocinato dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea e dalla Fondazione ex Campo Fossoli - che ricostruisce, con dati e testimonianze, la partecipazione della “repubblichina” di Mussolini – quella dei “ragazzi di Salò” - alla fase finale dell’Olocausto.
Già nel settembre 1938 – precedute da una campagna di stampa orchestrata dal regime fascista – erano state emanate, con le firme congiunte di Mussolini e del re Vittorio Emanuele III, le leggi razziali che privavano i cittadini ebrei dei diritti civili. Nel 1943 un quinto degli ebrei italiani era emigrato all’estero, soprattutto nelle due Americhe e in Palestina, gli altri erano rimasti sottoposti alle misure della Direzione generale per la demografia e la razza del ministero dell’Interno, schedati, sorvegliati, angariati da restrizioni sempre più severe. Dopo il 25 luglio, con la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre era stato seguito dall’occupazione delle regioni del centro e del nord da parte dei tedeschi. E qui erano rimasti, praticamente in trappola, circa 33.000 ebrei, alcuni dei quali stranieri.
Anche se duramente impegnati dagli eventi bellici, i nazisti si impegnarono subito per applicare in Italia le regole della “soluzione finale”, già in atto dalla primavera del 1942 nel resto dell’Europa occupata. “Una circolare dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichsicherheitshauptamt, Rsha), il potente organismo poliziesco delle SS, diretta il 23 settembre 1943 a tutti i suoi uffici periferici, dichiarava che gli ebrei di nazionalità italiana he si trovavano all’estero non erano più esentati come in precedenza dalle deportazioni”. E’ il primo passo verso una codificata e sistematica operazione italo-tedesca. Liberato e trasportato in Germania, Mussolini assume la guida di una Repubblica Sociale Italiana (subito battezzata “la repubblichina di Salò”), sotto il controllo del plenipotenziario del Reich Rudolf Rahn e del capo delle SS in Italia Karl Wolff.
Del resto i nazisti non attendono la nascita della RSI per effettuare le loro retate, affidate a un fiduciario di Adolf Eichmann, il capitano delle SS Theodor Dannecker. Il 23 settembre vengono uccisi 54 ebrei rifugiati in alberghi e abitazioni del Lago Maggiore, e centinaia di arresti sono eseguiti in varie località, dal Piemonte all’Abruzzo. Il 16 ottobre a Roma una grande retata si conclude con l’arresto di oltre mille ebrei, adulti, anziani, bambini, subito deportati ad Auschwitz-Birkenau. poche ore dopo l’arrivo, 824 di loro erano stati fatti entrare nelle camere a gas. La squadra di SS comandata da Dannecker in quasi tutte le sue azioni si era valsa della collaborazione dei funzionari e agenti di Polizia e dei Carabinieri rimasti al servizio di Mussolini, mentre si strutturava una più organica forma di collaborazione in funzione anti ebraica tra nazisti e fascisti.
Il 14 novembre 1943, Verona, un’assemblea del partito fascista repubblicano traccia il programma del regime che dovrà reggere il nuovo Stato di Mussolini (amputato del Friuli-Venezia Giulia e del Trentino-Alto Adige che Hitler si era affrettato di annettere al Reich). Al punto 7 del programma, che riguardava la “questione ebraica” si decretava: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Questa affermazione sanciva gli arresti, le deportazioni, e i massacri seguiti all’8 settembre, e preparava quelli dei mesi a venire.
“Le misure di applicazione di quanto sopra enunciato non si fecero attendere – scrive Liliana Picciotto – Il 30 novembre il ministro dell’Interno dispose, con l’ordine di Polizia numero 5, l’arresto e l’internamento degli ebrei italiani e stranieri oltreché il sequestro dei loro beni”. Ufficializzato così il culmine della persecuzione contro cittadini già da cinque anni pesantemente discriminati, per le autorità di Salò si trattava di trovare dei campi di concentramento per accogliere gli arrestati. Non definitivamente, come si vedrà. All’inizio il problema fu momentaneamente risolto con 28 campi provinciali, custoditi dalla Polizia, presto consegnati ai tedeschi che li avviarono ad Auschwitz con un affollato convoglio partito da Milano il 30 gennaio 1944: su 605 deportati, 477 furono immediatamente uccisi. “Il governo della Repubblica sociale italiana mise al servizio della persecuzione antiebraica tutto il peso del suo apparato statale: erano coinvolti a livello diverso, vari Ministeri, tra cui il ministero dell’Interno, con una delle sue direzioni generali, la direzione generale per la demografia e la razza, e tutta la scala gerarchica costituita dai prefetti (chiamati in epoca fascista repubblicana ‘capi delle province’), dai questori e dai commissariati di Pubblica sicurezza, oltreché le tenenze dei Carabinieri, funzionanti in generale nei piccoli centri urbani, il ministero delle Finanze, il ministero di Grazia e Giustizia, il ministero dell’Educazione nazionale, il ministero della Cultura popolare”.
