Torna alla ribalta la tesi sostenuta da Lamberto
Tassinari sulla vera identità dell’autore
di “Amleto”, “Macbeth”, “Romeo e Giulietta”
e delle altre opere attribuite all’attore-impresario
di Stratford-upon-Avon
“The end of a lie”. La fine di una menzogna. Continua la sua marcia la causa di John Florio, l’uomo che era il vero Shakespeare. Quello che universalmente è presentato come l’autore di “Amleto”, “Macbeth”, “Romeo e Giulietta”, e altri monumenti del teatro elisabettiano, è in realtà un impostore. Non esclusivamente di sua iniziativa, anzi, l’impostura, la menzogna è essenzialmente il frutto di un’operazione nella quale si sono mescolati sciovinismo, xenofobia, e imperialismo culturale.
Lamberto Tassinari, il professore di lingua e letteratura italiana all’Università di Montréal, che aveva pubblicato nel 2008 un ponderoso saggio dal titolo “Shakespeare? Il nome d’arte di John Florio” (“Polizia e Democrazia” lo aveva presentato nel numero di luglio 2008), torna alla ribalta accompagnando la versione inglese del suo libro con incontri e dibattiti in festival e convegni letterari, ricevendo anche – ed è eccezionale data la prudenza “diplomatica” su questo argomento – il patrocinio dell’ambasciata italiana a Ottawa. E ottenendo da parte degli interlocutori, e del pubblico, una crescente dose di interesse, non priva di sorpresa.
Sono molti anni che Tassinari, toscano emigrato in Canada per motivi accademici, lavora a questa scoperta del “vero Shakespeare”. Riprendendo una tesi sostenuta nel 1929 dal giornalista Santi Palladino, ha ricostruito su basi documentate l’ambiente culturale e sociale dell’Inghilterra nella seconda metà del ’500 e nei primi due decenni del ’600, alla ricerca dell’autentica identità dell’autore di quelle opere poetiche e soprattutto teatrali che hanno creato il mito del Bardo di Stratford-upon-Avon. Un mito talmente radicato da avere assunto le paludate vesti della verità storica, ma, afferma Tassinari, solo un mito: il figlio del guantaio di Stratford, di nome William Shakspere, o Shakspeare, o Shexpir, non ha mai scritto le opere che gli sono attribuite. Non ne sarebbe stato in grado, data la sua scarsissima cultura. Nato nel 1564,aveva abbandonato la scuola primaria per lavorare con il padre, a 18 anni si era sposato con Anne Hathaway, una vedova dalla quale aveva avuto due figlie e un figlio, morto a undici anni. Dopo il 1586 probabilmente era andato a Londra per cercare lavoro. A Londra si era avvicinato all’ambiente dei teatri, diventando prima attore, poi impresario, e raggiungendo un notevole benessere che gli aveva consentito di acquistare immobili e terreni, e anche di praticare l’usura. In seguito si era ritirato a Stratford, dove era morto nel 1616. Nel suo testamento, dettato a un avvocato, elenca puntigliosamente tutti i suoi beni, fino alla biancheria e al vasellame, ma non appare un solo libro o manoscritto, una mancanza inspiegabile per il supposto autore di tante opere.
Com’è noto, seri dubbi sulla vera identità dell’autore dei lavori teatrali e poetici “scespiriani” erano stati avanzati da molto tempo, e al posto del poco credibile ex guantaio di Stratford si erano fatti i nomi dei drammaturghi Ben Jonson e Christopher Marlowe, del conte di Oxford, dell’esploratore e scrittore Walter Raleigh, del politico e filosofo Francis Bacon, del conte di Derby, e di altri. La base comune di queste ipotesi consiste nelle inverosimiglianze e lacune che caratterizzano tutte le biografie del Bardo, tutte carenti di fonti sicure e di riscontri precisi tali da garantire che quel William di Stratford avesse mai scritto qualcosa. Comunque l’eventuale sostituto è sempre stato inglese. Mentre lo studio di Lamberto Tassinari dimostra proprio che l’autore di quelle opere non poteva essere di origine inglese. Una bestemmia? Non tanto, se rileggiamo un giudizio di Jorge Luis Borges, profondo conoscitore della lingua e della letteratura inglese: “Stranamente i Paesi scelgono degli individui che non gli somigliano molto. Si pensi per esempio che l’Inghilterra ha scelto Shakespeare, e che Shakespeare è, si può dire, il meno inglese degli scrittori inglesi. Shakespeare tendeva verso l’iperbole nella metafora, e non mi sorprenderebbe che sia stato italiano o ebreo”. Talento, istinto e cultura avevano condotto il cantore di Buenos Aires sul binario giusto.
