Intervista a Francesco Moroni, autore de
“L’Italia che resiste”. Una galleria di ritratti
di venti cittadini controcorrente attraverso cui
l’autore ripercorre un pezzo di storia
recente, ispirandosi alle vicende paradigmatiche
di esponenti della società civile
Non è imparziale il giovane autore di questo libro. E nemmeno equidistante. Francesco Moroni, classe 1978, prende posizione, si schiera senza esitare, sa perfettamente con chi stare: dalla parte di chi resiste, di chi non assiste dalla finestra allo sfacelo politico-culturale del nostro Paese solamente puntando il dito, balbettando accuse o dispensando consigli.
Scende in piazza, scrive libri (L’Italia che resiste è il secondo, dopo il saggio Soltanto alla legge, entrambi per i tipi del coraggioso editore romano Effepi Libri), s’indigna, s’impegna; organizza iniziative su legalità e memoria a Foligno con l’Associazione culturale “Sovversioni non sospette – società a lettura responsabile”, che ha contribuito a fondare, assieme ad alcuni amici, nel 2007. E sta con quelli che, non tenendo le mani in tasca, se le sporcano, come don Ciotti, che parla poco, ma agisce molto; coi magistrati in prima linea, come Giancarlo Caselli, Luca Tescaroli e Piercamillo Davigo; con il giornalista Marco Travaglio e l’intellettuale Pasolini. E poi, ancora, con Teresa Strada, Nando dalla Chiesa, Tina Anselmi, Piero Ricca. Con chi tiene la schiena dritta.
Scrive Loris Mazzetti, nella prefazione: “Tutte le storie, i ritratti, di questo importante viaggio sono di esempio, nessuno escluso. Trasudano il sacrificio, la rinuncia (dai soldi alla carriera o addirittura alla vita), di persone che hanno in comune, con competenze e ruoli diversi, la difesa della Costituzione – rivendicando il diritto dei cittadini di essere tutti uguali – e la lotta contro la violazione dei diritti. In particolare, negli ultimi anni, questa violazione è diventata costante. [...] Ci siamo perfino dimenticati delle stragi; siamo arrivati al punto di giustificare la P2 facendoci governare da alcuni suoi rappresentanti; Aldo Moro è diventato solo un anniversario; c’è chi tenta di screditare la Resistenza pur di vendere qualche libro in più; c’è chi vorrebbe sostituire Liberazione con libertà e chi vuol far credere che i ‘ragazzi di Salò’, che si unirono ai nazifascisti, erano solo italiani che presero un’altra strada”.
Francesco, perché un libro su coloro che cercano di resistere?
In un momento di grande pessimismo per le sorti di un Paese apparentemente irrecuperabile, schiavo di vizi antichi e condannato a ripetere sempre gli stessi errori, ho voluto ripercorrere un pezzo di storia nazionale con il cuore aperto alla speranza, traendo spunto dalle vicende paradigmatiche di magistrati, giornalisti, artisti, politici, esponenti della società civile uniti dal filo rosso dell’impegno civile e da scelte etiche ed intellettuali rigorose ed anticonformiste.
Occorre ripartire dalle loro esemplari testimonianze per vaccinarsi contro il virus dell’indifferenza e della rassegnazione, preludio di una irreversibile deriva della democrazia.
E’ facile che i giovani si identifichino in una persona che magari, per vari motivi, ha acquistato una certa visibilità e le consegnino, in perfetta buona fede, una delega in bianco, limitandosi a riporre in essa tutte le loro speranze di cambiamento. Cosa diresti a questi ragazzi?
Di esercitare sempre lo spirito critico, senza sconti per nessuno o deleghe in bianco. Il cambiamento passa attraverso l’assunzione di responsabilità individuale e l’impegno quotidiano di ciascuno sul campo.
E’ giusto e normale avere dei punti di riferimento cui ispirarsi, mentre i fenomeni di mitizzazione indotti dai media sono sempre rischiosi, perché – a prescindere dalle persone coinvolte – tendono a deresponsabilizzare il cittadino e ad allontanarlo da una diretta partecipazione alla vita pubblica, che magari si riduce ad un clic sulla tastiera del computer.
