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Marzo/2010 - Interviste
Trent’anni dopo
“Si respirava un clima di solidarietà e di condivisione”
di a cura di Eleonora Fedeli

La trasformazione del manicomio vista dagli occhi
di una bambina. Quelli di Alberta Basaglia


Non sono una grande fan delle fiction, eppure quella di Marco Turco sull’avventura basagliana mi ha davvero appassionata. Se non l’avessi vista, probabilmente non avrei mai pensato di leggere “L'istituzione negata”, il libro che racconta la trasformazione del manicomio di Gorizia. Un libro illuminante e rivoluzionario, che andrebbe riletto per meglio decifrare la realtà in cui viviamo oggi. Perché quell’esperienza, pagina dopo pagina, assume un valore universale: i malati di mente, infatti, sono una figura dell’esclusione, di quella parte della società in cui alberga lo spettro della diversità. Il manicomio, come tutte istituzioni di reclusione, dall’ospizio ai centri di accoglienza per immigrati, diventa un luogo di rimozione in cui occultare la nostra parte deviata, quella con cui non vogliamo fare i conti.
Di questi argomenti ho voluto parlare con Alberta Basaglia, la figlia del grande “eretico” della psichiatria, psicologa e vice presidente della Fondazione Franca e Franco Basaglia. Da anni coordina gli interventi e le attività promosse dal Comune di Venezia negli ambiti delle culture di genere, delle differenze, dei giovani e delle donne; inoltre, è Consigliera di fiducia del Rettore dell’Università di Padova contro le molestie e le discriminazioni.

Nel 1961 suo padre si trasferì a Gorizia per dirigere l’ospedale psichiatrico della città. Quando vi entrò per la prima volta aveva idea dello spettacolo che si sarebbe trovato di fronte? E, in generale, era nota alla gente comune la brutale realtà del manicomio?
L’opinione pubblica no, non era al corrente di ciò che era il manicomio. Lui non l’aveva mai vissuto direttamente, per cui è stato un vero choc quando ci entrò per la prima volta. Nel libro “Morire di classe” c’è una citazione da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, in cui viene descritto ciò che accade ad un uomo quando entra in un campo di concentramento: quella frase descrive perfettamente cosa significava allora essere chiuso in un manicomio.

La psichiatria istituzionale prevedeva trattamenti come l’elettroshock per sedare le crisi dei pazienti. Oltre a questi metodi era previsto anche un supporto terapeutico di tipo psicologico?
L’elettroshock, l’insulinoterapia, le vasche con l’acqua fredda e la contenzione erano considerate una cura, nel senso che una persona che faceva delle cose inconsulte non poteva che essere costretta. Però non si può dire che la psichiatria tradizionale prevedesse solo quello, perché a metà del Novecento ci sono stati anche Freud e Jung.
L’istituzione rispondeva in quel modo lì, però esistevano anche studi e correnti di pensiero che affrontavano in modo diverso la cura della malattia mentale.

Nel saggio Le istituzioni della violenza Franco Basaglia afferma che l’esclusione del malato dalla società è «più strettamente legata al suo mancato potere contrattuale (alla sua condizione sociale ed economica) che non alla malattia in sé». Questo significa che i ricchi con problemi mentali erano assistiti in strutture diverse? E, in tal caso, i trattamenti ai quali venivano sottoposti erano gli stessi degli ospedali psichiatrici?
In quel periodo c’erano due pesi e due misure: chi non aveva le possibilità economiche finiva in manicomio, chi invece le aveva era seguito in cliniche private. Se lei ricorda, nel film di Marco Turco durante una delle assemblee uno dei malati si lamenta del fatto che solamente ai poveri vengono tolti i diritti. Chi finiva in manicomio, infatti, era bollato a vita come persona pericolosa per sé e per gli altri.

