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Marzo/2010 - Interviste
Lager di Bolzano
“Per non dimenticare”
di a cura di Michele Turazza

Intervista a Bartolomeo Costantini, Sostituto
Procuratore generale a Trento, già Procuratore
militare della Repubblica a Verona, che ha
riaperto il caso sugli eccidi commessi
dall’ex SS Misha Seifert

“Che senso ha il processo a carico del boia di Bolzano?”. Si è sentito rivolgere spesso questa domanda Bartolomeo Costantini, da quando - in qualità di Procuratore militare di Verona - ha riaperto il fascicolo con gli orrori commessi nel lager di Bolzano da Misha Seifert, giovane ucraino arruolatosi nelle SS. E a questa domanda ha cercato di dare una risposta nella sua appassionata requisitoria, il 24 novembre 2000: “Approfondendo l’indagine, l’esame di questo tipo di domanda o, meglio, dei sentimenti, delle motivazioni di questa domanda, ci siamo resi conto e siamo convinti che essa si iscriva in quel clima torbido di revisionismo che stiamo vivendo in questo scorcio di secolo e che mira a riscrivere la storia, non in base ad un più attento esame dei documenti, delle testimonianze, bensì a proprie pregiudiziali ideologiche, per giungere alla fine a risultati inaccettabili: la parificazione tra fascismo e antifascismo, tra resistenza e fedeltà al nazismo, l’omologazione tra chi moriva per difendere la libertà e chi invece per sostenere la dittatura nazifascista col suo corredo di orrori”.
Per non dimenticare, dunque, e per restituire la dignità del ricordo alle vittime di quella cieca, vigliacca e arrogante violenza, il dottor Costantini ha iniziato le indagini con tenacia e altissima professionalità, interrogando chi assistette agli eccidi nel lager di Bolzano e presentando prove che hanno condotto alla definitiva condanna all’ergastolo di Seifert. “Alla metà di questo secolo, durante una di quelle guerre universali, scatenate dalla follia di uno di quei regimi totalitari, un caporale poco più che ventenne, il nostro Michael Seifert, commise ignominie senza nome, atti abominevoli [...]. Egli agiva con il consenso, o, almeno, fidando sulla benevola indifferenza dei superiori, dal più vicino graduato al supremo Fuehrer. Alla fine di questo secolo assistiamo a un pullulare di guerre fra popoli, con stragi e genocidi, che dimostrano come il ripudio della violenza bellica quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, principio solennemente affermato anche dalla nostra Costituzione, non sia un dato di civiltà comunemente acquisito”.

Nel 2000 è stata istituita con legge n. 211 la Giornata della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Dottor Costantini, che cos’è per lei la memoria?
La memoria è un capitale che ci viene affidato con l’obbligo di non dilapidarlo, anzi di metterlo a frutto. Memoria è ciò che siamo stati e ciò che siamo, per prepararci ad essere domani. Certi delitti si possono anche perdonare, purché lo vogliano le vittime, o quanto meno i loro eredi, ma non si devono dimenticare: come ha detto Primo Levi, in riferimento alla Shoah, nella magnifica poesia che introduce il suo capolavoro Se questo è un uomo: “Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli”.

Come si può evitare che le celebrazioni in ricordo di qualcuno o di qualche significativo evento della nostra storia restino mera retorica?
Raccontando in maniera piana e ragionevole quello che è stato, esponendo i fatti, se possibile con l’aiuto di testimoni. Serve una memoria “attiva” per creare degli anticorpi contro il pericoloso virus dell’oblio o, peggio ancora, del revisionismo.

La funzione giudiziaria può contribuire alla memoria?
Certamente. Certi processi che si stanno celebrando anche in questi giorni presso il Tribunale Militare di Verona sulle stragi naziste dell’Appennino Tosco-Emiliano del ’44 hanno un forte valore simbolico. Oltre ad essere un obbligo giuridico la celebrazione di processi per reati che non cadono in prescrizione, è anche un dovere morale, per conservare viva la memoria.

