Gian Carlo Caselli, che nella sua carriera
si è trovato di fronte ai delitti del terrorismo
e a quelli della mafia, nel suo ultimo libro
pone alcuni interrogativi e trae conclusioni
valide per il presente e il prossimo futuro
“Lo Stato ha saputo vincere la sua guerra al terrorismo ‘storico’. Contro la mafia, invece, lo Stato (più esattamente alcuni suoi consistenti settori) ha accettato di perdere una guerra che si sarebbe potuto vincere. Ha accettato di perdere pur di scongiurare il salto qualitativo: dall’accertamento delle responsabilità dei mafiosi ‘doc’, come Totò Riina, all’accertamento dei legami e delle collusioni esterne a cosa nostra”: cogliamo questa riflessione di Gian Carlo Caselli nel suo libro “Le due guerre – Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia” (Melampo Editore, postfazione di Marco Travaglio, pagg.158, ? 15,00). Due guerre, e il magistrato Caselli conosce le trincee di entrambe, nell’una e nell’altra correndo il rischio concreto di essere ammazzato. Com’è accaduto a tanti suoi colleghi.
Il quesito che pone Caselli, e che costruisce il filo conduttore del suo libro, è di fondamentale importanza in un Paese che non si distingue nel mondo civilizzato solo per la pizza e il Festival di Sanremo, ma anche - o soprattutto - per le sue eccellenti mafie Spa, uniche imprese d’affari mai minacciate di crisi. Perché è vero che l’Italia nel secondo dopoguerra si è trovata ad affrontare due nemici al suo interno, e che se uno dei due è stato sconfitto, o comunque si è dissolto, l’altro non ha mai cessato di prosperare e di impiantarsi solidamente nelle strutture portanti politiche ed economiche della nazione. Due forme di criminalità organizzata simili per alcuni aspetti, ma molto diversi per quanto riguarda il peso specifico e la capacità di acquisire strumenti di difesa e rappresentanza anche ad alti livelli. “Tuttavia - scrive Caselli - almeno in linea di principio, entrambi pongono gli stessi problemi dal punto di vista dell’attività di contrasto. Le possibilità di successo in un caso come nell’altro aumentano quando si interviene contemporaneamente su tre versanti: quello tecnico-giuridico (investigativo-giudiziario); quello culturale, necessario per rendere l’opinione pubblica consapevole; e quello - assolutamente fondamentale - dell’aggressione non solo alle manifestazioni criminali, ma anche alle radici profonde di tale fenomeno”.
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Giudice istruttore (funzione abolita nel nuovo Codice) a Torino, Gian Carlo Caselli dovette affrontare gli albori del terrorismo delle Brigate rosse nel 1973. Dai sabotaggi in fabbrica e le auto incendiate, si era passati ad azioni, non ancora cruente, contro le persone. Il 12 febbraio 1973 era stato rapito Bruno Labate, sindacalista della Cisnal, sottoposto a uno sbrigativo “processo proletario”, e rilasciato incatenato davanti ai cancelli della Fiat con un cartello al collo e la testa coperta di pece. Il 10 dicembre dello stesso anno fu sequestrato Ettore Amerio, dirigente Fiat, rilasciato dopo otto giorni. Entrambi i casi furono affidati a Caselli, e poi anche quello del rapimento del giudice Mario Sossi, rapito a Genova e liberato a Milano, con la richiesta della liberazione di un certo numero di detenuti. “Da quel momento divenni il giudice istruttore delle Brigate rosse”.
L’8 giugno 1976, mentre a Torino era in corso il processo al gruppo fondatore delle Br, Francesco Coco, procuratore generale di Genova, veniva ucciso mentre rientrava nella sua abitazione, con l’agente di scorta Giovanni Saponara, e l’appuntato dei Carabinieri Antioco Dejana. I brigatisti avevano cominciato ad uccidere, scegliendo come vittima il magistrato che si era opposto alla liberazione dei detenuti dopo il rilascio di Sossi. Il processo ai brigatisti venne sospeso.
