Da dove vengono la forza e la ricchezza straordinarie dell’arte, della scrittura di Shakespeare? Credo di poter concludere che quella forza di vita e concretezza “divine”, siano dovute al fatto che l’autore, John Florio, oltre a possedere genio, ha passato buona parte della sua vita a comunicare professionalmente, a convincere, a studiare, a insegnare, a tradurre. Ossia a fare quello che hanno fatto Michel Angelo Florio, il predicatore e suo figlio John, l’insegnante, il traduttore e il mediatore, il go-between, colui che Matthiessen ha definito “interpreter to Renaissance England of the languages and literatures of the Continent”.
Il rapporto tra vita e arte in Florio-Shakespeare è analogo a quello di Machiavelli. Il segretario fiorentino, post res perditas, traspone nei testi teorici e poi teatrali, gli stessi mezzi stilistici, lo stesso pensiero che il diplomatico professionista aveva impiegato per scrivere rapporti e legazioni. Così John Florio passa in modo geniale dal proselitismo culturale, dall’insegnamento e dalla traduzione, alla scena teatrale portandosi dietro, ovviamente, tutto di sé.
La sua professione di fede, continua sul terreno dell’invenzione, dell’arte sul quale ha deciso di intervenire con un nom de plume. È dunque di John Florio il genio shakespeariano. Un genio che con lui appare più umano e anche più logico. Infinitamente più credibile e intrigante: attivissimo sulla grande scena londinese dal 1578 al 1620 e nei primi anni con un padre dietro le quinte. Due generazioni di espatriati, di migranti scrittori, italiani di origine ebraica. Uno sradicamento e un trapianto dai frutti straordinari il loro, risultato di un genio ben radicato nella vita e nella storia dell’Europa.
Nel corso del tempo, solo artisti come Dickens, Whitman, Hawthorne, Twain, James, Chaplin insieme a Sigmund Freud e a alcuni studiosi più marginali e onesti – spesso donne escluse dal sistema di potere accademico e politico – hanno sentito, capito e avuto il coraggio di affermare che Shakespeare non era quello di Stratford.
Universale il genio di Florio, ossia di Shakespeare, come si dovrà ovviamente continuare a chiamare l’autore, utilizzando quel nome risoluto (a partire dal 1591 Florio firma Resolute John Florio le sue opere d’erudizione e, poco più tardi, usa Shakespeare per quelle di fiction) che suona come un cognome del Warwickshire ma che in realtà allude a una battaglia culturale da compiere agitando la lancia (spear) che sta ovviamente per penna. Dunque Shakespeare è John Florio – così come Voltaire è François-Marie Arouet e Mark Twain è Samuel Clemens – e non l’assurdo extra-terrestre di Stratford che legge cinque o sei lingue senza averle mai studiate, ha una cultura enciclopedica senza lasciar traccia di aver posseduto un solo libro e conosce bene e intuisce l’Italia senza mai aver lasciato l’Inghilterra!
Dell’identità floriana di Shakespeare non ci sono, ovviamente, documenti né testimonianze dell’epoca. O se c’erano, sono stati fatti sparire. Una delle prove più importanti sarebbe stata certo la biblioteca di Florio (oltre 500 volumi in quattro lingue moderne, italiano, francese, spagnolo e inglese, oltre al latino).
Se per miracolo tutti i libri lasciati da Florio in eredità a William Herbert, terzo Earl of Pembroke si ritrovassero, e tra quelli francesi ci fossero, ad esempio, le Histoires tragiques di François de Belleforest, libro tradotto in inglese solo nel 1608 e una delle fonti principali di Hamlet, allora sarebbe certo una scoperta interessante. E se poi a margine ci fossero delle note di Florio…
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Malgrado occultamenti, depistaggi e sparizioni, la dimostrazione dell’identità shakespeariana di Florio tiene, e il primo punto a favore – un fantastico caso di allusione per omissione – è proprio il silenzio e la censura che colpiscono ancora oggi la vita e l’opera di John Florio.
Nei libri più recenti su Shakespeare anche in quelli più audaci che sfidano l’ortodossia, il riferimento a John Florio occupa poche righe, mentre il padre Michel Angelo è totalmente ignorato. Certo che lessicografi e specialisti della storia della lingua si sono occupati a volte di Florio poiché i suoi dizionari e le sue traduzioni non potevano essere ignorati. Ma di lì a discuterli, interpretarli criticamente, usarli come materia preziosissima per affrontare le tante questioni irrisolte che riguardano Shakespeare, il passo era rischioso e nessuno lo ha compiuto.