Lei è stato pubblico ministero nel processo a carico di Michael Seifert, noto come il boia di Bolzano. Perché questo processo, su fatti avvenuti ormai sessant’anni fa e nei confronti di un uomo di novant’anni?
Adesso ne ha ottantasei, ma quando ha commesso quegli odiosi reati ne aveva meno di venti, non dimentichiamolo! A parte questo, ci sono una serie di ragioni per la tardiva celebrazione del processo. Seifert fu individuato e denunciato già nel ’45 da privati e da vari organismi, Cln e Carabinieri. Fu aperto un procedimento già allora nei suoi confronti, ma era sparito dall’Italia dopo varie peregrinazioni in Alto Adige, Germania; erano stati smarriti i suoi documenti nella natia Ucraina nella quale non poteva fare ritorno essendosi arruolato nelle SS durante l’occupazione tedesca. Per tale ragioni, la procedura istruttoria che era stata aperta proprio a Verona si chiuse con una archiviazione perché, appunto, non era stato possibile rintracciarlo. Poi, una serie di fortunate circostanze ha determinato nel 1999 il suo ritrovamento in Canada, grazie alla collaborazione della magistratura tedesca e della Croce Rossa.

Quali erano i capi di imputazione?
Violenza contro privati nemici, aggravata dal fatto dell’omicidio, commessa dall’estate del 1944 all’aprile del 1945 nel Lager di Bolzano. Tale reato - previsto dal Codice penale militare di guerra, che si applica anche in tempo di pace se il fatto è scoperto o giudicato successivamente - può essere commesso sia dai militari italiani nei confronti dei privati nemici che, viceversa, dai militari nemici nei confronti degli italiani.

Quali sono state le fonti di prova raccolte?
Sono state di diversa natura. Innanzitutto la memoria storica rappresentata dai libri, poesie, racconti che erano stati scritti su questo individuo che terrorizzava le persone. Bellissima la poesia in veronese del grande antifascista, deportato a Bolzano, Egidio Meneghetti, rettore dell’Università di Padova nel dopoguerra. Abbiamo poi acquisito gli atti giudiziari dei processi che furono celebrati nell’immediato dopoguerra davanti alle sezioni straordinarie di Corte d’Assise (istituite anche a Bolzano) per reati di collaborazionismo a carico di civili, che avevano collaborato coi tedeschi.
Abbiamo infine svolto una indagine molto estesa, partendo dalle schede dell’Archivio storico del Comune di Bolzano, individuando una serie di persone che avrebbero potuto testimoniare e quindi delegando Polizia e Carabinieri di tutto il nord Italia a sentirli. In moltissimi casi ho proceduto io stesso, personalmente, agli interrogatori. Queste fonti testimoniali dirette sono state importantissime, in quanto rese da persone che avevano assistito agli eccidi del lager.

Come si sentiva l’“uomo” Bartolomeo Costantini mentre ascoltava i pochi ex internati ancora in vita, che hanno testimoniato?
Ho cercato di rimanere, per quanto possibile, freddo e distaccato, perché il mio lavoro di magistrato lo esige. Certo, a volte era difficile non turbarsi ascoltando quelle narrazioni di altissima tensione emotiva su crimini ed eccidi così efferati ed atroci.

C’è una testimonianza che l’ha colpita in modo particolare?
Certo, più d’una. Ricordo quella di un prete trentino, don Girardi, uomo tenace e coraggioso, che era stato internato nel lager di Bolzano perché sospettato di prestare assistenza ai tedeschi disertori. Don Girardi mi disse che in certi momenti aveva voglia di reagire alle angherie subite, non riuscendo ad attuare il messaggio evangelico del perdono: una volta, dopo esser stato colpito con un calcio da un kapò del lager, gli rispose in tedesco “Heute mir, morgen dir!” (Oggi a me, domani a te).
Un’altra testimone importante è stata la signora Marisa Scala, originaria del veronese e partigiana, deportata nel lager, che assistette personalmente ad alcuni omicidi. E ancora Luciana Medici, internata perché figlia di un colonnello degli Alpini passato alla Resistenza senza aderire alla Repubblica di Salò. Impressionante fu la testimonianza di un altoatesino che era stato arrestato dai tedeschi perché aveva un fratello renitente alla leva; internato nel lager di Bolzano, vi faceva l’infermiere e assistette a diversi degli omicidi di Seifert e del suo complice Otto Sein.