Anche l’assassinio di Francesco Coco era stato affidato a Caselli, con una novità: il capo dell’ufficio Istruzione di Torino, Mario Carassi, decise che a indagare sulle Brigate rosse non sarebbe stato più da solo, con una confortante motivazione. “Se lavorate in gruppo e colpiscono uno di voi, il processo va avanti comunque”. E a Caselli vennero affiancati Mario Griffey e Luciano Violante. “Chissà chi lo chiamò pool per la prima volta. Di certo non il ‘sabaudo’ Mario Carassi, che all’inglese avrebbe certamente preferito il francese equipe. Sta di fatto che quel giorno nacque il pool antiterrorismo dell’ufficio Istruzione di Torino, cui seguì - dopo alcuni anni - un’analoga squadra presso la Procura della Repubblica (all’epoca era ancora in vigore il vecchio Codice di procedura penale, che affidava le indagini ai giudici istruttori, oltre che ai pm). Il pool è la traduzione in cifra operativa del metodo di lavoro basato su specializzazione e centralizzazione, metodo che Carabinieri e Polizia avevano adottato subito dopo il sequestro Sossi, creando due nuclei speciali antiterrorismo (per fortuna non troppo in concorrenza fra loro). Il modello di lavoro vincente. Perché la criminalità organizzata si può sconfiggere soltanto contrapponendo organizzazione ad organizzazione”.
La formula del pool fu poi ripresa nella lotta alla mafia, dopo che a Palermo, il 29 luglio 1983, un’auto bomba aveva ucciso Rocco Chinnici, capo dell’ufficio Istruzione; nel suo diario aveva annotato che un altissimo magistrato palermitano gli aveva intimato di non affidare processi di mafia a Giovanni Falcone, che altrimenti “avrebbe rovinato l’economia della Sicilia”: Intimazione non ascoltata. “Per rilevarne il testimone, dalla Toscana tornò nella “‘sua’ Sicilia Antonino Caponnetto. Destino volle che fui proprio io, un giorno, a ricevere una telefonata di Nino. Voleva sapere com’era nato il pool antiterrorismo di Torino, come avessimo scavalcato l’ostacolo procedurale che parlava di giudice istruttore monocratico e non prevedeva lavoro collegiale. La soluzione l’aveva trovata Carassiin un articolo delle norme di attuazione del Codice, che permetteva al capo di intestare il processo a sé, delegando uno o più giudici istruttori al compimento degli atti relativi. Su questa linea, sostanzialmente si attestò anche Caponnetto a Palermo. Così nacque il pool antimafia di Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e altri. Così nascerà, più tardi, il pool milanese di Mani pulite”.
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Tornando al terrorismo brigatista, il processo ai “fondatori” nel 1977 fu nuovamente bloccato dall’uccisione di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, che aveva assunto la difesa d’ufficio degli imputati, malgrado le loro minacce. E, a causa del clima di paura che si era creato, era stato impossibile trovare sei cittadini per formare una giuria popolare. Anche grazie a un’opera di mobilitazione di larghi strati dell’opinione pubblica, nel marzo 1978 il processo riprese, con una regolare giuria (Adelaide Aglietta, segretario del Partito radicale, estratta sorte, aveva subito accettato), anche se segnato dall’uccisione, il primo e l’ultimo giorno, del maresciallo Rosario Berardi e del commissario Antonio Esposito, (entrambi erano stati membri del Nucleo antiterrorismo della Polizia, diretto da Emilio Santillo, sciolto da tre mesi), e dell’agente di custodia Lorenzo Cutugno. Contemporaneamente le Br mettevano a segno il sequestro di Aldo Moro, con il massacro della sua scorta, e la successiva uccisione, dopo 55 giorni, del presidente della Dc.