A fianco dell’Italia che resiste, ci sono nostri concittadini che sembrano non accorgersi della desertificazione culturale e morale del nostro Paese. Cosa impedisce di aprire gli occhi?
Scontiamo da troppi anni un gravissimo deficit di etica pubblica, in un Paese dilaniato dall’egoismo sociale e dai particolarismi politici, dove i doveri contano infinitamente meno dei diritti, incapace di introiettare i valori costituzionali e di assimilare una sana cultura delle regole.
Il delitto peggiore commesso a più riprese, nel corso della nostra storia recente, dai responsabili della gestione della cosa pubblica è stato quello di assecondare e strumentalizzare i vizi peggiori dell’italiano medio, legittimando comportamenti e culture deteriori ormai profondamente radicati e dominanti, in assenza di anticorpi democratici.
Perché da più parti si cerca di riscrivere la storia, riabilitando personaggi che dovrebbero essere lasciati solamente all’oblio?
Ogni forma di revisionismo è un’operazione di sporca propaganda che agisce sul passato per giustificare le porcherie del presente e preparare il terreno alle turpitudini future.
Lavora sulla memoria collettiva per disinnescare il senso critico dell’opinione pubblica.
Nel tuo primo libro Soltanto alla legge hai approfondito il principio di indipendenza della magistratura, senza il quale non si può nemmeno parlare di giustizia, di giudici. Chi ha timore dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati?
L’indipendenza della magistratura, oltre a mettere i giudici in condizione di operare sine spe ac metu, cioè senza speranze di vantaggi o pericoli di ritorsioni, è funzionale a garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Chi ha scheletri nell’armadio ha tutto l’interesse a sabotare il funzionamento della macchina giudiziaria, alterando le norme processuali o attentando all’autonomia dei magistrati.
E’ la cosiddetta “inefficienza efficiente”: a chi sa di essere colpevole fa comodo una giustizia lenta, costretta a far evaporare nella prescrizione anche gravi reati. Con buona pace degli innocenti e delle vittime dei reati, che invece avrebbero diritto ad una rapida definizione dei processi.
Processo breve, (contro)riforma delle intercettazioni e legittimo impedimento: norme necessarie per il miglioramento della giustizia?
“Processo breve” è una delle tante etichette truffaldine confezionate dai media asserviti per frodare l’opinione pubblica.
E’ assurdo imporre per lo svolgimento dei processi un limite temporale massimo (oltre il quale il processo “muore”, a prescindere dallo stato a cui è approdato) senza agire sulle vere cause della lentezza della macchina giudiziaria: occorre snellire le procedure, eliminando la giungla di cavilli, eccezioni e inutili adempimenti che hanno trasformato il processo in un’infinita corsa ad ostacoli.
Le intercettazioni sono il principale strumento di ricerca delle prove, un mezzo tecnico che fotografa nitidamente lo svolgimento dei fenomeni criminosi, senza quei rischi legati alla delicata valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Per capire i potenziali effetti della controriforma in corso, basta immaginare cosa succederebbe in una sala operatoria se ai chirurghi fosse vietato l’uso del bisturi. Tra “processo breve” e controriforma delle intercettazioni, si lavora alacremente per dare il colpo di grazia ad una giustizia già malandata.
Perché ti ostini a resistere?
Perché, come diceva Gramsci, “Odio gli indifferenti. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita”.
Altri libri o attività in cantiere?
Se in futuro troverò un’idea trainante, tornerò senz’altro a coltivare la mia piccola vena letteraria.
Per il momento, con l’associazione culturale di cui sono uno dei fondatori nella mia città, continuo a promuovere iniziative sui temi cruciali della democrazia e della Costituzione.
E spero, ovviamente, che il mio nuovo libro possa in qualche modo puntellare il fragile muro della memoria collettiva e dell’impegno civile.
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