Tutti si sono comportati proprio per quello che sono, degli “specialisti”, malgrado la tanto proclamata transdisciplinarità, transversalità, transculturalità! Chiusi nel ristretto dominio di loro competenza e dipendenza universitaria, che non concede licenze, questi studiosi non hanno osato avanzare ipotesi generali su un terreno guardato a vista dal dogma, dal tabù della paternità stratfordiana delle opere di Shakespeare. Così, si può dire, Shakespeare has been lost in erudition.
Negli ultimi ottant’anni, i professori di letteratura inglese, i ricercatori, gli studenti, non hanno letto Florio. In Italia, poi, ci si è attenuti rigorosamente all'ordine proveniente dalle prestigiose Università anglosassoni. La gerarchia funziona così: se i superiori non indicano su cosa e su chi lavorare, i subalterni non vedono e non fanno. Chi ha capito se lo è tenuto per sé. Omertà. Troppo rischioso far rumore su un contemporaneo del Bardo che scriveva proprio come lui: le stesse parole, lo stesso stile, lo stesso giro di frase, la sua stessa cultura, gli stessi amici, gli stessi protettori, le stesse manie e debolezze.
Il fatto è che tutto Shakespeare appare e è, nella prospettiva floriana, un’opera tradotta, ossia “trasportata” da una cultura all’altra: tradotta dall’italiano denso fra Trecento e Cinquecento, da Dante a Aretino a Giordano Bruno, da Ariosto a Tasso, da Guarini a Cinzio e a Guazzo, da varie versioni delle sacre Scritture, dal francese di Ronsard e Montaigne. E poi, proviamo a immaginare l’autore di Love’s Labour’s Lost, di Hamlet e di The Tempest nelle vesti di un traduttore e a figurarci come avrebbe tradotto Montaigne, Boccaccio o redatto un immenso dizionario delle lingue italiana e inglese: è ai testi di Florio che somiglierebbero le opere di quello scrittore! Gli Essais di Montaigne non veramente “tradotti”, ma liberamente, genialmente riscritti in un’altra lingua con dentro tutto il pensiero dell’autore ma con uno stile e delle idee decisamente shakespeariani.
Evidentemente solo “Shakespeare” era capace di un simile exploit. Oggi, finalmente, Shakespeare non è più il grandissimo autore dalla personalità sfuggente, il provinciale così curiosamente innamorato delle cose italiane, ma diviene il maggiore responsabile e il più attivo istigatore del breve rinascimento inglese. Era impensabile che l’esistenza vissuta da Florio non producesse altro che dizionari e traduzioni, anche se eccellenti! Come d’altronde era impensabile che Shakespeare non producesse niente di identificato, un’opera portatrice di opinioni, di individualità, di identità.
La coincidenza di Florio con Shakespeare consente di unire le due metà della personalità di un autore straordinario che appariva enigmaticamente inconcluso. Ora le idee, la cultura e le opinioni del cortigiano erudito si fondono con l’immaginazione e la creatività di un grandissimo artista.
Alla fine dell’indagine sulla paternità delle opere di Shakespeare, quello che conta veramente non è solo aver rivelato la nuova identità dell’autore, e affermato che colui che abbiamo creduto essere William Shakespeare di Stratford-upon-Avon in realtà è John Florio, (inglese certo, ma con un nome strano, destinato a rimanere marginale per secoli), quanto comprendere come e perché sia avvenuta questa sostituzione, il suo significato. E rivelarlo, renderlo pubblico.
La caduta di Stratford non intacca certo l’opera di Shakespeare anzi, la rende ancora più sorprendente, non perché “divina” ma perché più umana, più normale e infinitamente più emozionante. Universale e “immortale” come è sempre apparsa, quest’opera ora rivela una genesi, una storia e un proposito inediti.
Lo Shakespeare “made in Europe” ci mostra che la nascita del mondo moderno possiede una ricchezza e una complessità che riempiono di stupore.
www.johnflorio-is-shakespeare.com
FOTO: Lamberto Tassinari
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