Per Mussolini e i suoi seguaci assumere la gestione della caccia agli ebrei sembra essere un modo per rivendicare un’autonomia nei fronti dei tedeschi che in altri campi non riescono ad ottenere; e i nazisti sono ben felici di lasciare agli italiani – che conoscono meglio la materia, e dispongono di liste anagrafiche – il lavoro di ricerca, di cattura e di prima custodia: poi saranno sempre loro a condurre le vittime alla tappa finale.
La scelta di una grande struttura che avrebbe sostituito i campi provinciali cadde sull’ex campo per prigionieri di guerra di Fossoli di Carpi, nei pressi di Modena, che oltre all’ampiezza presentava il vantaggio di essere vicino a un nodo ferroviario. Aperto il 5 dicembre 1943, saranno necessarie varie opere di riadattamento per renderlo pienamente efficiente. Parallelamente agli arresti, le Polizie della Repubblica sociale mettevano in atto una caccia accanita e capillare ai beni ancora posseduti dagli ebrei. Ad essi non era più permesso di possedere beni mobiliari o immobiliari di qualsiasi tipo. “Tra i beni da sequestrare potevano esserci aziende, terreni, fabbricati, titoli, crediti vari, conti in banca, quadri, mobili di arredamento, soprammobili, stoviglie, lenzuola, vestiario, suppellettili, persino spazzolini da denti e piccoli oggetti di uso domestico. L’ente pubblico Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare, creato fin dal 1939), aveva nella Repubblica sociale italiana le funzioni di sequestratore, di sindacatore e di liquidatore dei beni appartenenti ai sudditi nemici”.
Il 4 dicembre 1943 a Berlino si svolgeva una conferenza tra i funzionari del ministero degli Esteri e quelli della Rsha per esaminare la nuova situazione creatasi nei confronti degli ebrei nell’Italia occupata dopo l’ordinanza del 30 novembre: mentre si incaricava il plenipotenziario Rahn di esprimere a Mussolini la soddisfazione del governo tedesco, e di non far apparire il campo di Fossoli come un preliminare al fatale viaggio ad Auschwitz, a Verona si installa Friederich Bosshammer, inviato di Adolf Eichmannn, con l’incarico di organizzare le deportazioni. Fino all’evacuazione del 1° agosto 1944, causata dall’avanzata degli Alleati, da Fossoli partiranno 12 convogli di deportati. Dopo l’evacuazione fu istituito un nuovo campo a Bolzano, nell’Alpenvorland, dal quale partiranno altri tre convogli. Nel campo di Fossoli passò anche Primo Levi, ed è una sua frase a fornire il titolo del libro di Liliana Picciotto.
Nei territori del litorale adriatico annessi al Reich gli arresti degli ebrei furono eseguiti direttamente dalla Polizia tedesca dell’Ufficio antiebraico della Gestapo di Trieste. Gli ebrei arrestati a Fiume, Pola, Trieste, e in alcuni casi anche a Venezia e Padova, prima di essere deportati vennero rinchiusi nel campo triestino della Risiera di San Sabba, luogo egualmente di torture e uccisioni.
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Creato nel maggio del 1942 come campo Pg (prigionieri di guerra) n. 73, il campo di Fossoli nel gennaio del 1943 era stato ampliato con l’aggiunta di una struttura chiamata campo nuovo. Nella notte fra l’8 e il 9 settembre 1943 i tedeschi avevano invaso il campo, arrestando i militari italiani, e trasferendo in Germania i prigionieri, inglesi, australiani, neozelandesi, sudafricani. Il 25 settembre il campo era stato chiuso. Dopo l’ordinanza del 30 novembre che decretava l’arresto e il concentramento di tutti gli ebrei presenti nel territorio della repubblica di Salò, il 2 dicembre il prefetto di Modena Bruno Calzolai trasmise al Comune di Carpi l’ordine di riattivare il campo: “Poiché è necessario e urgente provvedere alla sistemazione di un campo di concentramento per gli ebrei in codesto Comune, prego prendere accordi con la Questura perché i lavori d’impianto siano subito eseguiti ed il funzionamento del campo non soffra alcuna remora”. Le spese sarebbero state sostenute dalla Prefettura, ma anticipate dal Comune di Carpi, e messe in bilancio sotto la voce “spese per il campo di concentramento per gli ebrei”.
Si delinea subito la collaborazione tra italiani e tedeschi nel quadro della “soluzione finale”: i primi si incaricano delle ricerche e degli arresti, i secondi provvedono alle deportazioni. Il 20 dicembre 1943, Wilberts, capo della Sicherheitsdienst di Bologna, scrive al questore di quella città: “Con riferimento al nostro colloquio del 10 dicembre 1943, chiedo la consegna degli ebrei arrestati in conformità al decreto italiano…”. Eguale richiesta viene indirizzata al questore di Modena, Paolo Magrini. Il 14 dicembre 1943, il questore di Firenze dirama un ordine che premette “Giusta ordini superiori e di intesa col competente Comando di Polizia tedesco, dovranno essere arrestati subito, per essere internati, gli ebrei…”. Il 1° gennaio 1944, il questore di Modena informando il Capo della Polizia della Rsi Tullio Tamburini della richiesta della SD di Bologna, precisa “… con esso ho già visitato il campo di concentramento di Carpi e da parte loro si attende che possa fornire un elenco di tutti gli ebrei onde poter iniziare il trasferimento in Germania”.
