Due mondi contrapposti e due modi di intendere e di vedere le questioni di camorra. Due frontiere diverse. Da una parte le donne di camorra, mogli e, sempre più spesso, vedove di boss, madri che insegnano ai loro figli ad odiare. Dall’altra le donne, le mogli, le compagne, le vedove, le madri, le sorelle delle vittime innocenti della criminalità che insegnano ai giovani ad amare e ad avere speranza.
Per molti anni della mia vita ho lavorato nella Polizia di Stato anche nelle tre regioni dove i fenomeni mafiosi sono molto sviluppati. Ho visto e conosciuto tante donne di mafia, di ’ndrangheta e di camorra. Alcune di loro le ho viste assistere all’assassinio dei mariti ed essere risparmiate dai clan avversari. Le ho viste protestare per gli arresti dei loro mariti, dei loro figli e dei loro capi. In tutte queste donne non ho mai intravisto un segno di umanità, solo cattiveria, arroganza, odio, vendetta, a volte, povertà, ostentazione e tanta miseria umana.
Nelle stesse regioni ed in particolare in Campania ho conosciuto altre donne, le madri, le mogli, le sorelle delle vittime innocenti della criminalità. Nei loro volti, oltre alla tristezza per la perdita dei loro cari, ho visto soprattutto tanta serenità e fierezza. Ho visto tante di queste donne saper trasformare un dolore immenso in testimonianza, in impegno civile. Donne che applaudono allo Stato, quando c’è.
Delle donne di mafia ho scelto di farvi conoscere la storia criminale di Rosa Amato, detta Rosetta ’a terrorista, vedova di un famigerato boss ucciso al Parco Verde, un quartiere popolare del comune di Caivano, nell’ambito delle frequenti scissioni interne ai clan per l’affermazione armata nel territorio e per il predominio nello spaccio della droga. Rosa Amato, arrestata nel maggio del 2006, è di recente tornata in libertà. Una donna che si è conquistata sul campo il nomignolo che la contraddistingue. Con l’autorità e l’arroganza che le deriva dall’essere la moglie di un boss, con modi forti e determinati, ma anche di manager del malaffare, era riuscita a coinvolgere e gestire un sistema di spaccio costituito da altre donne, madri, massaie, nonne che confezionavano e mettevano sul “mercato” dosi di hashish e cocaina. Un sistema che riusciva in un mese, secondo la Direzione Distrettuale Antimafia, a introitare 150mila euro.
Dall’altra faccia di questo mondo, a fare da contraltare allo scenario di donne criminali, ci sono i familiari delle vittime innocenti della criminalità e ci sono le donne, le madri, le mogli, le sorelle e le figlie delle persone vittime innocenti della criminalità. Si chiamano Alessandra, figlia di Silvia Ruotolo, Enza, madre di Dario Scherillo, Carmela, sorella di Daniele Del Core, Annamaria, figlia di Marcello Torre, Maria Rosaria e Stefania, madre e sorella di Fabio De Pandi, Amalia e Maria, moglie e sorella di Attilio Romanò e tante altre ancora.
E ci sono altre due donne, Mirela e Loredana. Due donne che appartengono a due mondi lontani tra di loro e che ora sono parte di un destino comune. Mirela è una giovane cittadina romena. È innamorata del suo Petru, suonatore di fisarmonica e padre dei suoi figli di 6 e di 12 anni che con la sua musica guadagnava quanto necessario a sopravvivere. Loredana è una donna giovane di Napoli, madre di M., un vivace ragazzino di 14 anni. Con il suo stipendio di insegnante precaria manda avanti l’economia familiare, ancora più in crisi dopo il licenziamento del marito.
I destini di Mirela e di Loredana si incontrano il pomeriggio del 26 maggio di un anno fa. Era un tiepido pomeriggio di primavera e alla stazione di Montesanto, nel popoloso quartiere napoletano della Pignasecca, inizia la caccia all’uomo in terra di camorra. Otto balordi criminali, a bordo di quattro motociclette, arrivano contromano alla stazione di Montesanto e, mitragliette spianate ad altezza d’uomo, incominciano a sparare. Sono gli uomini del clan Sarno di Ponticelli, alleati con i Ricci - Primo che hanno avuto l’ordine di segnare il territorio, di mandare un messaggio di morte ad un esponente di un altro (Ciro Mariano) da poco tornato in libertà nel quartiere. E non importa se le raffiche dell’agguato dimostrativo, in una stazione metropolitana affollatissima, feriscono gravemente alla spalla destra il giovane M. ed uccidono il giovane musicista Petru.
Tutto il mondo è rimasto impallidito davanti alle immagini del video che mostrano l’arroganza e l’assurda spietatezza dei clan criminali. Immagini che hanno fatto vedere anche la paura (qualcuno continua a chiamarla indifferenza, senza avere mai visto o sentito sparare un colpo di pistola) del popolo napoletano che fugge, cerca di mettersi in salvo, quando percepisce che si spara e si uccide proprio come in una guerra. Immagini che hanno fatto vedere anche la disperazione e la rabbia di Mirela davanti al corpo agonizzante del giovane compagno, lasciato a terra a morire.
Petru è morto, mentre M. è rimasto vivo solo per miracolo. Petru era un suonatore e probabilmente aveva ascoltato e suonato le strofe della Guerra di Piero del poeta de Andrè [...] a crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio […]. Probabilmente anche lui, come Piero a Ninetta, avrebbe voluto dire alla sua Mirela che [...] all’inferno avrebbe preferito andarci in inverno […].
Il 26 aprile scorso, Marco Ricci, Maurizio e Salvatore Forte sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di essere gli autori dell’omicidio di Petru e del tentato omicidio di M. Il processo si svolge il 24 maggio, davanti alla Terza Sezione della Corte di Assiste del Tribunale di Napoli.
Nel corso dell’udienza preliminare, gremita dai familiari degli imputati, Mirela e Loredana hanno chiesto ed ottenuto di costituirsi parte civile contro i presunti componenti del commando che hanno seminato il terrore a Montesanto. Il 24 maggio, lì, in quell’aula di Tribunale, certamente impaurite, ma fiere ed a testa alta, ci sono Mirela e Loredana, a chiedere giustizia, per le ferite a morte che hanno ricevuto.
Mirela a riscattare la memoria del compagno della vita che non potrà più suonare e vedere crescere i loro bambini, Loredana ad affermare la dignità e la libertà di vivere, senza paura, nei quartieri di una città che sembra ormai persa ed in preda alle bande criminali. Con lei a difenderla, un’altra donna, l’avvocatessa Elena Coccia, una toga in trincea, una donna che da sempre difende i diritti degli ultimi, una donna che arriva fino in fondo, in un territorio devastato dal dolore.
L’assenza istituzionale, almeno per ora, dal processo contro chi ha messo a ferro e fuoco la città, rimanda ad un altro poeta che ci ricorda […] questo paese devastato dal dolore, ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore […].
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