In questo senso il manicomio più che un’istituzione medica sembra un’istituzione politica.
Io direi un’istituzione carceraria, in cui andava rinchiuso il diverso. In tal modo nessuno doveva farsene carico né accettare che esistesse, tantomeno preoccuparsene. Bastava non vederlo: dopodiché come veniva gestita la sua sorte non era più un problema che spettava alla società.

E’ corretto affermare che l’approccio di suo padre nei confronti della malattia non era solamente medico, ma anche sociologico?
Assolutamente sì. Tutti gli studi legati alla fenomenologia che aveva fatto durante il periodo della clinica universitaria hanno portato a quello, ad un approccio fenomenologico della malattia, finalizzato a trovare le ragioni che portano alla malattia attraverso un rapporto reciproco tra medico e paziente.

Quando nel 1978 fu approvata la legge 180 non mancarono i dubbi e le polemiche di chi sosteneva che i malati sarebbero stati scaraventati in una realtà non ancora in grado di riaccoglierli. Lei pensa che l’Italia in quel momento era davvero pronta per una riforma così rivoluzionaria?
Io credo che quando si fanno delle riforme così rivoluzionarie, così dirompenti, la società non sia mai pronta, perché è in ogni caso un’entità che tende a difendersi. A maggior ragione quando viene approvata una legge che rompe in questo modo gli schemi, costringendo tutti a prendersi carico delle persone con problemi mentali.
La 180, però, non è stata fatta così di punto in bianco, ma dopo venti anni di lavoro, di deistituzionalizzazione da un lato, ma anche di creazione di una alternativa. In tutti gli anni che l’hanno preceduta è stato dimostrato che esisteva un altro modo per gestire la malattia mentale.

C’erano in quel momento servizi adeguati per mettere in pratica questa alternativa?
In alcuni posti c’erano. Nelle strutture che sono passate dalla deistituzionalizzazione alla gestione alternativa della sofferenza psichiatrica la legge 180 è stata applicata senza dare nessun problema.
A Trieste, ad esempio, erano stati costruiti i centri di salute mentale aperti ventiquattro ore su ventiquattro e il servizio di diagnosi e cura all’interno dell’ospedale generale, per cui se era necessario ricoverare un trattamento sanitario obbligatorio c’era la possibilità di farlo. I centri di salute mentale oltre che essere aperti, mettevano a disposizione gli operatori per le visite a domicilio.
Inoltre venivano messe a disposizione una serie di case e di appartamenti dove le persone che erano in manicomio vivevano insieme: alcune erano autogestite, altre seguite da operatori. Se nel territorio c’è un’alternativa al manicomio, è dimostrabile che la 180 non solo non fa danni, ma fa sì che una società civile si occupi anche delle persone che soffrono.
Certo è che laddove il manicomio, come è successo in alcune parti d’Italia, è stato chiuso per legge senza che nel territorio ci fosse un servizio che si occupasse dei malati di mente, l’applicazione della 180 diventa più difficile.

Mi può parlare di come suo padre ha trasformato questi luoghi, dell’atmosfera che c’era?
Io le posso raccontare una realtà vista dagli occhi di una bambina. Si era creata una sorta di famiglia “allargata”, nel senso che si respirava un clima di solidarietà e di condivisione tra tutto il gruppo delle persone che lavoravano.
Sia a Gorizia che a Trieste c’era un’atmosfera comunitaria: c’erano le famiglie, i figli di medici e infermiere, c’erano i pazienti. Io sono cresciuta in un clima di condivisione totale di tutto: non avevo la famiglia che avevano le mie compagne di scuola, cioè dei genitori che andavano a prenderle. Però in compenso avevo una quantità di persone su cui fare affidamento che sicuramente le mie amiche non avevano.
Di fatto, crescere in un’atmosfera simile ha fatto sì che io non potessi che scegliere di continuare a stare in un clima di quel tipo. Sono diventata una psicologa, ma non poteri mai essere una di quelle rinchiuse nel suo studio: ho scelto di lavorare con le donne maltrattate e con i giovani, di mettere in piedi un servizio che ha lo stesso atteggiamento di ascolto, con l’intento di dare la parola a persone che normalmente non ce l’hanno. Un po’ con la stessa filosofia di fondo.