La sorveglianza del campo di concentramento era affidata ad agenti di Polizia, Carabinieri e militi della Guardia nazionale repubblicana. Il direttore - il primo fu il vicecommissario aggiunto Domenico Avitabile, seguito dal commissario Mario Tagliatela – rispondevano al prefetto di Modena. Una parte del grande complesso era riservata a internati civili detenuti per motivi politici.
Una svolta nell’atteggiamento dei tedeschi mutò, ma solo formalmente, la funzione del campo di Fossoli. “Alla fine di febbraio 1944, il generale delle SS Wilhelm Harster, comandante in capo della Sicherheitspolizei in Italia, manifestò l’intenzione di rendere più spiccato il ruolo del campo come luogo di sosta per la deportazione degli ebrei, non più attingendo a suo piacimento prigionieri ebrei sotto custodia italiana, ma addirittura requisendo l’area del campo a essi destinata”. Fossoli diventa ufficialmente un Polizei und Durchgangslager, Campo di Polizia e di transito, diretto dall’Untersturmführer SS Karl Titho. Agli italiani resta il compito delle ricerche e degli arresti degli ebrei, la parte vecchia del campo, e la sorveglianza esterna dell’intero complesso che dalla fine di marzo 1944 comprende: una sezione italiana, con detenuti politici, civili di nazionalità nemica, ostaggi; una sezione tedesca, con i detenuti ebrei, destinati alla deportazione; un’altra sezione tedesca, con detenuti politici destinati alla deportazione, anche in lager diversi da Auschwitz, come Bergen-Belsen, Mauthausen e Dachau.
Il totale degli ebrei passati nel campo di Fossoli fu di 2.844, 2.801 dei quali vennero deportati: la maggior parte uccisi al loro arrivo ad Auschwitz, o morirono successivamente per maltrattamenti e mancanza di cibo. I sopravvissuti furono 530, in prevalenza appartenenti al gruppo degli anglo-libici deportati a Bergen-Belsen.
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Quella grande porta spalancata
Riportiamo alcuni pasi della testimonianza del milite SS Eugen Keller, di scorta al convoglio di deportati da Fossoli del 16 maggio 1944, resa dopo la guerra alla procura di Stato di Berlino, nel processo xibrei Friedrich Bosshammer, accusato delle deportazioni degli ebrei dall’Italia. Keller descrive l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau del convoglio, atteso dagli ufficiali delle SS e dai kapò, detenuti comuni utilizzati come sgherri armati di manganelli. All’arrivo gli ufficiali tedeschi effettuavano una prima selezione tra chi sarebbe stato ucciso subito, e chi invece sarebbe stato “utilizzato” per un certo periodo.
“Quando arrivammo nei pressi di Auschwitz il tratto era pieno di altri convogli, Rimanemmo tutta la notte davanti alla rampa di scarico del lager prima di potervi accedere. Il treno rimase ancora tutto un giorno e una notte prima di venire scaricato. Noi, vale a dire il Begleitkommando, avemmo tutto il tempo di vedere scaricare gli altri treni e di osservare tutti gli ulteriori procedimenti dopo lo scarico. Erano treni di ebrei che venivano dall’Ungheria e dall’Olanda … Mentre il gruppo delle persone atte al lavoro veniva trasferito nelle baracche, gli altri venivano avviati a gruppi verso una sala enorme che aveva delle grandi porte di ferro che si aprivano e si chiudevano automaticamente. Internati del lager sospingevano gli ebrei a forza in quella sala e li colpivano a randellate. Gli ebrei levavano alte grida e lamenti. A quella vista, mi diressi verso quella grande porta che era spalancata e così ebbi modo di osservare che nella sala venivano compressi sempre più ebrei, e che gli ebrei che erano già dentro si stavano spogliando o erano già nudi. Ne rimasi così sconvolto che non mi sentii più di guardare. Dovetti volgere le spalle e tornare indietro. Seppi poi da internati del lager i quali stavano nel Corpo di Guardia dove ci trattenemmo abbastanza a lungo che la grande sala era una camera a gas nella quale gli ebrei, dopo che era stato ancora provveduto al taglio dei capelli femminili, venivano uccisi mediante il gas. Per indurli a svestirsi gli veniva detto che dovevano fare ancora la doccia prima di entrare nel lager. Quelli del Corpo di Guardia mi raccontarono inoltre che in quell’epoca arrivava un numero così esorbitante di convogli che quasi non ce la facevano a gasare e a bruciare i cadaveri nei forni crematori posti dietro alle camere a gas. Bisognava, in parte, distruggere i cadaveri con i lanciafiamme. In quel periodo arrivavano fino a 12.000 persone al giorno … Lo scarico del nostro convoglio avvenne esattamente in questo modo: secondo la mia valutazione, vennero qualificate abili al lavoro una trentina di persone, e tutte le altre furono introdotte a scaglioni nella sala”.
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