Per promuovere la libertà di religione
non basta autorizzare la pratica del culto
ma è necessario proteggere i cittadini
dagli abusi che possono subire in nome
della religione. Il Consiglio delle Nazioni Unite
per i Diritti Umani ha approvato la controversa
risoluzione sulla “diffamazione delle religioni”
promossa dall'Organizzazione degli Stati
Islamici (Oic) per condannare in primo luogo
l'islamofobia, e per risolvere le cause alla radice
delle tensioni religiose, che facilmente
vengono manipolate dalla politica
Può un organismo internazionale, creato in origine con l’intento specifico di proteggere i diritti umani e le libertà individuali, finire sotto scacco di nazioni teocratiche e di estremismi religiosi?
La domanda, per nulla retorica, è di grande attualità perché, quasi all’insaputa della comunità internazionale, è esattamente quanto sta accadendo. Il 29 marzo scorso infatti, la Human Rights Commission dell’Onu, ha approvato con 23 voti a favore, 11 contrari e 13 astenuti, una risoluzione, presentata dal Pakistan, che dice, letteralmente, che “il diffamare la religione è un serio affronto alla dignità umana che porta ad una restrizione della libertà dei suoi aderenti ed all’incitamento della violenza religiosa” e che “l’Islam è frequentemente ed erroneamente associato alle violazioni dei diritti umani ed al terrorismo”. A spingere affinché la risoluzione venisse approvata è stata l’Organizzazione della Conferenza Islamica, ente sovrannazionale che raggruppa 57 nazioni che sono accomunate dal fatto di essere a maggioranza musulmana. Solo gli Stati che hanno più del 50% di cittadini di fede islamica possono aderire all’organizzazione, il cui scopo dichiarato è proteggere gli interessi ed i valori sociali degli Stati membri. L’Organizazione, forte del peso numerico, negli ultimi anni ha agito con sempre maggiore frequenza ed intensità ai più alti livelli delle istanze governative dell’Onu. Il recente show teatrale di Gheddafi e i deliri antisraeliani del presidente iraniano, sembrano essere il risultato di anni di paziente lavoro di lobby del gruppo di pressione delle nazioni islamiche che, lentamente, sta schiacciando le resistenze con l’accusa di islamofobia. A questo si aggiunge l’importanza economica del petrolio da cui continuano a dipendere ciecamente gli Stati occidentali ed i cui proventi alimentano in maniera incessante le varie realtà del fondamentalismo islamico. I rappresentanti degli Stati musulmani appaiono guidati più da interessi di tipo religioso che da istanze, come dovrebbe essere, nazionali. Le diversità nazionali vengono azzerate per essere sostituite, nei discorsi e nelle piattaforme rivendicative, da una sola ed unica identità: quella islamica. L’adesione ai principi dell’Islam o ad una interpretazione conservatrice ed integralista degli stessi è il motore propulsore di tutte le istanze del gruppo di nazioni musulmane.
I primi risultati di ciò si erano già visti durante la Conferenza di Durban contro il razzismo. Quello che avrebbe dovuto essere un momento di riflessione e di presa di posizione contro le varie forme di razzismo, è diventato un festival di odio antiisraeliano ed antiebraico. Israele è finita nel banco degli imputati come nazione razzista e fautrice di apartheid e i più vecchi e beceri miti negativi sugli ebrei sono tornati prepotentemente alla ribalta. Con buona pace dei popoli indigeni dell’Amazzonia o delle donne dalit in India, le cui istanze hanno trovato ben poca attenzione, forse perché considerate meno importanti di quelle dei palestinesi.
Altro esempio di azione dell’Organizzazione della Conferenza Islamica si è visto successivamente alla pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto. Diversi Ministri degli Esteri di nazioni islamiche hanno preteso scuse ufficiali, hanno aizzato le folle che hanno inscenato manifestazioni violente, grazie anche al contributo di vari imam e delle loro predicazioni istigatrici.
Il dibattito che ne è seguito, relativo all’utilizzo possibile della censura per argomenti di tipo religioso ed alla possibilità o meno di mostrare atteggiamenti o discorsi irriverenti nei confronti delle religioni, ha mostrato, nel mondo occidentale, delle falle pericolose. Ancora una volta, nel nome del rispetto delle culture altrui e dell’antirazzismo, diversi commentatori hanno suggerito l’eventualità di una forma di autocensura da parte di intellettuali, giornalisti e personaggi pubblici. Non è giusto e non si può criticare le religioni e quella islamica in particolare ed è scorretto offendere la sensibilità dei fedeli che aderiscono a tale religione. La libertà di espressione deve quindi fare un passo indietro. Queste le conclusioni di una buona parte degli intellettuali del mondo occidentale che ha mostrato di piegarsi alle minacce provenienti dal mondo islamico.