Diciamo che lei ha visto la parte trasformata
Io ho visto la trasformazione da quando è stato possibile far entrare anche i bambini, non ho visto gli orrori. Però sono entrata in contatto con persone che erano state costrette, legate per anni, persone che non ero abituata a vedere.

Erano persone così pericolose come venivano descritte? Perché se dei bambini potevano entrare in quei luoghi, viene da pensare che forse non sempre erano persone di cui aver paura.
In realtà i bambini che entravano in quei luoghi talvolta si trovavano ad affrontare anche delle situazioni difficili. Comunque non erano mai da soli.
Io ricordo di essermi trovata in situazioni in cui persone facevano delle cose inconsulte, però la mia paura è sempre stata mediata dalla presenza di qualcuno che mi ha fatto capire che non bisognava averne. Oppure sì, che si poteva aver paura, ma che aver paura è normale di fronte ad una cosa che per te è diversa. Il problema è che non devi scappare.

Questa è la cosa che più mi ha affascinato di questa storia…
Anche a me. Quando mi chiedono che qual è la cosa che più ha segnato la mia crescita, io dico sempre che è aver imparato che non si deve aver paura della paura.
Alle persone devono essere dati gli strumenti per affrontare le proprie paure. La paura non va negata, va riconosciuta come un sentimento legittimo, dal quale però non bisogna fuggire. La fuga è esattamente il contrario del rapporto, della reciprocità.

Sono passati più di trent’anni dall’approvazione della legge 180. Qual è oggi in Italia la situazione relativa al problema della salute mentale? Le strutture e le risorse economiche destinate a questo importante settore della sanità sono sufficienti a far fronte ai bisogni dei cittadini con malattie mentali e delle loro famiglie?
La riforma sanitaria in cui è inserita la 180 prevede che ad occuparsi della salute siano le Regioni. In Italia la situazione rispetto all’applicazione della legge 180 cambia di Regione in Regione.
Ci sono luoghi in cui la 180 viene applicata senza che le persone con sofferenze psichiatriche pesino né sulla società né sulle famiglie. Questo non vuol dire che la gente può non occuparsene, dico che però ci sono delle risposte adeguate. In altri luoghi, invece, queste strutture non sono sufficienti.
Il problema è legato alle risorse che le diverse Regioni impiegano e quanto si impegnano nella gestione di questo problema. E’ un fatto legato non solo alle scelte economiche, ma anche alla politica sanitaria locale.

Molti Paesi si sono ispirati al sistema proposto da Basaglia. Lei crede che possa esistere un modello unico di salute mentale, a prescindere dalle differenze tra i singoli Stati?
Il problema di fondo è quello di riconoscere una dignità a persone che hanno un certo tipo di sofferenza. Questo credo che possa valere in qualunque Paese del mondo, poiché si tratta di uno dei diritti fondamentali degli esseri umani. Penso che se per modello si intende quello di creare servizi aperti ventiquattro ore su ventiquattro nel territorio, o avere un punto all’interno dell’ospedale civile per la malattia mentale, allora credo che sia esportabile. Dopodiché ogni Paese ha anche la sua storia, quindi non si può esportare ciecamente, ma questo è valido per tutto.
La riforma italiana prevede che la malattia mentale sia considerata alla stregua di tutte le altre e che quindi vada affrontata nell’ambito della medicina generale, dove ci si cura per tutto. Certo, per la malattia mentale non bastano le medicine, ma serve una cura che passi attraverso la relazione con il malato. Ma questo approccio, a mio parere, dovrebbe valere anche per tutte le altre malattie.



FOTO: Una immagine della fiction: Basaglia introduce le assemblee, riunisce in una grande stanza i malati e li invita a parlare, inizia il lungo processo volto a restituire la parola a quegli uomini e donne, angosciati dalla malattia, abbrutiti da trattamenti disumani

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