Sembra giunto in questi giorni a una svolta il dibattito su riforme fondamentali per il futuro di Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri e Guardia di Finanza: 500mila professionisti militari ai quali sono affidati, in Italia, compiti non solo di difesa, ma anche - caso unico tra tutte le democrazie occidentali - di sicurezza e repressione dei reati e degli illeciti economici e finanziari e che esprimono larga parte di quadri e vertici dei servizi di sicurezza.
In Commissione Difesa del Senato, infatti, le forze politiche starebbero per prendere posizione, e quindi per trovare un accordo in larga misura impegnativo, su temi centrali come quelli della specificità dei cittadini a status militare, del riordino delle carriere e della riforma del sistema di tutele collettive e individuali, che risale alla legge 382 del 1978, la cosiddetta “rappresenzanta militare”.
Si tratta di questioni tra loro strettamente collegate dalle cui soluzioni dipenderanno gli sviluppi, gli assetti, ma anche la cultura che nel tempo si creerà, si trasformerà e si consoliderà in istituzioni, uomini e donne che svolgono funzioni semplicemente esiziali per l’ordinato svilupo della vita democratica del Paese.
Sui tre temi in discussione, come noto, noi affermiamo da sempre che le Amministrazioni militari ed in paarticolare la Guardia di Finanza, hanno urgente bisogno di riforme profonde e strutturali, che incidano fortemente sui modelli di carriera e sui sistemi di tutela del personale.
Non è un segreto che siamo per sistemi di carriera aperti e totalmente accessibili, come avviene nella maggior parte dei Paesi anglosassoni, siamo per il riconoscimento dei diritti sindacali quale forma di rappresentanza (anche a costo di smilitarizzare il Corpo) e per responsabilità dirigenziali collegate al conseguimento, non immaginario, ma effettivo e misurato in numeri esatti, di risultati qualitativi e quantitativi che siano pubblici e specialmente valutabili sia dai vertici delle Amministrazioni, sia dalle organizzazioni civiche di cittadini in ciascun singolo contesto territoriale nella logica di “sussidiarietà orizzontale” introdotta dal novellato art. 118 della Costituzione.
Tuttavia, non viviamo nel mondo dei sogni e se l’obiettivo finale è quello di arrivare ad una Polizia economico-finanziaria efficiente ed efficace, ci rendiamo conto che oggi la situazione politica ed istituzionale dei Comparti Sicurezza e Difesa non permette l’auspicata “risoluzione” verso il sindacato e che, allo stato, i lavoratori militari possano al massimo ottenere il diritto di associazione.
In questi giorni, però, leggendo i resoconti e ascoltando le registrazioni delle audizioni che si sono svolte presso la IV Commissione del Senato, ci è sembrato emerga con grande e preoccupante evidenza che si sta correndo il rischio di una gravissima involuzione.
Le proposte, infatti, che sono state avanzate dai sostenitori di quella che noi chiamiamo la “concezione tradizionale della militarità” e che sembra stiano riscuotendo un crescenta favore nella Commissione, vanno:
1) quanto al riordino delle carriere, verso la riproposizione per le organizzazioni militari di un modello chiuso, a compartimenti stagni, con ruoli tra loro rigidamente separati, concepiti come “ghetti professionali”, e forme di avanzamento del tutto scollegate rispetto alla capacità di conseguire reali obiettivi di produttività, efficienza e qualità nell’interesse dei cittadini;
2) quanto alla riforma della legge 382 del 1978, verso una asfittica riproposizione di quanto già previsto dalla legge 382/1978, con conseguente gravissimo arretramento rispetto ai progressi conquistati sul campo da generazioni di delegati Cobar, Coir e Cocer dal 1978 fino ad oggi;
3) quanto alla specificità, verso la negazione di diritti anche i più elementari riconosciuti ai cittadini militari, giungendo addirittura ad ipotizzare, da parte dei vertici massimi delle Forze armate (come riferimento da un articolo del Sole 24 Ore del 10/10/2008 rinvenibile alla pagina http://www. ficiesse.it/news.php?id=2556) l’eliminazione dell’orario di servizio, degli straordinari e dei recuperi dei riposi; e a chiedere di ostacolare per legge a chi indossa le stellette il diritto di ricorrere al giudice per la tutela dei propri diritti e interessi (si vedano le affermazioni rese nell’audizione del 4/11/2009 dal Generale di Corpo d’Armata responsabile della Direzione generale del personale militare proprio di fronte alla Commissione Difesa del Senato, disponibili alla pagina http://www. ficiesse.it/pubblic/1235_216122.pdf).
Insomma, uno scenario da brividi, che non può non far intravedere una china inquietante che si rischia, nella (purtroppo) consueta disattenzione dei media e dei non addetti ai lavori, di far prendere a istituzioni vitali per la nostra democrazia.
Il punto centrale sul quale a nostro avviso ruota tutto il confronto, che non a caso e opportunamente (visto la delicatezza della posta in gioco) si dibatte da ben quattro legislature e che la Commissione Difesa del Senato è chiamata in queste settimane a tentare di sciogliere, ruota solo su un interrogativo: le richieste individuali e collettive dei lavoratori militari dovranno essere avanzate esclusivamente da organismi interni, e quindi inevitabilmente deboli e condizionati dai superiori diretti, o anche da organismi esterni e autonomi rispetto alla linea gerarchica?
I vertici militari rispondono con una sola voce: no, assolutamente no, a ogni ipotesi, non soltanto di sindacato, ma anche di semplice associazionismo esterno (in tal senso, si legga da ultimo il resoconto dell’audizione del Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri del 3/2/2010 reperibile alla pagina http:www. ficiesse.it/news.php?id=3676).
E’ chiaro, però, che impedire non soltanto il riconoscimento dei diritti sindacali, ma anche il semplice diritto di associazione, vuol dire interrompere un percorso durato trent’anni, un processo lungo, faticoso ma ininterrotto, verso la trasparenza, la democratizzazione e l’avvicinamento delle Istituzioni militari, dei loro uomini e delle loro donne, alle logiche e ai valori più intimi e pregnanti della società civile.
Eccola, secondo noi, signori parlamentari e signori cittadini, la posta in gioco: vogliamo continuare a spingere i militari sulla strada dell’avvicinamento alla società civile e vogliamo reindirizzarli verso le antiche consuetudini di completa separatezza da questa.
Ce la possiamo permettere questa inversione “ad U”? Ci rendiamo conto di cosa voglia dire rischiare di separare dalle logiche democratiche Istituzioni che fanno difesa, prevenzione e repressione dei reati e degli illeciti economici e che producono anche informazioni necessarie per la sicurezza dello Stato?
Ce lo possiamo permettere un Esercito di professionisti con tali caratteristiche ora che non esiste più neppure il controllo “di popolo” costituito dalla leva obbligatoria?
E specialmente: non è il caso che per problemi di tale rilievo per il futuro nostro, dei nostri figli e dei nostri nipoti, si solleciti il più largo dibattito e la più larga partecipazione di tutte le componenti della società civile?
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