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“Il primo novembre 1550 - scrive Tassinari – un fuoriuscito italiano di origine ebrea, Michel Angelo Florio, ex frate, predicatore valdese ricercato dall’Inquisizione, traversa la Manica e sbarca nel grigiore di Londra”. L’Inghilterra si sta preparando a diventare una grande potenza militare e mercantile, ma culturalmente non è all’altezza né dell’Italia, patria del Rinascimento, né della Francia, che sul modello italiano ha elaborato la sua Renaissance. Quando Florio arriva a Londra sul trono siede il giovanissimo Edoardo VI, figlio del grande Enrico VIII che in rotta con la Chiesa cattolica ha scelto la dottrina protestante. Il profugo assume l’incarico di pastore della chiesa valdese, grazie all’amicizia di Lord Burghley (che sarà anche protettore del figlio John e di “Shakespeare”), si dedica all’insegnamento dell’italiano, e alla scrittura sempre in italiano, di opere poetiche e teatrali. Michel Angelo oltre all’italiano parla e scrive il francese, lo spagnolo, l’ebraico, il latino, il greco. “Insomma è un ‘intellettuale’ e erudito che non poteva avere difficoltà a entrare in contatto e a stringere relazione con la cerchia dell’aristocrazia colta e italofila del momento”. Al suo arrivo non parlava l’inglese, ma quella lingua era “la cenerentola d’Europa, una lingua che praticamente nessuno parlava sul continente come dirà John, suo figlio, più di un quarto di secolo dopo: passe Dover, it (this english tongue) is worth nothing”. Passato Dover l’inglese non serve a nulla, non è un idioma di cui ci si possa servire con nobili e letterati. Queste parole da parte di John Florio suonano premonitrici, considerando che con il suo nome e con lo pseudonimo di Shakespeare – lo Scuoti Lancia – fornirà a quella lingua un vigore espressivo “iperbolico”, secondo il giudizio di Borges. E questo grazie al suo genio naturale e al bagaglio culturale dovuto alle sue origini ebraiche e italiane, all’insegnamento del padre, agli studi seguiti fin da giovanissimo tra la Germania, la Svizzera, l’l’Italia e la sua nuova patria d’adozione. E al sodalizio con uno dei più straordinari protagonisti di quell’epoca: Giordano Bruno, vissuto dal 1583 al 1585 a Londra, prolifico scrittore di testi immaginifici, e autore anche di una commedia, “Il candelaio”.
Vari studiosi hanno trovato nelle opere di Shakespeare l’influenza di Bruno, ma l’uomo di Stratford non lo aveva mai incontrato, e non era in grado di leggere le sue opere scritte in italiano. John Florio per due anni si era intrattenuto con il filosofo quotidianamente.
John Florio (1552-1625), autore con il suo nome di un dizionario italiano-inglese, della traduzione in inglese degli “Essais” di Montaigne e del “Decamerone”, e di altre opere che gli conferiscono un ruolo decisamente innovativo nella letteratura inglese. Dopo la morte di Elisabetta I diventa insegnante della regina Anna, consorte di Giacomo I, e del principe di Galles. La condizione di straniero e il desiderio di non mescolarsi con l’ambiente teatrale lo spinge a usare come drammaturgo un nome d’arte, che somiglia a quello di un attore-impresario (ma la firma William Shakespeare gli sfugge in due poemetti, “Venere e Adone” e “Lo stupro di Lucrezia”, dedicati al suo amico conte di Southampton). Nasce così, e con il trascorrere del tempo si consolida, un mito che assume le fallaci sembianze di una seducente verità.
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