Qual è stato l’esito del processo a Seifert?
La condanna alla pena dell’ergastolo inflitta dal Tribunale Militare di Verona nel 2000, confermata l’anno seguente dalla Corte Militare d’Appello, sempre a Verona, e divenuta definitiva nel 2002 con la sentenza della Cassazione. E’ quindi stata avviata la procedura per l’estradizione, conclusasi nel 2008. Attualmente Seifert è detenuto nel Carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta).

Il processo ha avuto inizio ed è stato celebrato solamente a distanza di decenni dalla Commissione dei fatti, in quanto gli atti relativi a crimini di guerra commessi nel periodo 1943-1945 erano stati “provvisoriamente archiviati” e trattenuti nell’ambito della Procura generale Militare presso il Tribunale Supremo Militare, anziché essere assegnati alle Procure militari territorialmente competenti per l’obbligatorio esercizio dell’azione penale. Com’è stato possibile?
Subito dopo la fine della guerra, quando ancora non si sapeva se i Tribunali militari sarebbero rimasti in vita - solo con la Costituzione del ’48 si sarebbe deciso di mantenere l’ordinamento giudiziario militare - sorse l’esigenza di accorpare le prime indagini in un ente centrale, anche per agevolare la collaborazione con gli Alleati che tenevano prigionieri i criminali nazisti. Fu creato a Roma, dalla Procura Generale Militare presso il Tribunale Supremo Militare, un ufficio ad hoc, con lo scopo di raccogliere dati, fascicoli, elementi utili e coordinare tutte le indagini. Peraltro, anche dopo si trattennero illegittimamente i fascicoli, non provvedendo a smistarli alle Procure militari competenti per territorio.
Li tennero lì, ammucchiati in quello che qualche giornalista definì “l’armadio della vergogna”, svolgendo blandamente soltanto qualche indagine cartolare e nel 1960 furono disposte le “archiviazioni provvisorie”: provvedimenti del tutto illegittimi, non previsti nel nostro codice di procedura penale. Nel corso delle indagini su Priebke venne riscoperto questo armadio e a metà degli anni ’90 furono distribuiti alle varie Procure Militari i fascicoli, fra cui quello riguardante Seifert. Ripresero dunque anche le indagini nei confronti del Seifert e grazie alla collaborazione strettissima con l’Autorità giudiziaria tedesca, in particolare con la Procura di Dortmund, e con quella canadese (Ministero della Giustizia e Procura di Vancouver), siamo arrivati a giudicarlo in contumacia, e a chiedere e ottenere la sua estradizione dal Canada.

Come ha appena ricordato, le archiviazioni provvisorie disposte nel 1960 furono del tutto illegittime. La relazione finale approvata nel 1999 dalla Commissione d’indagine, istituita dal Consiglio della Magistratura Militare per cercare di far luce sulla vicenda, parla senza mezzi termini di “grave violazione della legalità” da parte della Procura Generale presso il Tribunale Supremo Militare, “Ufficio responsabile, senza possibilità di controllo da parte di altri organi giudiziari, dell’indebito trattenimento dei fascicoli sui crimini di guerra”. Da chi era nominato il Procuratore Generale militare e da chi dipendevano i magistrati militari all’epoca dei fatti?
Al vertice di tutta la Magistratura militare, giudicante e requirente, c’era il Procuratore Generale Militare, che veniva nominato dal governo. Non esistevano garanzie di indipendenza e di inamovibilità per i magistrati militari. La magistratura militare era dunque un organo giudiziario fortemente soggetto al controllo del potere Esecutivo. Fu proprio il Procuratore Generale militare, nel gennaio del 1960, a disporre quelle archiviazioni provvisorie, provvedimenti, ripeto, del tutto sconosciuti all’ordinamento.

Secondo Lei, la mancanza (o comunque la forte limitazione) di autonomia ed indipendenza per i Giudici militari, organizzati gerarchicamente, e la loro sostanziale dipendenza dal Governo, può essere considerata, e in che misura, concausa dell’abusivo trattenimento dei fascicoli nell’armadio della vergogna?
Certamente sussiste un fortissimo nesso tra la mancanza di autonomia ed indipendenza e la possibilità di agire in modo non perfettamente conforme alla legge e alla Costituzione, come nel caso dell’indebito trattenimento dei fascicoli a Roma. Si ritiene infatti che il Procuratore Generale militare adottò quella decisione non per sua scelta, ma perché sollecitato in tal senso dal Governo dell’epoca.