Chi non si è piegata invece è stata la Danimarca, il cui primo ministro Rasmussen, ha ribadito in diverse occasioni la centralità della libertà di stampa. Al di là dei proclami belligeranti l’affaire delle vignette danesi è stata una prova di forza tra i fautori della libertà di stampa ed i rappresentanti degli Stati islamici. Occorre ricordare che diversi editorialisti del mondo arabo si erano schierati pubblicamente a favore della libertà di stampa, assumendo pubblicamente posizioni rischiose nei rispettivi Paesi. Da parte del Vaticano e di altre organizzazioni religiose cristiane c’è stato invece un coro unanime a sostegno di una limitazione, espressa con modalità diverse, della libertà di stampa. Si è parlato di bilanciamento di diritti e sono state esplicitate prese di posizione in cui si cercava di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Il sostegno all’attacco islamico alla libertà di parola e di espressione, per quanto espresso con toni decisamente più ragionevoli, è arrivato quindi anche dalle Chiese cristiane, con ben rare eccezioni. L’alleanza congiunta dei gruppi religiosi, già in opera nel corso delle conferenze internazionali sui diritti delle donne o su quelle su popolazione e sviluppo, si è ripresentata. Le nazioni islamiche non sono certo le sole ad esercitare una pesante influenza sulle decisioni dei vari Enti dell’Onu. Il Vaticano agisce alla stessa maniera, anche se evita il ricorso alle minacce e gli appelli alla violenza. Forte dello status di membro delle Nazioni Unite, che rende la Chiesa Cattolica Romana l’unica religione ad avere ufficialmente un proprio rappresentante all’Onu e dei numeri importanti, grazie alle numerose nazioni a maggioranza cattolica, specie nell’America Latina, il Vaticano riesce ad esercitare una forte influenza di tipo religioso su varie politiche a livello mondiale. Allo scopo di porre fine alle ingerenze cattoliche all’Onu il gruppo progressista Catholics for a Free Choice ha lanciato da diversi anni la campagna See Change il cui obbiettivo è rimuovere la Santa Sede dalla lista dei Paesi membri delle Nazioni Unite.
Pur se con modalità diverse e con capacità di pressione diverse gli integralisti islamici e quelli cristiani vanno a braccetto in molte occasioni e lavorano insieme su piattaforme comuni. Le dichiarazioni, nel novembre 2008, dell’allora presidente dell’Onu, il cattolico nicaraguese Miguel D’Escoto, a favore di iniziative legislative contro la diffamazione della religione, rientrano perfettamente in tale contesto.
Diverso è il discorso dei gruppi ebraici e sionisti. Questo, in primo luogo, perché la capacità di influenza di tali gruppi a livello delle Nazioni Unite è minimo. La restrizione dei diritti delle donne o, più in generale, dei diritti umani, non è un campo di azione in cui operano le associazioni legate alle lobby ebraiche e sioniste. La prima preoccupazione che anima i loro interventi è legata alla difesa di Israele che si trova, praticamente sempre, posto sotto attacco e condannato a più riprese dai vari enti dell’Onu. I gruppi ebraici e sionisti dedicano tutta la loro energia alla causa di Israele e non paiono interessati a far parte di lobby internazionali con i gruppi di integralisti cristiani ed islamici. Inoltre le posizioni ebraiche sulle tematiche oggetto di attacchi da parte dei cristiani e dei musulmani sono decisamente più progressiste, con l’eccezione delle comunità ultraortodosse, il cui peso, fuori da Israele, è però irrilevante.
Da parte della Chiesa cattolica pare esserci una malcelata invidia nei confronti dei leader islamici che riescono ad avere più peso ed a ottenere più risultati nell’imposizione del modello di società da essi promosso. A suscitare reazioni indignate e appelli al boicottaggio da parte delle gerarchie vaticane e delle organizzazioni cattoliche conservatrici, in mancanza della possibilità concreta della censura, sono finite anche opere di espressione artistica come è stato il caso dei recenti film Angeli e demoni e Il codice da Vinci.
La Chiesa cattolica si trova però a confrontarsi con società secolarizzate, con stati di diritto che vantano una forte giurisprudenza in termini della libertà di espressione artistica e di pensiero e con un’opinione pubblica generalmente ostile a forme di censura. Nelle nazioni islamiche questa resistenza alle pressioni degli integralisti religiosi è pressocchè inesistente. Molti governi di nazioni islamiche preferiscono cedere alla pressione dei fondamentalisti islamici nella speranza di avere meno atti di terrorismo al proprio interno. Le personalità ed i gruppi di musulmani progressisti o laici che agiscono nei Paesi occidentali si trovano ad agire con difficoltà, non solo perché i loro leader sono spesso minacciati ma perché si trovano a dover fronteggiare, oltre che i leader conservatori islamici, anche una parte dei governanti e dell’opinione pubblica, ancora soggiogata dal relativismo culturale. La voce dei musulmani progressisti o laici rimane una fonte importante di resistenza nei confronti degli attacchi alla libertà di stampa e di parola provenienti dai fondamentalisti islamici. Costoro sono animati dal desiderio di imporre le leggi e l’ordinamento sociale derivante dalla sharia che devono primeggiare sulle legislazioni che traggono la loro ispirazione dalla separazione tra la sfera religiosa e quella politica.