Nel 1980 Gian Carlo Caselli si trovò a gestire, insieme al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, le rivelazioni di Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle Br (arrestato il 19 febbraio), che consentirono di portare durissimi colpi alla struttura brigatista, peraltro già in crisi. Anche se non mancarono i colpi di coda. Il 1° giugno 1981, i brigatisti, comandati – dopo l’arresto di Mario Moretti – dal criminologo Giovanni Senz’ani, rapirono Roberto Peci, fratello minore di Patrizio, e dopo una prigionia di quaranta giorni lo uccisero in una discarica: lo stesso Senz’ani filmò l’esecuzione.
Le rivelazioni di Peci portarono anche all’individuazione di un terrorista di Prima linea, Roberto Sandalo, che rivelò la presenza fra i membri del gruppo di Marco Donat-Cattin, figlio del vicepresidente della Dc. Una volta accertato che Carlo Donat-Cattin si era incontrato con Francesco Cossiga, allora Presidente del Consiglio, che l’aveva avvertito che il figlio era ricercato, da Torino il Procuratore capo Caccia (che poi sarà ucciso dalla mafia) fece trasmettere gli atti relativi al presidente della Camera, Nilde Jotti. La Commissione per i procedimenti di accusa archiviò il caso con 11 voti contro 9. “A occuparci della vicenda eravamo una dozzina, fra pm e giudici istruttori. Ma per Cossiga il ‘colpevole’ (di che, poi?) era uno soltanto: Gian Carlo Caselli […]. Ancora recentemente - in una memorabile puntata di Porta a Porta in cui si celebravano i 90 anni del senatore Andreotti - Cossiga ha invitato tutti gli italiani a prendermi ‘a calci nel culo’, con una volgarità e una violenza che - ovviamente - il signor Bruno Vespa si è guardato dal contenere”.
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Componente del Consiglio superiore della magistratura dal 1986 al 1990, e nel 1991 nominato magistrato di Cassazione, e divenuto presidente della Prima Sezione della Corte di Assise di Torino, Gian Carlo Caselli si trovò di fronte a una scelta più che difficile. Il 23 maggio 1992, nei pressi di Capaci, Giovanni Falcone era stato ucciso, insieme alla moglie e ai tre agenti di scorta. Il 19 luglio era la volta di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta. “Meno di cinque mesi dopo, il 17 dicembre 1992, il Csm mi nominò Procuratore capo della Repubblica di Palermo. Come si può facilmente immaginare, presentare la domanda non fu una decisione semplice. Amavo il ruolo di Presidente di Corte d’Assise a Torino, amavo la mia città, ero ancora sotto scorta a causa delle inchieste sul terrorismo, ero già stato via da casa per quattro anni durante il periodo del Csm”.
I sette anni palermitani di Gian Carlo Caselli saranno segnati, oltre che da decine di arresti di mafiosi -quello di Totò Riina lo accolse al suo arrivo -, 650 ergastoli e pesanti pene detentive, arsenali sequestrati, beni confiscati per 10mila miliardi di lire, e alcuni processi “eccellenti” riguardanti i rapporti tra mafia e politica.
Di questi, nel suo libro, il magistrato ricorda solo quello a Giulio Andreotti, un evento giudiziario iniziato nel marzo 1993 e concluso nell’aprile 2005 con una sentenza della Cassazione che sui versanti “ultragarantisti” si volle considerare di assoluzione. “Diciamo una cosa soltanto - precisa Caselli - c’è una sentenza della Corte di Cassazione che conferma in via definitiva quella della Corte d’Appello di Palermo, nella quale si dichiara l’imputato, senatore Andreotti Giulio, responsabile del delitto di associazione a delinquere con cosa nostra per averlo commesso (commesso!) fino al 1980. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo ora citato”. E infatti si conclude con un “non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del senatore Andreotti estinto per prescrizione”.
Vale a dire che anche in questo caso si è cercato di confondere le carte chiamando assoluzione quella che era invece una prescrizione.
Non solo “uno strafalcione tecnico”, afferma Caselli: “Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici col malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce - oibò| - a sconfiggere la mafia. La constatazione è invece che la ‘falsificazione’ dell’esito del processo è funzionale alla delegittimazione di coloro che ancora continuano a considerare doverose le indagini nei confronti di tutti, anche se potenti e protetti”.
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