La relazione del Cmm accenna anche alla “ragion di Stato” e a “motivi di opportunità politica”, quali furono?
E’ evidente che gli equilibri strategici erano cambiati: la Germania da Paese nemico era diventata alleata e sarebbe dovuta entrare nella Nato. Inoltre questa riluttanza ad indagare sui militari tedeschi nostri nemici dipendeva anche dalla resistenza che l’Italia opponeva agli Stati, ad esempio Albania, Grecia e Yugoslavia, che chiedevano l’estradizione dei nostri criminali di guerra. Come avrebbe potuto allora l’Italia chiedere l’estradizione alla Germania, nello stesso momento in cui stava respingendo le medesime richieste dei Paesi già nostri nemici, contro i quali l’Italia aveva adottato politiche belliche criminali? Si decise allora di celebrare solo alcuni processi “esemplari”, come quelli a carico di Kappler (Fosse Ardeatine) e di Reder (Marzabotto), mentre gli altri, solo relativamente meno importanti, vennero trascurati.

Cosa è cambiato per i magistrati militari con la riforma dell’ordinamento giudiziario militare del 1981?
Fu una rivoluzione copernicana. Essa realizzò un adeguamento della giustizia militare ai principi costituzionali che già regolavano quella ordinaria, come l’indipendenza, l’autonomia, l’inamovibilità. Fu istituito il giudizio di appello. Fu abolito il Tribunale Supremo militare, devolvendo la competenza del giudizio di legittimità alla Cassazione. Venne costituito l’organo di autogoverno, il Consiglio della Magistratura Militare, con le stesse competenze del Consiglio Superiore della Magistratura, così sottraendo le sorti dei magistrati alle scelte del governo.

Se l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura consentono di esercitare il controllo di legalità secondo il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, al riparo da indebite pressioni di lobby e poteri forti, perché ormai quotidianamente i magistrati, in particolare quelli impegnati in delicate indagini sulle mafie, vengono screditati e attaccati?
E’ in crisi il principio della divisione dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo sistema di bilanciamento di poteri prevede che il Parlamento approvi le leggi, il Governo le attui e il potere giudiziario eserciti il controllo di legalità. Esso aveva trovato in Italia a livello costituzionale un’eccellente realizzazione. Ed è in crisi perché si è trovato di fronte lo strapotere economico che mal vede non solo le procedure parlamentari democratiche di discussione ed approvazione delle leggi ma anche, e soprattutto, il controllo esercitato dal potere giudiziario. Tale crescita del potere economico non è comunque tipica solamente del regime capitalista ma anche di altri sistemi di governo.

Le riforme dell’ordinamento giudiziario, approvate dalla metà degli anni novanta ad oggi, schiudono, ad una lettura non superficiale, scenari a dir poco inquietanti: perché nel 1999 si è arrivati alla riforma, solo apparentemente innocua e di buon senso, dell’articolo 111 della Costituzione? Come ha inciso concretamente sull’attività degli inquirenti?
Quelli della riforma del 1999 erano principi esatti nella loro astrattezza, che però hanno trovato un’errata traduzione nella pratica. Ora gran parte del processo viene impiegata, più che per arrivare alla ricostruzione dei fatti, per affrontare e rimuovere ostacoli procedurali: c’è un forte sbilanciamento del tempo processuale impiegato verso la parte procedurale, che va a favore dell’imputato e a sfavore delle vittime dei reati. E, attenzione, non c’entra nulla il garantismo: un conto sono le necessarie garanzie di difesa, un altro le esasperazioni di ordine formale, che dilatano a non finire i tempi della giustizia e rallentano l’accertamento della verità dei fatti. Ma il peggio deve ancora venire: temo ulteriori modificazioni del codice in questa direzione.