Alla luce di questo è da intendersi la dichiarazione, nel 1981, dell’allora rappresentante iraniano all’Onu che aveva criticato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dicendo che era “un’interpretazione laica della tradizione giudeo-cristiana” che non avrebbe potuto essere applicata dai musulmani senza oltrepassare la legge islamica. A seguito di varie critiche espresse in tal senso da vari rappresentanti islamici, si è arrivati, nel 1990, alla Dichiarazione del Cairo dei Diritti Umani nell’Islam. L’originale Carta dei Diritti è stata di conseguenza rivisitata in chiave islamica in modo da poter dare alla stessa un avvallo religioso. Ad essere inquietante però, non è solo la necessità di rivedere l’approccio dei diritti umani in chiave religiosa, ma soprattutto il risultato di tale rivisitazione. La International Humanist and Ethical Union ha espresso forti critiche nei confronti della dichiarazione del Cairo in particolare per quel che riguarda la parità di diritti tra uomini e donne, la libertà religiosa e la libertà di espressione e di parola.
Diversi gruppi laici e di difesa dei diritti umani sono finiti in rotta di collisione con i rappresentanti delle nazioni islamiche all’Onu, tra questi Human Rights Watch e Amnesty International il cui lavoro di denuncia è costantemente attaccato ed ostracizzato.
Criticare l’operato e le pratiche liberticide delle nazioni islamiche equivale a criticare, agli occhi dei rappresentanti all’Onu dei Paesi islamici, l’Islam stesso. E questo deve essere impossibile. Governi che sono stati abili nel manipolare la religione e ad usarla come giustificazione della loro politica non possono permettersi di essere giudicati né dalla comunità internazione né, tantomeno da qualsivoglia Ente per la difesa dei diritti umani. La commistione tra religione e politica è ormai arrivata ai massimi livelli come lo è l’appiattimento delle varie identità e sensibilità nazionali nella sola ed unica identità: quella islamica.
Ad essere fautore di tale fenomeno culturale non sono solo i vari mullah ed imam che sfruttano la religione per imposessarsi di un potere sempre più assoluto ma anche diversi rappresentanti del mondo occidentale. Anche Barak Obama, con il suo discorso al mondo islamico da Il Cairo, ha seguito la strada già tracciata in tal senso. Rivolgersi, parlare, comunicare non a delle persone, a dei popoli, ma ad un’identità astratta, una religione. I cui aderenti sono disgraziatamente considerati alla stregua di automi che ubbidiscono coralmente a leggi divine imposte dall’alto, guardacaso, da un ristretto gruppo di uomini, ben poco interessato alla spiritualità e molto invece al controllo ed al potere. In questo modo il presidente americano, al quale si può concedere il beneficio della buona fede, non ha certo aiutato la causa dei tanti musulmani che aspirano alla democrazia con tutto quello che ne consegue, tra cui la libertà di stampa e di espressione. Le differenze individuali e di pensiero risultano pressoché annientate nella logica dello scontro/dialogo di civiltà e le persone di fede e cultura musulmana vengono tutti considerati un tutt’uno, una sorta di corpus comune che altro non è che la Humma islamica. Che i fondamentalisti vogliano questo è un conto, che i leader del mondo occidentale cadano cosi’ facilmente in questa trappola ideologica è decisamente sconcertante.
Ad opporsi alla deriva liberticida e reazionaria c’è stata una coalizione di quasi 200 gruppi. Nella lista si contano molte associazioni di atei, umanisti, agnostici e laici, alcune collegate alle Chiese evangeliche, diverse facenti parte del mondo ebraico e sionista, altre che lavorano per la libertà di stampa e di espressione e per i diritti umani, un buon numero di gruppi di musulmani progressisti tra cui alcuni residenti nel mondo arabo. Per l’Italia hanno risposto all’appello solo il Partito Radicale Transnazionale e l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. Un po’ poco, vista la posta in gioco. Eppure sia a destra, sia a sinistra nessuno ha considerato importante mobilitarsi.
Il lodevole impegno della variegata coalizione che si è battuta contro la risoluzione sulla blasfemia purtroppo non è servito a bloccare l’approvazione della stessa. Certo, le risoluzioni Onu hanno delle ripercussioni limitate ma ora il pericolo di una deriva oscurantista è ancora maggiore.
Rimane l’amara ironia di constatare che un attacco così importante alla libertà di stampa e di espressione provenga proprio da un organismo che, almeno in teoria, avrebbe come esplicito mandato di proteggere quegli stessi diritti che ora mette in discussione.
FOTO: Una manifestazione del movimento Catholics for a Free Choice
|