A Roma dal 16 febbraio al 13 giugno, nelle sale del Museo Fondazione Roma, è in mostra Edward Hopper. “Hopper in Città” è la prima rassegna antologica in Italia, su uno dei più conosciuti artisti americani del XX secolo.
La mostra è promossa dal Comune di Milano (già ospitata nelle sale di Palazzo Reale) e dalla Fondazione Roma - cui va riconosciuto lo stimolo iniziale al progetto - uniti per la prima volta in una partnership culturale, con il Whitney Museum of American Art, la Fondation Hermitage di Losanna e Arthemisia.
Il sodalizio è così stretto che a curare la mostra è stato Carter Foster, curatore e conservatore del Whitney Museum. La storia del Whitney Museum of American Art e dell’artista Edward Hopper sono intrinsecamente legate: la prima mostra personale dell’artista americano, nel 1920, si tenne al Whitney Studio Club. Nel corso degli anni il Whitney ospitò varie mostre dell’artista, tra cui quelle memorabili del 1950, 1960 e 1984.
In mostra sono esposte oltre 170 opere tra oli, acquerelli e disegni provenienti principalmente dal già citato Whitney ma anche dai più importanti musei americani, tra cui il Brooklyn Museum of Art di New York.
Appena varcato l’ingresso ci si sente catapultati nel famoso dipinto Nighthawks. Frequentatori nottambuli di bar (in questo caso io e dei manichini) sono inseriti, in una perfetta rappresentazione del quadro, in una scena formata da un bancone a forma di ferro di cavallo. I personaggi fanno da cornice a colori netti e abbaglianti, senza ombreggiature o sfumature. Le geometrie e i piani dell’ambiente lineari sono dritti, quasi astratti, sfumano l’installazione in tutta la sala. Sembra di essere in un racconto di Hemingway o in un bar di New York, a Greenwich Avenue. Il dipinto non c’è, ma l’atmosfera e l’immaginario che suscita è stata fedelmente riprodotta.
Lo stratagemma funziona, l’attenzione dei visitatori è totalmente catalizzata sulla finta opera e sul mondo di Hopper.
La mostra continua, suddivisa in sette sezioni, ripercorrendo tutta la produzione di Hopper dagli anni in cui studiava a Parigi - con il capolavoro di questo periodo Soir Bleu - fino al periodo “classico” e più noto degli anni ‘30, ‘40 e ’50, per concludere con le grandi e intense immagini degli ultimi anni.
La narrazione antologica è accompagnata dall’approfondimento sul metodo di lavoro di Hopper – estremamente complesso e rigoroso – grazie all’accostamento dei disegni preparatori alle opere finite.
L'esposizione sarà arricchita di un apparato biografico e storico, in cui verrà ripercorsa la storia americana dagli anni ’20 agli anni ’60 del XX secolo: la grande crisi, il sogno dei Kennedy, il boom economico, ecc. Un’occasione dunque anche per capire di più e meglio l’America di Barak Obama.
Utilizzando la metodologia comparativa si riesce a comprendere la complessità del “realismo hopperiano”, che infatti è il frutto di una sintesi di più immagini e situazioni colte in tempi e luoghi diversi e non una semplice riproduzione dal vero. Tale metodologia conferma l’analisi di un noto critico contemporaneo, che sintetizzando il lavoro di Hopper disse di lui: “un maestro la cui poetica è il realismo”.
È lo stesso Hopper, in una sua citazione, a confermare l’analisi del critico, motivando anche i suoi presenti e futuri estimatori a visitare la mostra.
“Il mio ideale in pittura è sempre stata la trasposizione più esatta possibile delle impressioni più intime evocate dalla natura”.
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