Cosa ne pensa della separazione delle carriere, da molti considerata come la panacea di tutti i mali della giustizia?
E’ un falso scopo. Oggi è già prevista dal sistema una separazione delle funzioni molto marcata e “severa”, che impedisce ad esempio di cambiare funzioni, da giudicanti a requirenti, rimanendo nello stesso distretto, ed altri meccanismi di questo tipo. La separazione delle carriere è pericolosa per una ragione semplicissima, facilmente intuibile da chiunque: se si separano le carriere e si istituisce un pubblico ministero autonomo, dotato di propri poteri di indagine, esso diventa ineluttabilmente troppo forte e sarebbe quindi necessario sottoporlo al controllo, e dunque alle dipendenze, del potere governativo. E molti ritengono che sia questo il vero scopo che si intende realizzare - conseguenza diretta della crisi della separazione dei poteri di cui ho parlato prima - anche se ci si nasconde dietro il paravento della maggiore professionalità e dell’efficienza dell’azione giudiziaria.

Le riforme in esame - cosiddetto processo breve, intercettazioni, ecc. - incideranno positivamente sulla funzionalità della giustizia?
Vorremmo tutti crederlo, ma risulta veramente difficile. Sono anni che alle inaugurazioni dell’anno giudiziario nei distretti di Corte d’Appello, i vari Procuratori Generali hanno denunciato in modo estremamente pesante questa inesorabile involuzione del sistema, nel senso che non c’è stato e non si registrerà alcun beneficio sull’accelerazione dei processi, sulla definizione in tempi ragionevoli dei procedimenti. Altre sarebbero le riforme necessarie: tanto per esemplificare, una adeguata depenalizzazione, uno sfoltimento delle eccezioni di nullità, delle notifiche, un potenziamento delle strutture giudiziarie. Sono almeno dieci anni che non vengono rinnovati gli organici del personale ausiliario nelle cancellerie, è stato bloccato qualsiasi turn over, e sono sempre di più i funzionari che vanno in pensione. La crisi grossa e grave è proprio nelle strutture amministrative dei tribunali, nel personale ausiliario che manca o è ridotto all’osso. Per non parlare di quella infelice disposizione (voluta dal governo di centro destra, ma confermata da quello di centro sinistra) che impedisce ai magistrati di prima nomina l’esercizio delle funzioni di sostituto procuratore della Repubblica: una norma che sta svuotando le Procure in tutta Italia.

Cos’è cambiato in tutti questi anni nel rapporto della magistratura con la politica e coi cittadini?
Anni fa il magistrato era rispettato, circondato da un’aura di rispettabilità, di dignità, che derivava dalla funzione esercitata. Oggi questo atteggiamento è stato completamente sconvolto. C’è stata una campagna molto greve di aggressione alla credibilità di tutta la giurisdizione: il che non significa negare la possibilità ed anzi la piena legittimità di critiche per omissioni e difetti, che nessuno nega ci siano. Ma tali marginali disfunzionalità non giustificano questo discredito continuo, questa campagna di denigrazione costante e ripetuta: un conto è criticare le sentenze, molto diverso è dare dell’assassino a un magistrato che abbia adottato un provvedimento sgradito (è successo anche questo, non dimentichiamolo). Alcuni giornalisti e commentatori televisivi hanno fatto fortuna con tali forme di aggressione. Inoltre, non si può accusare un magistrato che emette una decisione che politicamente non piace, di essere stato assoldato dalla parte avversa: il magistrato deve fare e fa il suo dovere e basta, e va giudicato soltanto per questo, non per le sue ipotizzate propensioni politiche.

Un suo pensiero, dopo oltre 40 anni di carriera, sul lavoro svolto e su quello che ancora la attende.
Posso rispondere citando ancora una volta Primo Levi: “…l’amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra” (da “La chiave a stella”).

“Non dimenticare è un obbligo morale e anche giuridico. Lo vuole la nostra Repubblica. E se qualcuno, ora, volesse dimenticare o continuare a tentare di confondere le acque e le menti nella sua opera di mistificazione, dovrebbe farlo con maggiore disagio, dovrebbe trovare qualche difficoltà”.
[Le parti in corsivo sono tratte dalla requisitoria nel procedimento contro Seifert].



FOTO: Nato in provincia di Bari nel 1938, Bartolomeo Costantini è stato magistrato militare fino al 2008, sempre con funzioni requirenti, da ultimo come Procuratore militare della Repubblica di Verona. Ha fatto parte del Consiglio della magistratura militare dal 1993 al 1997 ed è stato presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Militari. Nel 2008 è transitato alla magistratura ordinaria, con le funzioni di Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Trento.

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